1.10b 1500-1550 Medicina, Cervello e Chirurgia cranica / Medicine, Brain and Cranial Surgery.

 

1543.  ANDREA VESALIO (da WIESEL) (1514-1564). 

Andrea Vesàlio, forma italianizzata di Andreas van Wesel (1514-1564). Il suo nome è dato anche come Andrea Vesalius, André Vésale, Andrea Vesalio, Andreas Vesal, André Vesalio e Andre Vesalepo. È stato un anatomista e medico fiammingo. È considerato il fondatore della moderna anatomia. Fu medico di corte dell’imperatore Carlo V d’Asburgo e poi del figlio Filippo, e il primo a farsi assertore del superamento dell’antica medicina galenica (che egli rigettò in maniera integrale) e di una completa riscrittura delle conoscenze anatomiche e mediche, attraverso lo studio autoptico del corpo umano e la pratica della dissezione dei cadaveri, che egli perseguì con intento metodico. Fu autore del De humani corporis fabrica libri septem (spesso citata ellitticamente come Fabrica), prima opera scientifica di anatomia, pubblicata nel 1543 a Venezia, arricchita da una variegata rassegna di disegni e illustrazioni del corpo umano. L’opera, summa del pensiero vesaliano post-galenico, fu ripresa per la gran parte, nel corredo iconografico, nell’Historia de la composición del cuerpo humano (1552) dello spagnolo Giovanni Valverde, che contribuì a diffondere nei paesi di cultura ispanica l’opera del Vesalio. Fu allievo ed amico di Giovanni Battista Monte.  Nacque a Bruxelles il 31 dicembre 1514 da famiglia benestante e tradizionalmente legata alla professione medica. Suo bisnonno era stato medico di Maria di Borgogna e docente all’Università di Lovanio, suo nonno lavorò anche lui come medico per Maria di Borgogna e scrisse una serie di commentari agli Aforismi di Ippocrate ed in ultimo suo padre, anch’egli di nome Andrea, fu medico e farmacista per l’imperatore Carlo V. Con queste premesse, fu abbastanza naturale che quando Vesalio divenne uno dei più conosciuti medici ed anatomisti europei, gli fu offerto l’incarico di medico personale dell’imperatore presso la corte spagnola. Le sue origini, certamente non umili, gli permisero di ottenere un’ottima istruzione: la sua formazione avanzata iniziò nel Paedagogium Castri, una scuola preparatoria connessa all’Università di Lovanio e successivamente nel Collegium Trilingue. Studiò il latino, il greco e l’ebraico. La sua conoscenza del latino divenne così profonda che, utilizzando questa lingua, a ventitré anni egli poté insegnare anatomia in Italia. Per quanto riguarda il greco la tradizione vuole che egli fosse in grado di tradurre Galeno a vista. Nel 1530 entrò nell’Università di Lovanio che al tempo era una delle più grandi università europee, probabilmente seconda soltanto a Parigi e Bologna. Studiò filosofia e filologia, ma, indipendentemente dai suoi corsi universitari, cominciò ad interessarsi di anatomia e anche a praticare alcune dissezioni su topi, cani e gatti.

Nel 1533 si trasferì a Parigi per studiare medicina, seguendo così la tradizione familiare. I suoi principali maestri furono Jacobus Sylvius e Ioannes Guinterius Andernacus. Vesalio ammirò i propri docenti (loderà Sylvius nel De Humani Corporis Fabrica del 1543), ma successivamente non si dimostrerà soddisfatto dell’insegnamento ricevuto in questo periodo; a Parigi infatti l’anatomia veniva insegnata in modo tradizionale, con gli anatomisti che, seduti in posizione rialzata rispetto al tavolo settorio,- su cui intanto un barbiere procedeva a dissezionare il cadavere – leggevano agli studenti testi di Galeno e non si curavano dei tessuti e degli organi messi allo scoperto ai loro piedi. Vesalio era invece molto più propenso allo studio diretto del corpo umano: utilizzò così, come facevano molti studenti, il Cimitero degli Innocenti per procurarsi materiale per studiare le ossa. A questo proposito, nel De Humani Corporis Fabrica, racconta come in questo cimitero fosse possibile trovare una grandissima quantità di ossa; come egli fosse diventato talmente esperto da poter scommettere di riconoscerle tenendo gli occhi bendati ed utilizzando solo il tatto; come questa esperienza nel cimitero fosse necessaria in mancanza di un vero insegnamento su questa parte della medicina. Tuttavia già in questo periodo egli dimostrava buone capacità nella dissezione.

Particolarmente significative, circa le motivazioni personali e le crude modalità del suo lavoro, risultano alcune note autobiografiche, scritte all’età di 32 anni:

«Al presente non avrei più voglia alcuna di trascorrere lunghe ore a portare alla luce delle ossa nel Cimetiére des Innocentes di Parigi, né tantomeno di andarne in cerca a Montfaucon: una volta che mi recai in quel luogo in compagnia di un’altra persona, corsi infatti un grave pericolo a causa della presenza di un branco di cani selvaggi. E non mi metterei più nella situazione di farmi chiudere fuori dell’Università di Louvain, solo e nel cuore della notte, per prelevare da un patibolo delle altre ossa utili per costruire uno scheletro. Non mi abbasserò più a rivolgere suppliche ai giudici perché procrastinino il giorno dell’esecuzione di un criminale fino al momento per me più opportuno per dissezionarne il cadavere, né raccomanderò più agli studenti di medicina di osservare il luogo di sepoltura di una persona o li esorterò ad annotare le malattie dei pazienti in cura dei loro insegnanti, così da poter in seguito entrare in possesso dei loro corpi. Non terrò in camera per diverse settimane cadaveri riesumati oppure offertimi dopo una pubblica esecuzione, e non tollererò il caratteraccio degli scultori e dei pittori, per me fonte di pena più grande dei corpi morti che sono oggetto delle mie esercitazioni anatomiche. Pur essendo troppo giovane per trarre un guadagno economico da quest’arte, ho sopportato con prontezza e di buon animo tutto ciò, spinto dal desiderio di assimilare e far progredire le nostre comuni conoscenze»
(C.D. O’Malley, Andreas Vesalius of Brussels, University of California Press, Berkeley 1964, citato in Le 10 più grandi scoperte della medicina, di M. Friedman, G. W. Friedland, Baldini & Castoldi, 2000)

Nel 1536, a seguito del riacuirsi del conflitto tra Francia e Spagna, dovette tornare a Lovanio dove continuò gli studi medici e la pratica della dissezione. Nel settembre del 1537 andò a Basilea e poco dopo si trasferì a Padova. Il 5 dicembre, dopo essere stato sottoposto a un esame, l’università gli conferì il titolo di Dottore in Medicina.

La carriera vera e propria di Vesalio inizia a Padova. Già il giorno seguente alla laurea egli tenne la sua prima lezione pubblica, dissezionando un cadavere e spiegando sia la composizione degli organi sia la tecnica usata. Il senato di Venezia (che governava Padova) gli assegnò subito la cattedra di anatomia e chirurgia. Nelle sue lezioni Vesalio utilizzava, come aiuto visuale, anche ampi fogli volanti costituiti da schematici disegni e da concise didascalie. Sei di queste tavole vennero date alle stampe con il titolo Tabulae anatomicae sex (Venezia 1538), iniziando così la personale produzione anatomica didattico-scientifica di Vesalio, che raggiunse l’apice con il De humani corporis fabrica (Basilea 1543), perfetta sintesi di rigore scientifico e bellezza artistica. Nel gennaio del 1540 Vesalio visitò Bologna come docente ospite. Durante questo soggiorno ricostruì lo scheletro completo di una scimmia e di un uomo, e dalla comparazione dei due si rese conto che le descrizioni anatomiche galeniche erano basate sulle dissezioni di animali e non di uomini. La confutazione di molte teorie galeniche divenne poi uno dei punti chiave del De humani corporis fabrica, che probabilmente iniziò a scrivere proprio a Bologna.

Nel 1542, terminato di scrivere il De humani corporis fabrica, per seguirne il processo di stampa abbandonò la cattedra di Padova, alla quale gli succedette Realdo Colombo. L’opera fu pubblicata nel giugno del 1543, nello stesso anno di un altro capolavoro della storia della scienza il De revolutionibus orbium coelestium di Copernico in cui era esposta per la prima volta la teoria eliocentrica. Diffondendola, Vesalio era ben consapevole delle controversie che ne sarebbero nate: era infatti la prima volta che qualcuno osasse confutare le teorie di Galeno, fino ad allora considerato, quasi dogmaticamente, autorità assoluta della scienza medica. Molti medici infatti criticarono l’opera di Vesalio, in particolare il suo passato maestro Jacobus Sylvius. Ma ci furono anche molti sostenitori, tra i quali il più autorevole fu Gabriele Falloppio.

Della Fabrica venne anche stampata, principalmente ad uso degli studenti, l’Epitome, ovvero un riassunto dell’opera in sei capitoli. Il 4 agosto dello stesso anno a Spira, Vesalio presentò l’opera all’imperatore Carlo V che lo assunse subito come medico di corte. Non sono ben chiare le ragioni dell’abbandono della ricerca scientifica in favore di questo nuovo incarico; alcuni sostengono che questo nuovo lavoro fu necessario per recuperare le grandi spese sostenute per la stampa della Fabrica, mentre altri sostengono che Vesalio volle abbandonare l’ambiente accademico perché in esso aveva ormai troppi nemici. Ma la ragione più probabile è ciò che egli stesso spiega nella prefazione alla Fabrica: secondo Vesalio infatti l’anatomia era solo il fondamento della medicina, mentre egli aspirava invece a diventare un medico completo. Il lavoro al servizio dell’imperatore offriva molte possibilità di praticare come medico e come chirurgo.

Nel gennaio del 1544 tornò in Italia per sbrigare gli ultimi affari all’Università degli Studi di Padova, ma viaggiò e tenne delle lezioni anche a Bologna e Pisa. In quest’ultima, alla presenza di Cosimo I dei Medici, inaugurò il teatro anatomico di via della Sapienza.

Tornò in Belgio per sposare Anne van Hamme e cominciò poi un periodo di intensa attività, soprattutto come chirurgo militare, svolgendo molti incarichi in vari paesi europei per conto dell’imperatore. Tra il 1553 e il 1556 visse in maniera quasi stabile a Bruxelles, dove praticò in privato la professione di medico e portò avanti i suoi studi. Nel 1555 pubblicò una versione riveduta ed accresciuta della Fabrica. In particolare aveva avuto modo di studiare i corpi femminili, anche di donne incinte, e questo gli permise di approfondire soprattutto l’anatomia dell’utero e dei feti.

Da questa edizione della Fabrica vennero invece tolte le precedenti lodi al suo vecchio maestro Jacobus Sylvius. Nel frattempo infatti non erano mai cessati gli scontri con i galenisti, ai quali Vesalio continuava ad opporre con forza le sue ragioni, derivanti dalla pratica continua e meticolosa della dissezione. I suoi avversari, Sylvius in testa, cercarono in tutti i modi di attaccare la sua reputazione presso l’imperatore, arrivando anche a tacciare di empietà la pratica della dissezione. A questo proposito Carlo V scrupolosamente chiese ai teologi dell’Università di Salamanca un parere sull’ammissibilità delle dissezioni: questi risposero dicendo che esse erano utili e lecite.

Nel 1556, quando Carlo V abdicò gli concesse una pensione vitalizia e lo nominò conte. Nel 1559 tornò alla corte spagnola al servizio di Filippo II. Nel maggio del 1562 riuscì a curare il principe Don Carlos, figlio di Filippo, da una brutta ferita alla testa che lo aveva ridotto in fin di vita. Questo caso mise a dura prova Vesalio, sia per la gravità della ferita, sia per le responsabilità connesse al fatto di curare il principe e sia per le ostilità che incontrò da parte degli altri medici di corte.

Cominciò così a maturare in Vesalio il desiderio di abbandonare la corte e tornare a lavorare in Italia. Questo desiderio probabilmente era già nato quando nel 1561 Gabriele Falloppio gli inviò da Padova, come omaggio, una copia della sua opera Observationes Anatomicae, che conteneva alcune osservazioni e critiche alla Fabrica. Vesalio scrisse una lettera di risposta che fu affidata per la consegna all’ambasciatore veneziano presso la corte di Filippo II. Questi fu però trattenuto in Spagna per diversi mesi a causa di altri impegni, e quando finalmente ritornò nella Repubblica di Venezia nell’ottobre del 1562, Falloppio era morto.

Vesalio venne a sapere della morte del collega solo nella primavera del 1564, quando, per ragioni mai ben chiarite, partì per un pellegrinaggio verso la Terra santa. Infatti partendo dalla Spagna fece tappa a Venezia e qui ritrovò la sua lettera. Alcuni medici gli chiesero di darla alle stampe; egli acconsentì e la lettera venne pubblicata a Venezia il 24 maggio 1564 con il titolo Andree Vesalii Anatomicarum Gabrielis Fallopii Observationum Examen. Vesalio non vide mai questa pubblicazione, infatti in aprile si era già imbarcato per la Terra Santa. Molto probabilmente, una volta tornato, avrebbe riottenuto la sua vecchia cattedra di medicina a Padova, lasciata vacante da Falloppio; ma durante il viaggio di ritorno si ammalò e fu sbarcato sull’isola di Zante, dove morì il 15 ottobre 1564. Venne sepolto in un punto imprecisato sull’isola di Corfù.

Per molti anni si credette che la partenza di Vesalio verso la Terra santa fosse dovuta a problemi con la giustizia ed in particolare con l’Inquisizione. A questo proposito ci sono diverse fonti: il famoso medico e chirurgo francese Ambroise Paré riporta la storia di un anatomista spagnolo che eseguì la dissezione di una nobildonna morta per “strangolamento dell’utero”. Al momento della seconda incisione la donna, non essendo veramente morta, si risvegliò improvvisamente; ciò causò un tale orrore agli occhi dei presenti, che l’anatomista, prima molto famoso, divenne per tutti odioso e detestabile e decise così di lasciare il paese. Edward Jorden, un medico inglese, racconta pressappoco la stessa storia, ma riporta esplicitamente il nome di Vesalio e dice che egli usò il pellegrinaggio come scusa per lasciare la Spagna. Il diplomatico francese Hubert Languet, in una sua lettera, racconta invece che la vittima della dissezione fosse un uomo e che Vesalio si sia accorto della falsa morte quando, dopo aver aperto il petto e scoperto il cuore, si accorse che esso batteva ancora: per questo fu processato e condannato a morte dall’Inquisizione; tuttavia, per interessamento diretto ed ufficioso dell’imperatore Filippo II, la pena fu commutata nell’obbligo di pellegrinaggio in Terra Santa. Altre fonti del tempo ignorano completamente questa storia, in particolare non esiste alcun documento od atto relativo al presunto processo di Vesalio.

Alcuni storici affermano che è molto improbabile, sebbene non impossibile, che Vesalio commettesse un errore del genere. Ciò che è molto più probabile invece è che egli, dopo la sua morte, sia stato vittima di una perfida calunnia messa in giro dai medici suoi avversari. In effetti la lettera di Languet potrebbe essere un falso, infatti pur portando la data del 1º gennaio 1565, essa fu pubblicata per la prima volta solo nel 1620 nell’opera Vitae Germanorum Medicorum di Melchior Adam, e non compare invece nelle raccolte pubblicate della corrispondenza di Languet. Per la storiografia moderna la storia della condanna di Vesalio è da considerarsi priva di fondamento.

L’ipotesi più probabile sul motivo della sua partenza è che egli fosse semplicemente stanco della vita di corte e dell’ostilità dei medici spagnoli, e che il pellegrinaggio fosse solo il pretesto per andarsene dal paese. Sembra anche che le gelosie e gli scontri con gli altri medici di corte, specialmente riguardo alle cure mediche al principe Don Carlos, fossero così aspre che Vesalio se ne ammalò: il botanico fiammingo Carolus Clusius, che arrivò a Madrid il giorno stesso della partenza di Vesalio, testimonia infatti che questi avesse ottenuto il permesso di partire in pellegrinaggio proprio per motivi di salute. Inoltre, come già spiegato, il desiderio di Vesalio di tornare a Padova per dedicarsi esclusivamente alla ricerca scientifica, fu certamente determinante nella sua decisione di lasciare la corte.

Un esempio del processo di maturazione e di progressivo affrancamento di Vesalio dall’accettazione acritica delle teorie galeniche durante il periodo padovano è costituito dal problema della rete mirabile: questa struttura anatomica era uno degli elementi fondamentali su cui poggiava la fisiologia galenica; secondo questa, lo spirito vitale, formatosi nel cuore per affinamento dello spirito naturale originatosi nel fegato, veniva portato alla base del cervello dalle arterie carotidi, che qui si sfioccavano in un intricato reticolo vasale, la rete mirabile appunto. In tale sede lo spirito naturale veniva ulteriormente affinato, trasformandosi in spirito animale che, distribuito attraverso i nervi periferici, ritenuti cavi, dotava il corpo di sensibilità e movimento. La rete mirabile costituisce una riprova di come l’osservazione galenica fosse basata sullo studio di altre specie animali: questa formazione anatomica, infatti è molto evidente negli ungulati mentre non esiste nell’uomo. Vesalio ne ammise l’esistenza nelle Tabulae anatomicae sex (1538), mentre nella Fabrica del 1543 riconosce con vivacità l’errore compiuto e ne analizza con spirito critico la causa:

«Quante, spesso assurde cose sono state accettate in nome di Galeno… Tra queste quel mirabile plesso reticolare, la cui esistenza viene costantemente sostenuta nei suoi scritti e di cui i medici parlano continuamente. Essi non lo hanno mai visto, ma tuttavia continuano a descriverlo sulla scorta dell’insegnamento di Galeno. Io stesso sono ora realmente meravigliato per la mia (precedente) stupidità […] Causa la mia devozione a Galeno non intrapresi mai una pubblica dissezione di una testa umana senza contemporaneamente servirmi di quella di un agnello o di un bove per mostrare che non riuscivo a riscontrare in alcun modo nell’uomo […] e per evitare che gli astanti mi rimproverassero di essere incapace di trovare quel plesso a tutti loro così ben noto per nome. Ma le arterie carotidi non formano affatto il plesso reticolare descritto da Galeno»
(De humani corporis fabrica libri septem, VII, cap. 12)

Il sistema nervoso. Nella Fabrica Vesalio respinse altri importanti aspetti della neurologia di Galeno, ad esempio il concetto che i nervi fossero cavi. Leggiamo quanto egli stesso asserisce in proposito:

«Posso affermare di non aver mai trovato passaggio di alcuna sorta, nonostante a questo scopo abbia esaminato i nervi ottici durante la vivisezione di cani e di altre specie animali di dimensioni maggiori, ed il capo di un uomo ancora caldo, meno di un’ora dopo la decapitazione»
(De humani corporis fabrica libri septem, IV, cap. 4)

Descrisse anche il corpo calloso come struttura commisurale dei due emisferi.

Sul piano della fisiologia del sistema nervoso Vesalio esprime una posizione agnostica, tracciando nettamente limiti tra l’osservazione anatomica e la speculazione filosofica:

«Non nego che i ventricoli elaborino lo spirito animale, ma sostengo che questo non spiega nulla sulla sede cerebrale delle facoltà più elevate dello spirito […] Non sono in grado di comprendere come il cervello possa esercitare le sue funzioni.»

Convinzione ferma ed imprescindibile di Vesalio era l’importanza delle sezioni anatomiche al fine di poter comprendere la struttura e la fisiologia del corpo umano; teoria questa in netto contrasto con le convinzioni galeniche, basate su un’idea organicistica del corpo umano, secondo cui “non vi possono essere lesioni funzionali del corpo, se queste non sono associate a lesioni effettive degli organi interni“.

Estratto da https://it.wikipedia.org/wiki/Andrea_Vesalio

 

ANDREAE VESALII BRUXELLENSIS, Scholam medicorum Patavinae professoris, de Humani corporis fabrica, Libri septem, Basileae, 1543.

1543 VESALIO De humani corporis fabrica (259MB scarica PDF)

® Biblioteca Queriniana, Brescia.

Nel ritratto si legge “ANDREAE VESALII / AN. AET. XXVIII / M.D.XLII” cioè: Andrea Vesalio, età 27 anni, 1542.

 

 

 

1544.  VIDUS VIDIUS, GUIDO GUIDI (1509-1569).

Guidi Guido, nacque il 10 febbraio 1509 a Firenze, primo figlio di Giuliano di Bartolomeo, medico, appartenente a una famiglia di piccola nobiltà originaria di Anterigoli nel Mugello inurbatasi nel XIV secolo, e di Costanza Bigordi, figlia del celebre pittore Domenico detto (del) Ghirlandaio. Ebbe un fratello, Giuliano, e due sorelle. Del periodo di formazione si hanno poche e vaghe notizie, riportate essenzialmente da antichi biografi; si attribuiscono al Guidi Guido, oltre che studi umanistici, anche la frequenza di corsi teologici e medici, arrivando a congetturare che tutto ciò sia avvenuto presso lo Studio pisano. Nessun documento riguardante gli studi del Guidi Guido è, allo stato delle ricerche, conosciuto, ma la sua ulteriore carriera lascia fondatamente supporre che abbia ottenuto uno o più gradi accademici, probabilmente presso un’università italiana. A partire dagli anni Trenta, il Guidi Guido esercitò la professione medica, a Firenze e a Roma. Il ritrovamento di un suo consulto medico, redatto, sotto forma di lettera, il 12 ott. 1540 e indirizzato a un canonico di San Casciano, B. Pescioni, ha avvalorato in alcuni studiosi la convinzione che già a quella data il Guidi Guido avesse acquisito rinomanza nella professione.

È probabile che il G. fosse a Roma tra il 1534 e il 1538, chiamato dal cardinale Niccolò Ridolfi, nipote di Lorenzo il Magnifico e capo del partito francese in Curia, al fine di sovrintendere alla trascrizione e alla traduzione di un importante codice miniato appartenuto al medico bizantino Niceta, di proprietà della Libreria Medicea. Acquistato a Creta da G. Lascaris durante il suo secondo viaggio in Grecia alla ricerca di manoscritti importanti (1491-92) su commissione di Lorenzo il Magnifico, il prezioso codice (IX-X sec.), noto come Raccolta di chirurgi greci e oggi alla Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze (Plut. grec., 74.7), contiene quattro trattati ippocratici commentati da Galeno, Apollonio di Cizio, Palladio e Rufo, i trattati di Galeno sulle ossa e sui bendaggi, i trattati sui bendaggi di Sorano e di Oribasio, il trattato di Sorano sui segni delle fratture, nonché scritti di Eliodoro e altri, tutti in greco. Forse da considerarsi come la fonte maggiore e più attendibile delle nostre conoscenze in merito alla chirurgia greca antica, l’inestimabile valore documentario della Raccolta è dato anche dalle numerose vignette nelle quali sono raffigurati metodi per la riduzione di fratture e lussazioni e le macchine impiegatevi. Alcuni studiosi hanno congetturato che il codice sia stato portato a Roma, dove il Guidi Guido lo tradusse in latino e curò la trascrizione del testo greco eseguita dal celebre copista C. Auer, nonché il lavoro del pittore Francesco De Rossi detto il Salviati e dei suoi allievi (l’attribuzione delle illustrazioni, da parte di H. Omont a F. Primaticcio è stata confutata in maniera convincente da Hirst). È più probabile però, come hanno sostenuto sia Kellet, sia Grmek (1984), che il Guidi Guido e i collaboratori abbiano utilizzato per il loro lavoro una copia, eseguita a Firenze, forse quella che presenta disegni assai più rozzi, attribuiti a Giovanni Santorino da Rodi, oggi alla Bibliothèque nationale di Parigi (Mss. gr., 2248). È comunque indubbia l’importanza dei due codici per la rinascita della scienza medica. Sembra ormai certo, tra l’altro, che si possa rivendicare a essi, grazie all’eccezionale precisione ed efficacia delle illustrazioni, un ruolo primario nel rinnovamento dell’iconografia anatomica, ruolo che era tradizionalmente fatto risalire ad A. Vesalio, la cui De humani corporis fabrica fu pubblicata però solo nel 1543 a Basilea.

Terminata la traduzione e la riproduzione del codice, il Guidi Guido fu per un periodo a Firenze (lo prova il citato consulto medico), poi tornò probabilmente a Roma. Da qui si recò a Parigi, forse prima della fine del 1541, o comunque di sicuro non dopo i primi mesi del 1542, come latore di due preziosi doni del cardinale Ridolfi al re di Francia Francesco I (gli odierni Mss. gr. 2247 e Mss. lat. 6866 della Bibliothèque nationale di Parigi). Il Guidi Guido fu scelto per questo compito, oltre perché autore della traduzione eseguita, probabilmente anche per un’altra ragione. Risulta, infatti, da una lettera del Guidi Guido a L. Ridolfi, nipote del cardinale, del 10 febbr. 1544, che in quegli anni il fratello del Guidi Guido, Giuliano, era socio in affari del giovane Ridolfi, nonché suo debitore, e che il Guidi Guido si era assunto tali debiti, promettendo di pagarli con i primi utili ricavati dalla sua trasferta francese. Accolto da Francesco I a corte, il Guidi Guido fu subito nominato, come risulta da una lettera che gli scrisse C. Tolomei l’8 maggio 1542 (Salvini, p. 116) e da un’altra del Guidi Guido a B. Varchi del 30 giugno dello stesso anno (Ansaldi, p. 263), “médicin ordinaire du roi” con funzioni “par quartier”, ossia in servizio effettivo per un solo trimestre l’anno. A Parigi, al Guidi Guido fu assegnata come residenza l’hôtel du Petit-Nesle, dove alloggiava un altro illustre esule fiorentino, B. Cellini.

Benché nell’autobiografia Cellini lasci intendere che l’avvio dell’amicizia che lo legò al Guidi Guido risalga agli anni francesi, da un episodio narrato dal Guidi Guido nel De chirurgia (Firenze, Biblioteca nazionale, Mss. lat., II.III.31, c. 25r), sappiamo che in realtà i due ebbero occasione di conoscersi a Roma, prima del 1538. Ritrovatisi a Parigi, la consuetudine domestica, protrattasi per circa tre anni, permise loro di approfondire un’amicizia che presto sfociò in un reciproco sentimento di stima, tanto che, parlando del Guidi Guido, Cellini lo definì il “più virtuoso, più amorevole e più domestico uomo dabbene che io mai conoscessi al mondo”. Nel giugno 1544, inoltre, il Guidi Guido si prestò a fare da padrino di battesimo per una bambina, Costanza, nata dalla relazione tra Cellini e una contadina francese.

Sembra che nel periodo francese il Guidi Guido sia stato titolare anche di “revenus ecclésiastiques” (Grmek, 1965, p. 193; cfr. Salvini, p. 118). Pur se non è noto quali rendite ecclesiastiche e a che titolo gli furono conferite, la notizia fa pensare che già in questi anni il Guidi Guido fosse inserito in un ordine religioso, il che renderebbe meno anomale le funzioni ecclesiastiche assunte dal Guidi Guido al ritorno in Toscana. Ma l’attività principale da lui svolta in Francia fu quella di lettore di medicina presso il Collège royal. Prese possesso della cattedra, appositamente istituita per lui da Francesco I, nel settembre 1542, avviando un corso sul trattato ippocratico De vulneribus capitis. Di esso fornì una traduzione latina, oggi alla Bibliothèque nationale di Parigi (Mss. lat., 6861), corredata di illustrazioni dell’attrezzatura chirurgica impiegata nella cura delle ferite alla testa, la cui qualità è stata giudicata da Grmek (1973, p. 178) notevole, ma il cui autore è sconosciuto. Lo scritto ippocratico fu inserito dalGuidi Guido nella raccolta di traduzioni da lui data alle stampe nel maggio del 1544, la Chirurgia e Graeco in Latinum conversa, Vido Vidio Florentino interprete, cum nonnullis eiusdem Vidii commentariis, Lutetiae Parisiorum, apud Petrus Galterius, 1544. L’opera raccoglie, tra gli altri, alcuni dei trattati chirurgici inseriti nel ms. Lat. 6866 della Bibliothèque nationale di Parigi, in particolare gli scritti d’Oribasio e di Galeno. Cellini, nell’autobiografia, racconta che fu impressa, in economia, all’Hôtel du Petit-Nesle, dove risiedeva e aveva bottega anche lo stampatore Pierre Gaultier. La circostanza che al Petit-Nesle fosse ospitato, nei mesi di stampa del libro, F. Primaticcio e che l’autore lo citi nella dedica ha fatto ipotizzare che sia il pittore bolognese l’autore delle incisioni che decorano l’opera. In realtà, sembra probabile che il Guidi Guido abbia portato con sé dall’Italia gran parte delle incisioni utilizzate (che derivano dalle vignette del Salviati nei codici Lat. 6866 e Gr. 2247 della Bibliothèque nationale), e che il contributo del Primaticcio si sia limitato a sovrintendere alla stampa delle illustrazioni. Il libro ebbe un notevole successo. Echi evidenti si ritrovano negli scritti dei più celebri medici del tempo, quali A. Paré, C. Estienne, R. Colombo, G. Falloppio. Inoltre, di esso fu pubblicata una versione francese a Lione nel 1555. Infine, C. Gesner, nella sua silloge De chirurgia scriptores optimi quique veteres et recentiores (Tiguri, per A. et J. Gessnerum fratres, 1555) ne ristampò tre trattati (il De fascis di Galeno, il De laquaeis e il De machinamentis di Oribasio).

Morto, nel marzo 1547, Francesco I, il Guido Guidi decise di tornare in Toscana, forse anche a causa di un’ostilità crescente dell’ambiente parigino. Lo persuase in questa decisione il progetto del duca Cosimo I di ridare prestigio all’antico Studio pisano: tra la primavera e l’estate 1547 il Guido Guidi poté constatare la disponibilità del governo mediceo a investire risorse in questa direzione durante la trattativa per il suo trasferimento nell’Università toscana. L’accordo fu chiuso prima del 10 sett. 1547 (ne fa fede la data di una lettera del Guido Guidi, pubblicata da Fabroni, p. 265), ma nel dicembre successivo il Guido Guidi era ancora in Francia. Non è nota la data precisa del rientro in Italia, ma il 1° nov. 1548 iniziò l’attività accademica presso lo Studio pisano con l’incarico di Lettore di Medicina Teorica e Pratica (che tenne fino alla morte) e una provvisione di 500 “monete d’oro”, la più alta fra tutti i docenti dello Studio. Parte della provvisione gli era conferita a titolo di protomedico del duca. La docenza pisana, protrattasi per ben vent’anni, ingigantì la fama del G., le cui lezioni furono costantemente frequentate da un numero elevato di studenti, tra i quali anche A. Cesalpino, che indicò nel Guido Guidi il suo maestro e gli riconobbe il merito di avere promosso la rinascita della medicina greca (Cesalpino, dedica). Il crescente prestigio del Guido Guidi e l’autorità di cui godeva fecero sì che ben presto fosse associato all’Accademia Fiorentina, della quale nel 1553 fu eletto ventiseiesimo console. Durante la sua reggenza promosse un ciclo di pubbliche letture sulla Divina commedia, affidato a G.B. Gelli, e uno, condotto da B. Varchi, sul Canzoniere di F. Petrarca.

Risalgono al periodo compreso tra il 1548 e il 1557 tre opere del Guido Guidi, poi stampate postume con notevoli manomissioni dal nipote Guido Guidi il Giovane, i cui manoscritti sono conservati alla Biblioteca nazionale di Firenze: il De medicamentis libri sex (Mss., II.III.30), il De chirurgia libri quatuor (II.III.31), l’Anatome libri septem (II.III.32). Dedicati a Cosimo I, la datazione dei tre scritti è stata ricavata dal fatto che il principe è indicato come duca di Firenze e Siena. Mai studiati a fondo, sono in realtà molto interessanti. Nel De medicamentis, per la spiegazione patogenetica delle malattie, il Guido Guidi è fedele alla tradizione galenica, ma le terapie proposte sono essenzialmente dietetiche e si ispirano chiaramente a Ippocrate. Infatti, per il Guido Guidi, la cura non è una semplice assunzione di rimedi ma una vera e propria regola di vita, mentre viene negata ogni importanza agli influssi astrologici. Nel De chirurgia, invece, forte è l’influenza della lunga consuetudine con i testi dei chirurgi greci. Dopo una discussione preliminare su natura, fini e possibilità della disciplina, il Guido Guidi descrive i bendaggi, gli strumenti chirurgici e quelli per l’ispezione diretta degli organi interni attraverso gli orifizi. L’Anatome, infine, presenta un testo sensibilmente diverso da quello dato alle stampe dal nipote, che ha fatto tacciare di plagio il Guidi. Ma dall’esame del manoscritto risulta l’infondatezza dell’accusa. Le descrizioni delle vertebre e delle ossa del cranio hanno notevole rilievo, tanto da far supporre una certa assiduità nelle dissezioni. Molto nota è la descrizione dello sfenoide e del suo canalis Vidianus, con il nervo che l’attraversa; altrettanto quelle dell’osso palatino, delle tre membrane dell’intestino e dell’intestino duodeno, nonché le dissezioni anatomiche del cervello. Nella parte finale, il Guido Guidi riferisce anche di alcuni esperimenti anatomici su animali vivi. I tre manoscritti sono corredati da un notevole apparato iconografico, in gran parte derivato da opere di altri medici, ma con alcuni disegni originali di buona qualità.

Intanto, il 3 dic. 1556, il Guido Guidi fu ascritto alla nobiltà pisana (con il diritto a inquartare il proprio stemma con quello della città) e l’anno dopo fu fatto pievano di Livorno. L’assunzione di tale beneficio ecclesiastico coincise con la nomina, onorifica ma ambita, di lettore “sopraordinario”, titolo che, peraltro, permetteva al Guido Guidi di esercitare la doppia funzione, religiosa e di docente presso lo Studio. È provato, infatti, che, sia a Livorno, sia successivamente a Pescia, il Guido Guidi abbia dovuto farsi carico delle principali incombenze sacerdotali, compreso il celebrare la messa. È quindi presumibile che già prima del 1557 avesse ricevuto gli ordini sacri. Il Guido Guidi pose la sua residenza a Livorno solo nel 1559, anno in cui la sua provvisione fu aumentata dall’amministrazione universitaria di 100 “monete d’oro”, a titolo di rimborso spese per i giornalieri spostamenti tra la città sede del ministero sacro e quella dell’attività d’insegnamento. Sembra, inoltre, che a Livorno il Guido Guidi abbia dovuto dedicarsi, oltre che alla cura delle anime, anche a quella dei corpi. Era, infatti, annesso alla pieve di S. Maria e Giulia l’ospedale di S. Antonio, circostanza quest’ultima che ha fatto ritenere che il beneficio concesso comportasse anche l’assunzione del servizio sanitario. A Livorno il Guido Guidi restò fino al 1562, anno in cui fu eletto alla propositura di Pescia, nomina quest’ultima che equivaleva all’investitura episcopale e comportava il titolo di monsignore. La nuova responsabilità fu onorata dal Guido Guidi per sette anni circa, durante i quali risiedette nella sua diocesi e ottenne una dispensa papale per continuare a esercitare la medicina e l’insegnamento a Pisa. In tale lasso di tempo si distinse, tra l’altro, per la manifesta volontà di dare esecuzione rigorosa ai decreti del concilio di Trento, fino al punto di progettare la convocazione di un sinodo diocesano straordinario da dedicare alla questione. La morte, avvenuta in Pisa il 26 maggio 1569, gli impedì di dare seguito al progetto. Il corpo fu trasportato a Firenze, e sepolto nella chiesa della Ss. Annunziata.

Postume, tra il 1585 e il 1594, furono date alle stampe dall’omonimo nipote tutte le opere lasciate manoscritte dal Guido Guidi, alcune con notevoli alterazioni. La maggior parte di esse fu poi raccolta nei tre volumi dell’Ars medicinalis, in qua cuncta quae ad humani corporis valetudinem praesentem tuendam et absentem revocandam pertinent, methodo exactissima explicantur, Venetiis 1611. A parte fu edito il De febribus libri septem (Firenze, B. Sermartelli, 1585), che fu però inserito negli Opera omnia medica chirurgica et anatomica, Francfort 1668. Oltre i manoscritti già citati, sono da segnalare a Firenze, Biblioteca nazionale, Mss., II.III.29: De curatione generatim lib. XVII (1564); Ibid., Biblioteca Riccardiana, Mss. Ricc., 828, cc. 46-55; 997 (le 95 lezioni del corso pisano del 1548); 1586 (le lezioni del corso pisano del 1551); lettere autografe sono indicate in G. Mazzatinti, Inventari dei manoscritti delle biblioteche d’Italia, XI, p. 146; Iter Italicum, I, col. 67a; II, col. 540a.

Fonti e Bibl.: A. Cesalpino, Artis medicae pars I, Romae 1602; B. Cellini, Vita, a cura di O. Bacci, Firenze 1901; P. Casteele [Castellanus], Vitae illustrium medicorum, Antverpiae 1618, p. 189; G. Duval, Le Collège royal de France, Paris 1645, pp. 63 s.; S. Salvini, Fasti consolari dell’Accademia Fiorentina, Firenze 1717, pp. 115-123; G. Negri, Istoria degli scrittori fiorentini, Ferrara 1722, pp. 523-529; D.M. Manni, Vita di Domenico del Ghirlandaio, in Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici, XLV (1751), p. 163; Elogi degli uomini illustri di Toscana, III, Lucca 1772, pp. 250-256; A. Fabroni, Historiae Academiae Pisanae, II, Pisis 1793, pp. 264-266; A.-J.-L. Jourdan, Biographie médicale, IV, Paris 1821, p. 545; F. Inghirami, Storia della Toscana, XIII, Fiesole 1844, pp. 218 ss.; G. Ansaldi, Cenni biografici dei personaggi illustri della città di Pescia e dintorni, Pescia 1872, pp. 262 ss.; Apollonius von Kitium, Illustrierter Kommentar zu der hippokrateischen Schrift πεϱὶ ἄϱθϱων, a cura di H. Schöne, Leipzig 1896, ad indicem; Collection de chirurgiens grecs avec dessins attribués de Primatice, a cura di H. Omont, Paris 1908, pp. 1-17; A. Lefranc, Les commencements du Collège de France (1529-1544), in Mélanges d’histoire offerts à Henri Pirenne, Bruxelles 1926, pp. 291-306; W. Brockbank, The man who was Vidius, in Annals of the Royal College of surgeons of England, XIX (1956), pp. 269-295; E. Coturri, G. G. celebre chirurgo fiorentino del Cinquecento pievano di Livorno e proposito di Pescia, Milano 1958; C.E. Kellet, The school of Salviati and the illustrations to the Chirurgia of Vidus Vidius, in Medical History, II (1958), pp. 264-268; Id., Santorinos of Rhodes and the illustrations to the Chirurgia of Vidus Vidius, Newcastle 1959; A. Franz, L’iconografia traumatologica nell’opera di G. G., in Atti e memorie dell’Accademia di storia dell’arte sanitaria, LVIII (1959), 2, pp. 70-89; R. Starn, Additions to the correspondence of Donato Giannotti…, in Rinascimento, IV (1964), pp. 106, 116, 118; M.D. Grmek, La période parisienne dans la vie de G. G. anatomiste de Florence et professeur au Collège de France, in Atti della VI Biennale della Marca per la storia della medicina 1965, a cura di M. Santoro, Fermo 1965, pp. 191-200; A. Oberti, Il trattato sulle fasciature di Galeno tradotto in latino da Vido Vidi, in Scientia veterum, 1966, n. 101, pp. 3-20; C. Coury, L’enseignement de la médecine en France des origines à nos jours, Paris 1968, pp. 82-84; M. Hirst, Salviati illustrateur de Vidus Vidius, in Revue de l’art, VI (1969), pp. 19-28; M.D. Grmek, G., G., in Dictionary of scientific biography, a cura di C. Coulston Gillispie, V, New York 1972, pp. 580 s.; Id., Vidius et les illustrations anatomiques et chirurgicales de la Renaissance, in Sciences de la Renaissance. VIIIe Congrès international, Tours… 1964, Paris 1973, pp. 175-186; G. Vivoli, Annali di Livorno, III, Livorno 1974, p. 31; M.D. Grmek, Contribution à la biographie de Vidius, in Revue d’histoire des sciences, XXXI (1978), pp. 289-299; La rinascita della scienza, a cura di P. Galluzzi, in Firenze e la Toscana dei Medici nell’Europa del Cinquecento (catal.), Milano 1980, pp. 171, 174-180; M.D. Grmek, Vestigia della chirurgia greca: il codice di Niceta e i suoi discendenti, in Kos, 1984, n. 5, pp. 52-60; R. Radicchi, Il famoso medico-umanista G. G. pievano a Livorno, in Studi livornesi, II (1987), pp. 63-77. [di Cesare Preti]

http://www.treccani.it/enciclopedia/guido-guidi_res-65f9fb9e-87ee-11dc-8e9d-0016357eee51_(Dizionario-Biografico)/

CHIRURGIA è Graeco in Latinum conversa, Vido Vidio Florentino interprete, cum nonnullis eiusdem Vidij commentaris. Cum privilegijis Rom. Pontificis, … Excudebat Petrus Galterius Lucetiae Parisiorum, pridie Calendas Maij, 1544.

1544 VIDUS VIDIUS CHIRURGIA (497MB scarica PDF)

® Biblioteca Queriniana di Brescia.


 

 

1552. EUSTACHI BARTOLOMEO (1510-1574).

Bartolomeo Eustachio nacque a San Severino Marche nella Marca di Ancona nonostante alcuni nei secoli XVII e XVIII abbiano scritto che Eustachio sia nato a San Severino in Basilicata nel 1510. .. Sulla morte di B.Eustachio che avvenne nel 1574 in un luogo ancora imprecisato lungo la via Flaminia all’altezza di Fossato di Vico. … Bartolomeo, per approfondire gli studi medici, coltivò una preparazione umanistica, imparando le lingue greca, araba (tradusse qualche scritto di Avicenna) ed ebraica. Maturò uno spiccato interesse per la matematica e fu, per l’abile conoscenza di essa, annoverato tra gli uomini illustri che emergevano in questa materia ad Urbino. Nella scelta della disciplina universitaria da abbracciare furono influenti suo fratello Fabrizio e suo padre Mariano. Le università in Italia nel periodo rinascimentale erano molte. Nello Stato della Chiesa quella che eccelleva era certamente l’Archiginnasio della Sapienza di Roma. Qui studiò le “diverse branche dell’arte del guarire e più particolarmente quelle che hanno per oggetto la conoscenza del corpo umano”. L’Eustachio fu nominato secondo “fisico” del comune di San Severino. Ciò avvenne il 9 novembre 1539. L’incarico doveva durare un anno con il “salario” di 200 fiorini, e l’obbligo di esercitare tanto la medicina che la chirurgia “indifferenter”. In seguito Bartolomeo chiederà al Comune licenza di interrompere il suo servizio di secondo fisico, licenza che gli venne accordata. Così ebbe termine (aveva circa 34 anni) la carriera medica nella sua patria, sconfitta che lo amareggiò e lo condusse ad Urbino dove era ben conosciuto da quella corte ducale.

Un improvviso cambiamento sconvolse la tranquilla vita di Bartolomeo. Nel 1549 Giulio Della Rovere, fratello di Guidobaldo, eletto cardinale dal papa Paolo III, dovendo partire alla volta di Roma per assumere l’incarico, nominò Bartolomeo come suo medico e  confidente. Dato che era un ragazzo bisognoso non solo di cure ma soprattutto di comprensione e protezione, non trovò migliore soluzione che in Eustachio. Bartolomeo inizia la carriera di medico pratico in quella capitale dove medici di grande reputazione esercitavano l’arte sanitaria o tenevano cattedra all’Archiginnasio. Nella capitale, centro di cultura monumentale, ma anche scientifica e medica, Bartolomeo approfondì i suoi studi prediletti, acquistando una tale fama da essere nominato da Carlo Borromeo, nipote di papa Pio IV, medico ordinario. In seguito venne nominato protomedico dello Stato pontificio, acquisendo il permesso di sezionare i cadaveri provenienti dagli ospedali di S. Spirito e della Consolazione. L’ospedale della Consolazione aveva lo scopo di ricoverare e curare tutti coloro che, per infortuni o per altri motivi, subivano traumi o ferite. Così l’Eustachio poté essere in contatto con molti maestri di chirurgia. Nella seconda metà del sedicesimo secolo (esattamente dal 1555 al 1568) ottenne la cattedra di Anatomia alla Sapienza. Introdusse per primo negli ospedali di Roma l’autopsia e il sezionamento di cadaveri, studiandone a fondo la struttura. Così facendo sostituì all’empirismo e alla tradizione dominante l’osservazione e l’esperimento. …

Il risultato di un ventennio di studi anatomici, Bartolomeo Eustachio lo affidò per quanto restio, alla pubblicazione di opuscoli nei quali con un latino classico espone con chiarezza gli esperimenti eseguiti sui cadaveri dopo averne cercato le componenti degli organi principali del corpo umano. Gli “opuscola anatomica” raccolti in un volume furono stampati nel 1563-1564 a Venezia, mentre altri lavori che avrebbero dovuto commentare le tavole che Bartolomeo aveva da tempo preparate, rimasero manoscritti e in seguito dispersi. “De renum structure officio atque administratione”. È una descrizione nella quale viene messa in chiara luce l’irrorazione sanguigna degli organi urinari, viene analizzata la costante presenza delle “capsule surrenali”. Parecchie furono le sue opere. Le più famose le “Tabulae Anatomicae“, incise nel 1552, gli fecero tributare il titolo di “principe dell’anatomia”. Il Lancisi, archiatra di Clemente XI, ritrovò queste tavole ad Urbino, presso gli eredi di Matteo Pini, amato discepolo di Bartolomeo Eustachi, al quale quest’ultimo aveva lasciato oltre che una raccolta di libri greci e latini, un baule pieno di manoscritti. Nel XVIII secolo, esattamente nel 1714, il Lancisi pubblicò le Tabulae di Eustachio, illustrandole in un libro intitolato: “Tabulae Anatomicae Clarissimi Viri Bertholomaei Eustachi”. Ma su 64 ne furono ritrovate solo 47.

Le sue opere successive alle tavole furono: “Examen Ossium“, scritto nel 1561 contro l’anti-galenismo di Vesalio. In essa è presente una descrizione delle ossa e dei muscoli che non si ferma alla forma esteriore ma evidenzia gli spazi, le cavità e le minute particolarità; “De Motu Capitis“(1561), anch’esso contro l’anti-galenismo di Vesalio; “De Auditus Organis“, illustrato con la collaborazione di Pier Matteo Pini, in cui descrisse per la prima volta la tuba auditiva destra, che prese il suo nome. Oltre alla scoperta di questa parte dell’orecchio, all’Eustachio si deve l’individuazione del muscolo stapedio, nonché lo studio della sua funzione, la disposizione della chiocciola e del modiolo e dell’acquedotto, l’origine e il termine della corda del timpano. Questo lavoro fu dedicato a Mons. Francesco Alciati[19]; “De Dentibus“, una trattazione quasi completa dal punto di vista morfologico, strutturale, anatomo-patologico della genesi, della trasformazione dei denti nel periodo della prima e definitiva dentizione. L’Eustachio descrive anche il canale e la polpa dentaria; “De Vena Quae Azygos Graecis Dicitur atque de humana venae propagine, quae in flexu brachii venam comunem producit“, in cui descrisse il dotto toracico del cavallo, rivelando una buona conoscenza della struttura del cuore. Con questa opera l’Eustachio partecipò al lavoro per venire a capo dell’assillante problema, fino ad allora insoluto, della circolazione del sangue al quale si impegnò anche Vesalio con le sue opere. L’Eustachio stabilì l’esistenza di quattro vene polmonari e precisò il decorso e i rapporti delle vene superficiali del braccio, trattò la vena azygos, indicò il circolo arterioso e venoso dei singoli organi fin nelle più piccole diramazioni; “Erotiam Scriptoris Vetustissimi Vocum Collectio“; “De Moltitudine“; “De Renibus“. Queste opere furono tutte pubblicate nel 1563 negli “Opuscola anatomica“. Negli “Opuscola anatomica” l’Eustachio indica le fonti della sua formazione scientifica e della diretta esperienza acquisita nella lunga e diligentissima attività anatomica sugli animali e sui corpi umani e promette con l’aiuto di Piermatteo di pubblicare un volume: “De dissensionibus ac controversiis anatomicis”. Per cause diverse come la malattia, la tarda età e la “fortunarum mearum imbecillitate” questo volume non fu mai pubblicato. Ora si trova nella biblioteca comunale di Siena, scritto per la massima parte dalla mano dell’Eustachio e la rimanente da Piermatteo. Gli argomenti che vengono trattati in risposta a Vesalio che tenta di demolire Galeno sono: ossa e loro connessi, unghie, laringe, cartilagine, muscoli, pelle, muscoli in particolare, vene, arterie, nervi, addome e suoi organi, apparato genitale dei due sessi, feto e sue membrane, torace e suoi organi, cranio ed encefalo. L’Eustachio con il suo testamento aveva lasciato erede di tutto il materiale scientifico (manoscritti, tavole, attrezzature anatomiche) il suo allievo Piermatteo Pini il quale doveva pubblicare, dopo la morte del Maestro, quanto questo aveva preparato nel suo manoscritto “De dissensionibus et controversiis”. Ma il Pini non volle o non poté adempiere l’impiego assunto e sia le tavole di rame come il manoscritto andarono perduti. Dopo lunghe ricerche il papa Clemente XI, urbinate, riuscì a rintracciare le tavole, dopo lunghe ricerche, presso un discendente del Pini dal quale il Papa le acquistò per 600 scudi.

Estratto da https://it.wikipedia.org/wiki/Bartolomeo_Eustachi

Tabulae Anatomicae clarissimi viri Bartholomaei Eustachii, quas è tenebtandem vindicatas et Sanctissimi Domini Clementis XI Pont. Max. munificentia dono accepras. Praefatione, notisque illustravit, ac ipso suae Bibliothecae dedicationis die publici juris fecit Jo. Maria Lancisus, intimus Cubicularis, & Archiater Pontificius. Romae 1714.

Estratto da Tabulae Anatomicae clarissimi viri Bartholomaei Eustachii, quas è tenebtandem vindicatas et Sanctissimi Domini Clementis XI Pont. Max. munificentia dono accepras. Praefatione, notisque illustravit, ac ipso suae Bibliothecae dedicationis die publici juris fecit Jo. Maria Lancisus, intimus Cubicularis, & Archiater Pontificius. Romae 1714.     https://books.google.it/books?id=vkw1AQAAMAAJ&hl=it&source=gbs_similarbooks