02.1. Dalla Mitologia alla Storia.

Contents
  1. DALLA MITOLOGIA ALLA STORIA
  2. *     *     *
  3. LA LIGURIA AVANTI I ROMANI
  4.  *     *     *
  5. Autori vari 10.000 – 1.200 a.C. Si ammette che i Liguri occupassero il territorio che in seguito fu la Gallia dalla penisola Iberica fino alla penisola Italica ai confini con l’Etruria, comprese le isole. Scrittori greci antichi parlano di Liguri o Libui, abitatori della parte occidentale del Mediterraneo, i quali potrebbero essere i primi abitatori dell’Italia, che pare fossero anche nominati Ambroni. Quei primitivi vissero nelle caverne [citare ritrovamenti] e in seguito su palafitte, poiché le pianure erano paludose e dovevano difendersi dalle belve. Era un popolo organizzato in famiglie che vivevano isolate, ma che si univano quando li minacciava un pericolo comune. Furono invasi e si mescolarono ad essi popoli provenienti dall’Asia come i Tirreni, i Sardani, i Lidii e i Fenici che portarono strumenti in ferro e bronzo ed insegnarono loro il commercio sotto forma di pirateria. Tante invasioni li costrinsero ad occupare l’Italia settentrionale fino a Milano e a Bologna. A quei tempi si deve far risalire il mito che Ercole, venuto dalla Grecia, fu ferito dai Liguri e la sua gente costretta a retrocedere con il lancio di massi dalle Alpi marittime. I Liguri abitano un territorio che va dalle Alpi occidentali fino all’Adriatico a nord e, a sud, fino al Tevere. Con le invasioni di altri popoli i Liguri si ritirarono in una regione che va dal Varo, a ponente, al Magra a levante, fino alle Alpi e all’Appennino a nord. Il centro di tale regione divenne Genova. (Donaver, 1890) Un patrizio genovese, il Rovereto (in Liguria Geologica nel 1937) in relazione alla ubicazione del porto di Genova faceva un’osservazione che merita di essere ricordata: “L’insenatura, che poi diventò il porto di Genova, era una piccola rientranza della linea costiera, in delineamento parabolico, e orientata in maniera da essere completamente aperta verso il Mezzogiorno e verso Ponente: non è stata quindi la forma, ma l’ubicazione rispetto alle vie dei traffici, ai passi dell’Appennino, che, fin dai tempi della ricca necropoli di via XX Settembre, appartenente all’età del ferro, dai tempi dei navigatori etruschi e focesi o massiliesi, ha fatto scegliere ai Liguri Genoati il sito marittimo accompagnato dal loro Oppidum e dal loro Emporium. In generale si verifica il contrario, sono le articolazioni costiere e non i passi dell’entroterra, che influiscono sull’ubicare e sviluppare i centri marittimi”. Un’affermazione che consente di dire che il porto di Genova, non lo ha voluto la natura ma gli uomini. (Rovereto in Petrucci, 1997) L’antichissimo Porto si estendeva dalle falde del Castello di Sarzano alla piazza del Molo: rada e insenatura il rimanente. Le acque occupavano più del terzo dell’attuale Città. Ma la prestante fibra de’ genovesi seppe a furia di palafitti ed interrimenti fabbricare in pochi secoli la vasta zona che ora circonda il mare. Il Mandraccio viene indicato come il porto più antico conosciuto: ma ei non dovea servire che ai più sicuri approdi, e specie di avanporti e insenature ci dovean essere per altri ormeggi,  per le darsene ed anco per cantieri di costruzione. Sull’origine de’ Genuenses o Genuati molto si disputò: certo è che e’ traessero il nome, se non la favolosa origine, da Giano, figlio o nipote di Noè. E Giano in ebraico è quanto dir mare. Ond’è che si volle le antiche monete genovesi portassero da una parte il bifronte Dio, dall’altra la poppa e la prora d’una nave, come gli assi di Roma (si nega ora che sien mai state tali monete genovesi: ma fu secolar tradizione per provare l’origine della Città di Giano). Per quanto Plinio vanti i generosi vini del genovesato, e’ fu sempre ribelle all’aratro. Però ben si disse essere Genova balia de’ popoli marittimi, prima in Italia avanti i Pelasgi e i Tirreni (i romani vennero secoli dopo) a disprezzare i pericoli e a vincere le difficoltà della primitiva navigazione. (Malnate, 1892) Giano, re degli Aborigeni antenati dei Romani. Genua in lingua celtica significa adito o entrata, porta come via d’accesso agli scambi commerciali con le genti del nord (vedi Giacomo Lumbroso, in Giornale Ligustico, 1874 e 1876). (Donaver 1890) Il nel Seno di Giano. Era un piccolo fiordo che si insinuava tra la collina di Castello e quella di Carignano al suo estremo si trovava una località detta Ponticello ed un piccolo porto da cui prese il nome il quartiere di Portoria. L’antico Seno di Giano in Portoria fu il primo porto naturale di Genova Centro. (Miscosi 1933) “Procedendo in ordine geografico, da ponente a levante, i popoli stanziati sulla nostra riviera nell’età pre romana, e di cui la storia ci ha conservato i nomi, erano i seguenti: 1) dal Varo alla Turbia i Vedianzi, la cui capitale era Cemenelo, oggi Cimiez; Nizza e Monaco essendo colonie dei Missiloti; 2) dalla Turbia al torrente Impero, gli Intemeli, capitale Ventimigli; 3) dall’Impero a Finale, ossia al torrente Pora, gli Ingauni, Capitale Albenga, e a tramontana di questi gli Epanterj; 4) dal Pora al torrente Lerone, fra Cogoleto e Arenzano, i Sabazi, capitale Vada Sabazi, oggi Vado; 5) dal torrente Lerone a Portofino, i Genuati, capitale Genova, e a monte di essi, sull’alta Polcevera, i Veturi; 6) da Portofino al capo Mesco, i Tiguli, cogli oppidi Tigulia (?) e Segesta (?); 7) dal confine dei Tiguli a quello di Luni, gli Apuani, capitale Pontremoli.” (vedi. Vittorio Poggi, I Liguri nella preistoria, Savona, tip. Bertolotto e C., 1901, citato in Donaver, 1913). Una merce che si vendeva sempre bene nel mercato di Genova era l’ambra, che proveniva dal Baltico, come rilevò il Mommsen e come hanno confermato le esperienze fatte su pezzi d’ambra raccolti nelle tombe di via XX Settembre. E’ importante questo fatto perchè ci attesta quanto sia antica quella corrente commerciale attraverso la Svizzera e le Alpi che si afferma al giorno d’oggi coi valichi del Gottardo e del Sempione. (Poggi G., 1914) Probabilmente fin dai tempi dei Fenici, 1000 e più anni a.C. venivano i portatori d’ambra sul nostro lido, come si recavano sul lido Adriatico passando per la via del Brennero, detta in antico via dell’ambra gialla (Mommsen St., Rom. Lib. I Cap.X). (Poggi G., 1914) (Poggi G., 1914)   Genova pre-romana. (Barbieri, 1938) Età ellenistica.   Bibliografia:Poggi V., Delle antichità di Vado, in Giornale Ligustico, 1877, pg.366; Oberziner G., I Liguri antichi e i loro commerci, in Giornale Storico e Letterario della Liguria, 1912; Barrili A.G., I Liguri cavernicoli, in Voci dal passato, Milano, 1909; Rossi G., I Liguri Intemeli, in Atti della Società Ligure di Storia Patria, vol.39, 1907. [ulteriori immagini saranno inserite appena verranno pronte] *     *     *
  6. L’ OPPIDUM LIGURE-GRECO

DALLA MITOLOGIA ALLA STORIA

 

Fontes Ligurum et Liguriae antiquae, Atti della Società Ligure di Storia Patria, nuova serie, vol. XVI, Genova 1976.

VIII-VII secolo a.C.

560. Serv. ad Aen. X 189: «narrano infatti che Cicno, per rimpianto dell’amato Fetonte (mentre cantava sia invecchiato … e sia giunto alle stelle)»: … vi fu anche un Ligure, di nome Cicno, amante di Fetonte, che aveva avuto in dono da Apollo la soavita del canto. Mentre piangeva la morte di quello (Fetonte), per il lungo pianto fu trasformato nell’uccello che porta il suo nome (cigno). Questo, in seguito, fu posto da Apollo fra le stelle. (E.S.)

7. Hesiod. fr·199 Rzach = Hygin. fab. 154: (Phaethon Hesiodi) … (Fetonte di Esiodo) …Cicno, re della Liguria, che era parente di Fetonte l, mentre
piangeva il parente fu trasformato in cigno. Anche questo mentre muore canta flebilmente (E.S.

7a. -Hesiod. fr·199 Rzach = Schol. Strozz. German. Arat. p. 174 Breysig: … Lo stesso Cicno, re della Liguria, parente di Fetonte, mentre lo piangeva, fu trasformato in cigno. Anche questo mentre muore canta flebilmente. (E.S.)

75. Lactant. Placid. narrat, fab. Ovìd. met. II fab. 4: Quando Cicno, figlio di Stenelo, parente di Fetonte per parte di madre, abitava in Liguria e, sulla riva del fiume Eridano, che alcuni chiamano Po, vide che il corpo di Fetonte era lavato dalle sorelle di lui, fu colpito da uguale disgrazia. (E.S.)

IV-III secolo a.C.

12. Theophr. de lapidibus 2, 16: Tra quelle che vengono scavate per essere utilizzate, vi sono delle pietre che chiamate semplicemente carboni, poiché si incendiano e bruciano appunto come il carbone. Esse si trovano ln Liguria, dove è anche l’ambra (a proposito del carbone in Liguria, contro l’affermazione di Teofrasto esiste la testimonianza negativa di Plinio il Vecchio (cfr. n. 56). Invece, per quanto riguarda l’ambra cfr. nn. 13; 55; 279. Probabilmente l’ambra non si trovava in Liguria, ma proveniva dal nord e i Liguri erano gli ultimi a riceverla), ed in Elide, là dove passa attraverso i monti la strada per Olimpia … (R.P.)

13.Theophr. de lapidibus 5, 29: Poi vi è la pietra dell ambra, la quale è scavata in Liguria; essa possiederebbe forza a attrazione. (R.P.)

234 a.C.
67. Zonar. VIII 18, 9: In aggiunta a ciò, i Corsi si ribellarono, mentre i Liguri non se ne stavano in pace. L’anno successivo i Romani divisero le loro forze in tre parti, affinché (i nemici), combattendo assieme, non si portassero aiuto l’un l’altro, e mandarono Postumio Albino in Liguria, Spurio Carvilio in Corsica, il pretore urbano Publio Cornelio in Sardegna. E i consoli compirono la loro missione con una certa speditezza, anche se con qualche fatica (questa campagna avvenne nel 234 a. C., sotto il consolato di Lucio Postumio Albino e Spurio Carvilio Massimo Ruga. Quella citata successivamente avvenne invece l’anno dopo, essendo consoli Quinto Fabio Massimo e Manio Pomponio Matone) … Dopo che i Romani si furono ritirati dalle loro regioni, i Sardi e i Liguri si ribellarono di nuovo. A seguito di ciò furono inviati in Liguria Quinto Fabio Massimo e in Sardegna Manio Pomponio. (G.G.)

230 a.C.
68. Zonar. VIII 19, 2: Frattanto i Cartaginesi, avendo appreso che i consoli Marco Emilio e Marco Giunio erano partiti per la Liguria, si preparavano a marciare su Roma. Ma avendo i consoli saputo ciò, ed essendosi portati insieme contro i Cartaginesi, questi ebbero paura e si fecero incontro ai Romani amichevolmente. E i consoli a loro volta finsero di non essere venuti contro di essi, ma di essere passati attraverso la loro regione (per dirigersi) contro i Liguri (pisodio minore delle guerre romano-gallo-liguri, avvenuto nel 230 a. C. Si parla erroneamente di Cartaginesi, trattandosi invece di qualche tribù gallica delle montagne. I consoli sono Marco Emilio Barbula e Marco Giunio Pera). (G.G.)

218 a.C.
79. Amm. Marc. XV 10, 10: Il padre dell’Africano maggiore, Publio Cornelio Scipione, condusse in Spagna una flotta, su cui era imbarcato un forte esercito, per portare aiuto ai Saguntini, famosi per le sventure e la lealtà, che erano assediati con grande accanimento dai Cartaginesi; ma, poiché la città era stata distrutta dalla superiorità bellica dei nemici, né egli era in grado di inseguire Annibaie, che, dirigendosi verso l’Italia, aveva passato il Rodano tre giorni prima, attraversò con veloce navigazione un breve tratto di mare, e presso Genova, città della Liguria, attendeva la discesa di Annibaie dalle montagne per attaccar battaglia in pianura, se la sorte gliene avesse dato l’opportunità, quando quello fosse esausto per le difficoltà del cammino. (Episodio dell’anno 218 a. C. Per ulteriori notizie, v. n. 141). (A.A.)

218-217 a.C.
69. Zonar. VIlI 24, 7: … e fra i prigionieri (Annibale) uccise i Romani, mentre rilasciò tutti gli altri. Faceva questo anche per tutti quelli che prendeva vivi, per conciliarsi le città attraverso la loro liberazione. Ed effettivamente molti degli altri Galli, molti Liguri e molti Tirreni passarono dalla parte di Annibaie, alcuni uccidendo tutti i Romani che si trovavano presso di loro, alcuni consegnandoli (ai Cartaginesi). Annibale, avanzando verso la Tirrenia, fu attaccato da (Sempronio) Longo durante l’imperversare di una grande tempesta. Essendosi avuti molti caduti da entrambe le parti, Annibaie, venuto in Liguria, vi passò un certo periodo di tempo. (Per questi episodi del 218-217 a. C. v. nn. 302; 303) (G.G.)

217 a.C.
302. Liv. XXI 58, 1: Quindi, per un non lungo periodo di tempo, finché il freddo era insopportabile, ai soldati fu concesso di riposare. Ma ai primi e incerti segni di primavera parti (Annibaie: anno 217 a. C. Per gli avvenimenti che seguirono la partenza v. n. 303) dagli accampamenti invernali e condusse l’esercito in Etruria, con l’intenzione di aggiungere alle sue forze, o con la violenza o col loro consenso, anche quella popolazione, come aveva fatto con i Galli e con i Liguri. Mentre cercava di attraversare l’Appennino
fu assalito da una tempesta così violenta, che quasi superò l’orrore delle Alpi. (L.S.A.)

218 a.C.
303. Liv. XXI 59, 10: Dopo quella battaglia (anno 218/7 a. C. Lo scontro sarebbe avvenuto fra le forze di Annibale e quelle del console Sempronio presso Piacenza, poco dopo la partenza di Annibale dall’accampamento invernale (v. n. 302). Di battaglie avvenute durante l’inverno 218/7 non parla Polibio. In questo caso, si tratterebbe di una reduplicazione della battaglia della Trebbia (G. De Sanctis, St. dei Rom., III, 2, p. 96). Qui è detto che Annibale si ritira a svernare in Liguria: invece in Pol. III 77, 3 e nello stesso Liv. XXII 1, 2 Annibaie sverna fra i Celti: ciò deriva dall’incertezza dei confini etnici, per cui i Levi intorno al Ticino sono detti ora Celti ora Liguri. Sull intero episodio n. 69) Annibale si ritirò in Liguria e Sempronio (Tiberio Sempronio Longo, console del 218 a. C) a Lucca. Mentre Annibale giungeva in Liguria, i Liguri catturarono in una imboscata due questori romani, C. Fulvio e L. Lucrezio, con due tribuni militari e cinque membri dell’ordine equestre, quasi tutti figli di senatori; li consegnarono poi a lui affinché così egli si convincesse che la pace e l’alleanza con loro erano più sicure. (L.S.A.)

207 a.C.
305. Liv. XXVII 39, 1: La lettera recata dalla Gallia e inviata dal pretore L. Porcio aumentò in Roma la confusione (anno 207 a. C. Lucio Porcio Licino, figlio di Marco, era stanziato con due legioni sul confine gallico); Asdrubale era uscito dall’accampamento invernale e già stava passando le Alpi. Ottomila Liguri armati erano pronti a congiungersi con ui, quando fosse passato in Italia, se non veniva mandato qualcuno in Liguria che li prevenisse con una guerra; quanto a lui, il pretore sarebbe avanzato fino a che avesse considerato sicuro il farlo con un esercito debole. (L.S.A.)

306. Liv. XXVII 48, 5: Asdrubale, tralasciando l’opera di fortificazione dell’accampamento, quando si accorse che bisognava combattere, collocò gli elefanti in prima linea avanti alle insegne; a fianco di quelli sull’ala sinistra pose i Galli di fronte a CIaudio (schieramento per la battaglia del Metauro: giugno-luglio del 207 a. C. Gaio Claudio Nerone era console per il 207), tanto perché confidasse in loro, quanto perché credeva che i nemici li temessero, si pose a capo dell’ala destra contro M. Livio (Marco Livio Salinatore) avendo con sé gli Ispani – e su questi veterani soprattutto contava -; i Liguri furono posti al centro dietro gli elefanti. (L.S.A.)

205 a.C.
311. Liv. XXVIII 46, 7: Nella stessa estate, Magone, figlio di Amilcare, imbarcati sulla flotta i giovani appena arruolati, trasportò in Italia dalla più piccola delle isole Baleari, dove aveva svernato (anno 205 a. C., durante il trasferimento da Cadice in Italia: Magone operò in Liguria dal 205 al 203 a. C.), dodicimila fanti e circa duemila cavalieri con quasi trenta navi rostrate e con molte navi da carico. Quindi con un improvviso assalto, dato che nessun presidio difendeva la costa, si impadronì di Genova. Approdò poi alla costa dei Liguri Alpini, per vedere se poteva provocarvi qualche sommovimento. (L.S.A.)

312. Liv. XXVIII 46, 9: Gli Ingauni – popolazione che appartiene alla stirpe dei Liguri – in quel tempo stavano combattendo con gli Epanteri Montani. Dunque i Cartaginesi, depositato il loro bottino a Savona, città ai piedi delle Alpi, e lasciate dieci navi da guerra all’ancora come presidio mandarono le altre a Cartagine per difendere la costa, poiché correva voce che Scipione avrebbe cercato di effettuare uno sbarco. Magone, poi, stretta alleanza con gli Ingauni, il cui favore egli preferiva, cominciò ad attaccare i Montani.

65. Appian. Pun. 9: Quando i Cartaginesi furono informati di queste cose, mandarono Asdrubale, figlio di Giscone, a cacciare elefanti, e inviarono a Magone, che arruolava mercenari in Liguria, circa seimila fanti, ottocento cavalieri e sette elefanti e gli imposero di assalire la Tirrenia con tutte le truppe che avesse potuto raccogliere, così da allontanare Scipione dalla Libia (per Magone in Liguria). (A.A.)

70. Zonar. IX 11, 7: E (Scipione) partì con la flotta degli alleati e con alcuni volontari raccolti fra la popolazione, mentre Magone, lasciata l’isola (Minorca), sbarcò in Liguria, dopo aver bordeggiato la costa. (Nel 205 a. C. Per Magone in Liguria, v. n. 311) (G.G.)

II secolo a.C.

193 a.C.
60. Frontin. strat. I 5, 16: Quando in Liguria l’esercito era penetrato in uno stretto passo, e alla mente di tutti si presentava già il ricordo del disastro di Caudio (si allude alla sconfitta delle Forche Caudine nel 321 a. C., durante le guerre sannitiche), il console Q. Minucio ordinò agli ausiliari Numidi, spregevoli sia per la loro bruttezza sia per quella dei loro cavalli, di cavalcare verso la gola che era tenuta dai nemici. Dapprima i nemici, attenti a non essere provocati, contrapposero un picchetto. Di proposito i Numidi, per accrescere il disprezzo nei propri confronti, finsero di cadere da cavallo e attirarono lo sguardo con atteggiamenti ridicoli. I barbari, allentate le file, per la novità della cosa, si incantarono completamente allo spettacolo. Non appena i Numidi se ne accorsero, avanzando a poco a poco, spronati i cavalli, si aprirono un varco attraverso i posti di guardia non difesi dai nemici; poi, poiché quelli appiccavano il fuoco ai campi vicini, i Liguri furono costretti ad allontanarsi per difendere i loro territori e a lasciare andare i Romani che erano rinchiusi nella gola. (Episodio, avvenuto nel 193 a. C.). (E.S.)

332. Liv. XXXIV 55, 5: Poi trassero a sorte le province, prima i consoli e quindi i pretori. A Cornelio toccò la Gallia, a Minucio la Liguria. (Nell’anno 193 a:C. I consoli erano Lucio Cornelio Merula e Quinto Minucio Termo) (L.S.A.)

336. Liv. XXXV 4, 1: Mentre la guerra contro i Liguri aveva subito una battuta d’arresto presso Pisa, l’altro console L. Cornelio Merula, attraverso le ultime propaggini del territorio dei Liguri, condusse l’esercito nel paese dei Boi, dove la guerra era condotta con metodi molto diversi che sul fronte ligure. (Avvenimenti del 193 a.C.) (L.S.A.)

337. Liv. XXXV 6, 1: Circa nello stesso tempo furono recapitate le lettere dei due consoli: quella di L. Cornelio sulla battaglia di Modena contro i Boi; e quella di Q. Minucio 199 da Pisa. Quest’ultimo diceva che toccava a lui presiedere i comizi; d’altra parte la situazione in Liguria era così incerta, che egli non poteva allontanarsi dal suo posto senza causare la rovina degli alleati e un danno allo Stato. (Anno 193 a.C., battaglia vittoriosa del console nLucio Cornelio Merula su (L.S.A.)

338. Liv. XXXV 11, 1: Per molto tempo in Liguria non si era fatto nulla degno di ricordo, ma alla fine d quell’anno la sorte della guerra per due volte corse un grave pericolo, infatti l’accampamento del console (Quinto Minucio Termo) fu assediato e con difficoltà potè essere difeso, Inoltre, poco dopo, mentre l’esercito romano era condotto in marcia per uno stretto passo l’esercito dei Liguri ne occupò lo sbocco. Poiché l’uscita per di là era impossibile, invertita la marcia il console tentò la ritirata. Ma anche l’altra uscita del passo era occupata da una parte dei nemici, e il ricordo della strage di Caudio era presente non solo alla memoria, ma, per così dire, agli occhi (le Forche Caudine). Il console aveva quasi ottocento cavalieri numidi fra le truppe ausiliarie. Il loro prefetto promette al console di fare una sortita da quale delle due parti egli volesse, se solo gli dicesse da quale parte erano più numerosi i villaggi; egli avrebbe fatto impeto contro di essi e per prima cosa avrebbe appiccato il fuoco alle case, affinché il terrore dell incendio costringesse i Liguri a ritirarsi dal passo che occupavano e ad accorrere in aiuto dei loro. (L.S.A.)

187 a.C.
23. Diod. XXIX 14: Quando Marco Fulvio era pretore, violò la legge nei riguardi degli alleati della Liguria ed ebbe a scontarne la giusta pena. Infatti, essendo giunto come amico presso i così detti Cenomani, li privò delle armi, senza avere nessuna accusa contro di loro. Il console, informato dell’accaduto, restituì loro le armi ed inflisse una multa a Marco (il pretore qui erroneamente chiamato Fulvio, dovrebbe essere Marco Furio Crassipe, cfr. Liv. XXXVIII 42, 4; XXXIX 3). (R.P.)

11. Aristot. (pseudo), de mìr. ause. 89 (837 b): Si dice che nel paese dei Marsigliesi vicino alla Liguria vi sia uno stagno che ribolle e trabocca e riversa una incredibile quantità di pesci. Quando soffiano i (venti) etesii si accumula la terra su di esso, vi si produce un grande polverone, e la superficie dello stagno si solidifica come terreno. Spezzandola con i tridenti, gli abitanti e luogo vi prendono facilmente quanti pesci vogliono. Si dice poi che alcuni Liguri tirano con la fionda così bene che, quando vedono parecchi uccelli, stabiliscono tra di loro quale ciascuno debba prepararsi a colpire, perché sono convinti di colpirli facilmente tutti. Si dice che anche questo sia caratteristico presso di loro: le donne partoriscono mentre lavorano e, dopo aver lavato con l’acqua il bambino, subito zappano, scavano e fanno gli altri lavori che avrebbero dovuto fare anche se non avessero partorito. ( 7 Per notizie analoghe cfr. anche nn. 21; 22; 519) E’ straordinario anche questo presso i Liguri: si dice, infatti, che nel loro paese vi sia un fiume la cui corrente si eleva in alto e scorre in modo da non far vedere le persone dall altra parte. (E.S.)

154 a.C.
767. Pol. XXXIII 9, 7: Egli (anno 154 a. C. Si tratta del legato romano Flaminio. Il console di quell’anno, citato successivamente, è Quinto Opimio, che era stato pretore attorno al 157 a C. Su questa guerra condotta dai Romani contro gli Ossibi e i Deciati, v. n. 226), trasportato a Marsiglia, veniva curato con ogni diligenza; il Senato, poi, informato dell’accaduto, immediatamente spedì un esercito con uno dei consoli, Quinto Opimio, per muovere guerra agli Ossibi e ai Deciati. Quinto, dopo aver raccolto l’esercito presso la città di Piacenza e dopo aver marciato attraverso l’Appennino, giunse presso gli Ossibi. Pose quindi il campo presso il fiume ’Apron’ e attese i nemici, sapendo che essi si riunivano ed erano pronti ad affrontare la battaglia. Dopo aver poi condotto l’esercito verso ’Aigitna’, città nella quale gli ambasciatori romani erano stati assaliti a tradimento, Quinto la prese d’assalto, vendette schiavi gli abitanti e inviò a Roma incatenati gli ispiratori della violenza. Condotta a termine questa impresa mosse contro i nemici. Gli Ossibi pensavano che l’offesa fatta ai legati non sarebbe stata loro perdonata: fatto dunque appello a uno straordinario coraggio, con furioso impeto, prima che i Deciati si unissero a loro, con una forza di circa quattromila uomini attaccarono i nemici. Quinto, scorto l’audace attacco dei barbari, fu colpito dalla loro pazza temerità. Osservava infatti che i nemici non vi erano spinti da nessun fondamento logico: si sentiva quindi sicuro, poiché aveva esperienza di quelle cose ed era per natura eccezionalmente prudente. Pertanto, dopo aver fatto uscire il suo esercito e averlo esortato con parole adatte alle circostanze, avanzava al passo contro i nemici. Con un vigoroso assalto, in breve riportò la vittoria sugli avversari: molti ne uccise, gli altri li costrinse a fuggire precipitosamente. I Deciati, dopo essersi radunati, giungevano pensando di prender parte alla stessa battaglia con gli Ossibi; ma essendo arrivati in ritardo, accolsero fra di loro i fuggitivi e poco dopo ingaggiarono battaglia con i Romani con grande impeto e coraggio. Furono però sconfitti in battaglia: allora subito si consegnarono in massa, loro stessi e la loro città, a discrezione dei Romani. (L.S.A.)

768. Pol. XXXIII 11, 1: Nello stesso tomo di tempo, in cui il Senato inviò il console Opimio per la guerra contro gli Ossibi, giunse a Roma Tolemeo il Giovane, e, presentatosi al Senato, accusava suo fratello definendolo colpevole del complotto contro di lui. (anno 154 a. C. Il Tolemeo qui citato è Tolemeo VII Evergete II, fratello minore di Tolemeo VI Filometore. Sulla guerra contro gli Ossibi e i Deciati v. n. 226) (L.S.A.)

21. Posid. fr. 58 a Jacoby = Strabo III 4, 17: Posidonio dice che in Liguria il suo ospite, Carmoleonte, cittadino di Marsiglia, gli aveva narrato di aver assunto dietro compenso per uno scavo degli uomini e delle donne insieme e che una delle donne, avendo le doglie, si era allontanata dal lavoro e si era recata in un luogo vicino; dopo aver dato alla luce il bambino, era ritornata subito al lavoro per non perdere la paga; lui stesso l’aveva vista lavorare a fatica, ma non ne conosceva dapprima la ragione, più tardi l’aveva appresa e aveva licenziato la donna, dopo averle dato la paga; e quella, dopo aver portato il neonato a una piccola fonte, averlo lavato e fasciato con quello che aveva, lo portò a casa sano e salvo20. (E.S.)

242. Posid. fr. 118 Jacoby = Diod. V 39, 1:
… passiamo a parlare dei Liguri. Costoro infatti abitano una terra sassosa e del tutto sterile e trascorrono un’esistenza faticosa ed infelice per gli sforzi e le vessazioni sostenute nel lavoro. E dal momento che la terra è coperta d’alberi, alcuni di costoro, per l’intera giornata, abbattono gli alberi. Forniti di scuri affilate e pesanti, altri, avendo l’incarico di lavorare la terra, per la maggior parte non fanno altro che estrarre pietre, per l’eccessiva disuguaglianza pietrosa del terreno; infatti con gli arnesi non sollevano nessuna zolla che non contenga almeno una pietra.Ed essendo una tale fatica nei loro lavori, con la costanza hanno la meglio sulla natura, anche se, avendo faticato parecchio, ne ricavano pochi frutti. A causa del continuo lavora fisico e della scarsezza di cibo, si mantengono nel corpo forti e vigorosi. In queste fatiche hanno le donne come aiuto, abituate a lavorare nel medesimo modo degli uomini. Vanno inoltre continuamente a caccia, con la cui pratica, catturando molti animali, controbilanciano la penuria di frutti. Vivendo, di conseguenza, sulle montagne coperte di neve ed essendo soliti affrontare dislivelli incredibili, sono forti e muscolosi nei corpi. Alcuni per la scarsezza di frutti della terra non bevono altro che acqua, mangiano carne sia di bestie domestiche che selvagge  e si nutrono delle erbe che crescono nella regione, essendo il terreno precluso ai più benevoli fra gli dèi.  Demetra e Dioniso. Trascorrono la notte nei campi, raramente in qualche semplice podere o capanna, più spesso in cavità delle rocce e caverne naturali, atte ad offrire loro sufficiente riparo. Conformemente a questo fanno molte altre, mantenendoun tenore di vita semplice e primitivo. Generalmente poi in questi luoghi le donne sono forti e vigorose come gli uomini e questi come le belve. Ed affermano anche che talvolta nei combattimenti un Gallo grande e grosso, avendo combattuto da solo con un ligure assai esile per sfida, venne da questo battuto. I Liguri hanno un armamento, per struttura, più lrggero di quello dei Romani; li difende infatti uno scudo ovale lsvorato alla moda gallica ed una tunica stretta in vita ed attorno avvolgono pelli di fiera ed una spada di media misura. Ma alcuni di essi per le relazioni con i cittadini romani, cambiarono tipo di armamento imitando imitando i loro capi. Essi sono coraggiosi e nobili non solo in guerra, ms snche in quelle circostanze della vita non scevre di pericolo. Come mercanti solcano il mare di Sardegna e quello Libico, slanciandosi coraggiosamente in pericoli senza soccorso; giacché usano bqarche più semplici di quelle per combattere da vicino e con un numero scarsissimo di equipaggiamenti utili per la navigazione sopportano le più paurose condizioni atmosferiche che l’inverno crea tremendamente.

I secolo a.C.

81-77 a.C.
92. Oros. V 24, 16: Lepido e Scipione in Italia, Bruto in Gallia, Domizio, genero di Cinna, in Africa, Carbone a Pantelleria e in Sicilia, Perpenna in Liguria e poi insieme a Sertorio in Spagna, e il più terribile di tutti, Sertorio, nella stessa Spagna, suscitando allora queste guerre civili, o con quale altro nome debbano chiamarsi, ne fecero di una molte, di una grande grandi. (Serie di avvenimenti dell’81/77 a. C. I personaggi citati sono tutti esponenti del partito democratico e avversari del partito sillano, prima e dopo la morte del dittatore) … (E.S.)

67 a.C.
64. Appian. Mithr. 95: Pompeo, avendo disposto in questo modo tutte le cose, assegnò … il mare intorno alla Liguria e alla Celtica a Marco Pomponio (episodio dell’anno 67 a. C., antefatti della guerra piratica di Pompeo. in cui però il mar Ligure è affidato ad Attilio, che qui ha invece l’Africa, la Sardegna, la Corsica e le isole circostanti. (A.A.)

22. Diod. IV 19, 4: (Eracle,) avendo valicato le Alpi ed attraversato la pianura di quella regione che e ora è ìamata Gallia, proseguì il cammino attraverso la Liguria. I Liguri che abitano questa regione coltivano una terra sassosa e del tutto sterile (che), in cambio delle cure e degli sforzi sofferti dai nativi, offre pochi frutti utili alla sopravvivenza. Perciò (gli abitanti) sono resistentissimi alle fatiche e, per il continuo esercizio fìsico, vigorosi; giacché ben lontani dall’indolenza generata dalle dissolutezze, sono sciolti nei movimenti ed eccellenti per vigore negli scontri di guerra. Generalmente gli abitanti  della regione intorno, abituati continuamente a sostenere travagli e richiedendo la terra molta cura, usarono fare compartecipi anche le donne delle fatiche connesse al lavoro. E lavorando uomini e donne a giornata, fianco a fianco, accadeva ad una donna un fatto particolare e paradossale secondo la nostra mentalità. Infatti essendo incinta e lavorando a giornata con gli uomini, presa dalle doglie raggiunse alcuni cespugli senza turbarsi; in questi diede alla luce il figlio e, avendolo avvolto con fronde, lo nascose lì, mentre lei, riunitasi a quelli che continuavano a lavorare, sopportò con essi la medesima fatica, senza accennare nulla dell’accaduto. E per il pianto del bimbo essendo divenuto il fatto noto, in nessun modo il sovrintendente la poteva convincere a sospendere il lavoro; né costei desistette dalla faticosa occupazione fin-ché il datore di lavoro, preso da pietà, dandole il compenso pattuito, non la esonerò dal lavoro. Eracle, essendo passato attraverso il territorio sia dei Liguri che dei Tirreni, giunto presso il fiume Tevere si accampò dove ora sorge la città di Roma (quest’ultimo periodo è l’inizio del fr. 89 Jacoby di Timeo, in cui si descrivono le avventure di Eracle nel Lazio e in Sicilia). (R.P.)

27. Strabo II 5, 28: Delle Alpi, che sono montagne molto alte e formano una linea curva, la parte convessa è rivolta verso le pianure già menzionate dei Celti e verso le Cevennes, la parte concava, invece, verso la Liguria e l’Italia. Occupano questi monti molte tribù, tutte celtiche eccetto i Liguri: questi sono di razza diversa, ma simili (ai Celti) per il modo di vivere; abitano la parte delle Alpi che si unisce agli Appennini e occupano anche una parte di questi monti. (E.S.)

29. Strabo IV 6, 3: Monaco è un ormeggio per navi non grandi e non numerose, ed ha il tempio del cosiddetto Eracle Monaco: dal nome sembra che anche fin qui siano giunti i viaggi di cabotaggio dei Marsigliesi; è lontano da Antibes poco più di duecento stadi. Da qui ormai fino a Marsiglia e un po’ oltre il popolo dei Salluvi abita le Alpi che sovrastano la costa e alcune zone della stessa costa, insieme ai Greci. Gli antichi scrittori greci chiamano Liguri i Salluvi e Liguria il paese che abitano i Marsigliesi; gli scrittori posteriori, invece, li chiamano Celtoliguri e assegnano a questi la pianura fino ad Avignone e al Rodano, dalla quale, divisi in dieci distretti, fornivano non solo una squadra di fanti, ma anche una di cavalieri. Questi furono i primi dei Celti transalpini che i Romani ridussero in loro potere, dopo aver combattuto per molto tempo contro di essi e contro i Liguri che avevano sbarrato le strade che conducono in Iberia lungo la costa. Facevano infatti razzie per terra e per mare ed erano tanto forti che la strada era a stento praticabile con grandi forze militari. Dopo ottanta anni di guerra (la vittoria di Sestio Calvino sui Salluvi è avvenuta nel 123 a. C., quindi, secondo questo passo, le operazioni militari dei Romani contro i Liguri sarebbero incominciate nel 203 a. C., quando il cartaginese Magone era in Liguria (su di lui v. n. 311). Per quanto riguarda la definizione di Marsiglia, citata precedentemente, come città della Liguria, v. n. 826) (i Romani) ottennero appena che si lasciasse libera la strada per un tratto largo dodici stadi per chi viaggiava per conto dello stato. In seguito, tuttavia, li sconfissero completamente, e, dopo averli terrorizzati, imposero essi stessi la forma di governo. (E.S.)

32. Strabo V 1, 3: Procedendo parte per parte si può dire così, che la base delle Alpi è curva e simile a un goIfo con la cavità rivolta verso l’Italia; la parte centrale del golfo è nel paese dei Salassi; le estremita’ invece, formano una curva, da una parte fino al monte Ocra (monte di non sicura identificazione, nella parte più bassa delle Alpi Giulie o Camiche) e al fondo del mar Adriatico, dall’altra verso la costa ligure fino a Genova, emporio dei Liguri, dove gli Appennini si uniscono alle Alpi … questi (Appennini), infatti, incominciando dalla Liguria, penetrano nella Tirrenia, lasciando uno stretto litorale. … (E.S.)

33. Strabo V 1, 4: Questa (pianura) è divisa quasi nel mezzo dal Po; una parte è chiamata Cispadana, e l’altra Transpadana; la Cispadana è tutta la regione vicino agli Appennini e alla Liguria, la Transpadana è la rimanente. L’una è abitata dalle tribù liguri e celtiche che vivono in parte sui monti, in parte in pianura; l’altra, invece, è abitata dai Celti e dai Veneti. (E.S.)

34. Strabo V 1, 12: Le regioni intorno a Modena e al fiume Panaro producono la lana morbida, di gran unga la più bella di tutte; la Liguria e il paese degli Insubri, invece, producono quella ruvida, con cui si fanno la maggior parte degli abiti per i servi italici. (E.S.)

35. Strabo V 2, 1: Sia chiamata seconda parte la Liguria che è negli stessi Appennini, situata fra la Celtica di cui si è parlato ora e la Tirrenia; non ha nessun particolare degno di descrizione, eccetto che gli abitanti vivono in villaggi, arando e zappando un aspro terreno o piuttosto, come dice Posidonio, tagliando sassi … Sono terzi, contigui ad essi, i Tirreni … La Tirrenia, iniziando dal mar Tirreno e dal Tevere,finlsce proprio ai piedi dei monti (Appennini) che la circondano dalla Liguria all’Adriatico. (E.S.)

36. Strabo V 2, 5: Tra Luni e Pisa vi è il fiume Magra, che molti storici hanno considerato come confine tra la Tirrenia e la Liguria … (i Pisani) erano esasperati dai Lìguri che più bellicosi dei Tirreni, vivevano al loro fianco come cattivi vicini … (E.S.)

37. Strabo VI 4, 2: … (i Romani) si guadagnarono dapprima, mano a mano, parte per parte, tutta la Gallia, Cisalpina e Transalpina, insieme alla Liguria, poi il divo Cesare e in seguito Augusto la conquistarono tutta in una volta con una guerra generale. (Si allude probabilmente alla guerra gallica di Cesare, 58-51 a. C., e all’opera svolta da Ottaviano tra il 40 e il 14 a. C. (E.S.)

279. Strabo IV 6, 2: Poiché i Liguri sono in parte Ingauni e in parte Intimili, è naturale che i loro insediamenti sul mare siano chiamati l’uno Ventimiglia (’Albion Intemelion’, dove Albion equivale ad ’Alpeion’), l’altro, più brevemente, Albenga (’Albingaunon ). Polibio (Pol. XXXIII 9, 8, v. n. 767) poi aggiunge alle due sopraddette tribù dei Liguri, quelle degli Ossibi e dei Deciati. In generale tutta questa costa da Monaco fino alla Tirrenia è esposta ai venti e senza porti, eccetto piccole rade e ancoraggi. La sovrastano, poi, gli enormi dirupi dei monti, lasciando uno stretto passaggio vicino al mare. Vi abitano i Liguri che vivono per lo più delle carni dei greggi, di latte e di una bevanda di orzo ed occupano le terre vicino al mare e specialmente i monti. Hanno qui ricche foreste che formscono legname per la costruzione delle navi e con alberi così grandi che il tronco di alcuni raggiunge il diametro di otto piedi; molti di questi, poi, anche per la varietà delle venature non sono inferiori al legno di cedro per la fabbricazione delle tavole. Portano all’emporio di Genova questi legnami, animali, pelli, miele; ricevono in cambio olio d’oliva e vino italiano; il loro vino, infatti, è scarso, resinato e aspro. Di qui provengono i cosiddetti ginnoi – cavalli e muli – le tuniche liguri e i saghi (rozzi mantelli indossati anche dai Galli). Presso di loro abbonda anche il lingurion, che alcuni chiamano ambra. Non sono affatto abili, nelle campagne militari, come cavalieri, ma sono abili opliti e veliti; dal atto che portano scudi di bronzo, alcuni deducono che siano Greci. (E.S.)

Adelina Arnaldi (A.A.), Gianfranco Gaggero (G.G.), Rossella Pera (R.P,), Eleonora Salomone Gaggero (E.S.), Luigi Santi Amantini (L.S.A.)

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I Liguri intorno al 1200 a.C. (Marmocchi, 1876)

[ulteriori immagini saranno inserite appena verranno prodotte]

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LA LIGURIA AVANTI I ROMANI

Girolamo Serra, La Storia della Liguria e di Genova scritta
dal marchese Girolamo Serra, Torino, presso Pomba, 1834.

La Liguria avanti i Romani.

I popoli compresi fra il Varo e la Magra, fra l’Alpi, l’Appennino e il mare, si chiamaron Liguri: e siccome le primitive nazioni solevano aver due nomi, così l’altro lor nome fu Ambroni (Plutarco in Mario). Liguria si disse il loro paese, e Ligustico il mare interposto fra l’amene sue rive e la Corsica (C. Plin. nat. hist. III. 5).
L’origine di questi popoli, se celtica, greca, o direttamente asiatica, non è ben chiara, e l’oscurità è maggiore circa l’epoca e il modo del loro tragitto, ciò solo apparendo che furono a niuno secondi, fors’anco i primi ad abitare la bella penisola, che poi si disse Italia. (Annotazione I)

Annotazione I.
I Liguri, detti anche Ligii e Libui nell’antichità, sono annoverati per comune consenso fra i popoli primitivi dell’Italia. Cosi dietro agli antichi scrissero concordemente l’illustre Sigonio nella sua storia de regno Italiae, Teodoro Rickio de primis Italiae colonis, Simone Pelloutier nella storia de’ Celti, il Padre Stanislao Bardetti De’ primi abitatori dell’Italia; e in quest’ultimi tempi il sig. di Niebuhr ebbe a dire, (Hist. romaine c. I. de l’ancienne Italie) che la nazione de’ Liguri è una di quelle a cui la piccola estensione delle storie nostre non giunge, se non quando era già cominciata la loro decadenza. Concede che antichissimi sieno Monsignor Guarnacci nelle sue Origini italiche; ma interpretando a suo modo due passi di Tito Livio, li fa derivar dagli Etruschi con tutti gli altri popoli dell’Italia settentrionale. Se non che siffatto sistema, giusta la frase dell’Ab. Denina, (Delle rivoluzioni d’Italia I. 3) non è per accordar facilmente col parere d’ altri eruditi; e in fatti il chiar. sig. Giuseppe Micali nella coronata sua opera non l’ha abbracciato e non ne ha pur fatto men­zione. (Storia degli antichi popoli ital. T. II)
Popoli primitivi non solo, ma primi di tutti in Italia si diranno i Liguri, se attendasi alle osservazioni del predetto P. Bardetti (p. 168). Ella è veramente nuova opinione, ma è pur di quelle che una volta prodotte, si rincalzano da più lati. Il fondamento n’è à un passo d’Eliano, che dice così: (1) “Narrano antichissimo essere stato certuno nominato Mar (in greco Motpav), e favoleggiano che le sue parti anteriori erano d’uomo, le posteriori di cavallo, che visse 123 anni, e morto tre volte, altrettante risuscitasse … Ma sembra a me che primo ei montasse un cavallo e mettessegli il freno, e che perciò si credesse biforme. Così il greco scrittore. Ora si prova che Mar fu ligure, da che i Marici, popolo e nome evidentemente derivato da Mar, erano Liguri per comune avviso; e provasi inoltre ch’ei fu primo capo e condottiere, da che a un tal grado soltanto .si conveniva di porre il proprio nome a nuove colonie e popolazioni. Un uomo che primo domò i cavalli, e salì loro in sul dorso, doveva apparire a’ suoi contemporanei un essere prodigioso, una specie di gigante, quale apparve la prima cavallerìa Spagnuola a’ popoli del nuovo mondo. Infatti Licofrono dice de’ Liguri vs. 1556, secondo la traduzion di Scaligero, primo Sithonum duro gigantum sunt creati sanguine. La quale asserzione di uno scrittore, a cui l’immensa e preziosa libreria di Tolomeo Filadelfo era famigliare, fa pur fede che i Liguri sono un popolo primitivo, e che l’origine loro è de’ tempi prossimi al diluvio, perchè a quelli appunto risale l’esistenza de’ Giganti, o come la Genesi rischiarando la mitologia li definisce, di uomini forti, potenti e maravigliosi d’opere. Nella specie de’ Giganti erano annoverati i Centauri; ed ecco come la sentenza di Licofrono illustra il passo del filosofo Eliano, che fu a’ tempi dell’imperatore Alessandro Severo un dottissimo compilatore delle memorie lasciate da’ più antichi scrittori. A cotale opinione di un favoloso centauro, ciò è mezz’uomo e mezzo cavallo, pare che facesse allusione Virgilio, diligentissimo osservatore delle antichità italiane, ove dice, ( Variar, Hist. IX. 10) come il figlio di Cupavone uno de’ Liguri che soccorsero Enea, comandava una nave nominata Centauro. Merita particolare osservazione il nome di Mar tuttodì conservato nel borgo di Marasci in riva al Bisagno, ne’ castelli di Marengo l’uno presso la Bormida, l’altro poco lontano dal Lemo, e nella terra di Pietra Marazzi presso la sinistra sponda del Tanaro. Tolte le terminazioni italiane e latine, Marasc è composto di Mar e Asc, voce Celto-ligure, frequentissima nella corografia dell’antica iscrizion di Polcevera e nelle presenti denominazioni di Bogliasco, Trensasco, Langasco, Mursasco, Cherasco e moltissime altre. Similmente il nome di Marengo, o Maringo, che l’uno e l’altro è ben detto, si divide in Mar ed Eng, o Ing, che secondo Leibnizio (etimolog. p. 260) significano in celtico pianura, e vorrebbe perciò significare pianura di Mar, spiegazione confacentissima alla situazione delle castella cosi nominate. Pietra Marazzi è manifestamente l’antica pietra de’ Marici. Vuolsi a tutto questo aggiungere l’avviso di un moderno ingegnoso scrittore, (Fortia d’Urbain, orig. des Saliers p. 391) il quale riflettendo, che i nomi degli Dei romani furono tolti da’ popoli anteriori a’ Romani in Italia, attribuisce a’ Liguri il nome e culto di Marte. E in vero non si può mettere in dubbio, che Mar, Mares, Mars e Marte non sieno lo stesso nome diversamente declinato in diversi casi e dialetti. Or Fauno re degli Aborigini al tempo che una colonia d’Arcadi sbarcò in Italia, (Dionys. Halic. I. 45) si faceva discender da Marte: prole di Marte si dicea Romolo nato in una colonia di Aborigini latini; questi popoli avevano nella città di Tiora (Ovid. Fas. III) un oracolo antichissimo di Marte; e i Saij, altro popolo ligure, onde vennero a Roma i sacerdoti cosi intitolati, rendevano un celebre culto a questo primo capo della loro nazione, trasformato in uno degli Dei maggiori dalla superstiziosa antichità. E lo trasformarono appunto i Latini nel Dio della guerra, chiamato [in greco Apnt] da’ Greci, come in quello cui la vecchia fama di essere stato Centauro e gigante congiungeva l’idea di sovrumano valore e ferocia.
Si direbbe che simile tradizione allegorica non fosse ignota a Esiodo, (Scutum Herculis vs. 57 et seg.) poich’ei fè Cigno figliuolo del Dio della guerra, e lo fè combattere con Ercole, sapendosi altronde, che Cigno, eroe mitologico, fu annoveralo fra’ liguri, e che tali popoli combatterono col greco eroe. Così la Teogonia, che svelar suole, a chi la considera attentamente, le prime origini delle nazioni, conferma a meraviglia l’assunto, che Mar fu capo e primo condottiero de’ Liguri. Lo conferma egualmente il nome di Marsiglia o Marsalia città originariamente fondata da Liguri transalpini, e nome comune a un piccolo e montuoso casale in val di Bisagno.
Ben è vero, che parecchi antiquarj hanno opinato, i Liguri essere stati in Italia condotti da un certo Ligure o Ligurino figlio di Fetonte figlio di Cham e padre di Veneto; ma questa opinione non è ad altro appoggiata, se non alla raccolta di antichi autori, che pubblicò nel secolo XV Annio da Viterbo, ossia Giovanni Nanni dominicano, e che oggidì tutti i critici riprovano come falsa e supposta.
Ma se Ligurino figlio di Fetonte altro non è, che un essere immaginario, dond’è mai l’etimologia del nome Ligure? Lo scioglimento di questa quistione dipende dall’origine della nazione. Quelli che la ripetono da’ Greci, dicono che Ligus Ligure, significando altresì nella greca favella stridolo, risonante, fu dato tal nome a quella nazione per allusione alle strida che solea mettere pria di azzuffarsi, o allo stridore delle tempeste, che dominano ne’ suoi mari, o veramente a un certo genio di canto, che il Ligure Cigno portò poi alla sua perfezione. Nè manca in lingua si doviziosa il significato di Ambroni, come ne’ tempi antichissimi si chiamavano talvolta i Liguri, secondo che apparisce nella vita di Mario. (in greco Ombro); vuol dire nembo o pioggia; e Plinio e Solino osservano, assumere tal nome que’ popoli, i quali a cagione di lor rimotissima origine si vantavano di essere ancora avanzati al diluvio. Questa duplicazione non dee far maraviglia. Solevano le nazioni primitive aver due nomi, uno de’ quali si dava loro da’ forestieri, e riferivasi a qualche lor costumanza o località, e l’altro davano a se stesse, traendolo da quella qualità o fazione, per cui si pregiavano più; vedasi al proposito il tomo XVIII delle Memorie dell’accademia francese, p. 61.
Ma l’opinione che i Liguri venisser di Grecia, è molto contrastata. Chi riconosce l’origine loro da’ Celti popolo primitivo in quasi tutto il settentrione di Europa, spiega il nome di Ly-gour Ligur per uomo di mare, e tal altro ancora per uom che si posa, il contrario di Scita e Celta, ossia vagabondo; quasi che i Celti erranti ancora e selvaggi nelle prime loro foreste, non passassero a un genere di vita stabile e sociale, che allora quando cominciarono a fermar la sede in Liguria; il che concorderebbe colla gravissima sentenza di un filosofo inglese, che le prime a lasciare lo stato di barbare e selvagge furono le nazioni abitanti sulle riviere del mare mediterraneo. (V. Pelloutier, lib. I, c. 10; Smith Wealth of nations, vol. I, c. 3).
E canone di giusta critica, che diversa origine han le nazioni di diversa lingua, e simile quelle, di cui molte voci indigene si rassomigliano. Indigene erano in Liguria le voci Albion, Bergion, Borman, e per lasciare molte altre, Bodinco, come per testimonianza di Plinio e di Polibio, i Liguri chiamavano il Po; e valea in lor favella senza fondo (Boda è anche un fiume di Germania, che sgorga nell’Elba), Or tutti questi vocaboli si riferiscono con evidente analogia alla lingua Celtica, come può vedersi nel 2. tomo dell’opera più volte citata su i primi abitatori dell’Italia. Non così manifesta è l’etimologia de’ nomi di Genua e Mar, l’una città principale, e l’altro primo condottier de’ Liguri. Ma Samuele Bochart solla scorta del dizionario di Cambden afferma, che Genu, Genua vuol dire in lingua celtica adito, entrata; e Mar significa grande: le quali origini maravigliosamente s’accordano alla situazione della città, una delle principali porte d’Italia, (Da ciò verrebbe, che i nomi di Genova e di Torino hanno in dialetti diversi simile significato, e che gli scrittori del medio evo chiamando Genova Janua, espressero senza saperlo la forza .del vero nome) e all’opinion favolosa, che Mar fosse gigante e centauro. Con egual precisione si ritrae da celtica radice il significalo della parola Ambroni; e ne risulta una piena intelligenza del passo di Plutarco. Ambroni, che è Ambron al singolare, volevano dire illustri, animosi; il che pur suonano oggidì nella lingua Irlandese, secondo il dizionario di Edmond Huid; ed ecco come gli Ambroni, che insieme co’ Cimbri combatterono contro di Mario all’Acque Sestie, poterono per inanimirsi alla zuffa, gridare il nome loro, e quello stesso ripetersi con grande alacrità da’ Liguri quale antico e glorioso lor nome; senza che sia necessario il dedurne i Liguri essere stali anticamente un medesimo popolo cogli Ambroni transalpini, o cogli Umbri italiani. Forse tanto gli uni che gli alri si dettero un cotal nome per dinotare qualche loro celebre impresa; e forse il presero tutti da una lingua orientale, madre comune degl’idiomi Ligure e Celtico.
E cosa veramente ardua l’immaginarsi, che ne’ tempi prossimi al diluvio fossero i Celti cosi cresciuti di numero, e cosi ristretti nella Germania e nelle Gallie per risolversi, senza sapere ove andassero, a salire le inospite montagne, che l’Italia dividono da quelle vaste province. Sembra all’opposto molto più ragionevole avviso, che quando l’Asia, quella certissima culla del genere umano, si trovò sopracarica di abitatori, partissero dalle pianure della Mesopotamia e dell’Assiria alcune colonie poco dissimili ne’ costumi e nella favella; scendessero alle provincie marittime, e una di quelle guidata da Mar andasse a popolar la Liguria coll’altre Riviere del mar mediterraneo; e l’altra condotta forse da Teut o Thuiscon penetrasse dalla Tracia o dalla Tauride nelle provincie settentrionali di Europa.
Questa spiegazione può corredarsi di tutti que’ documenti e testimonianze, cbe hanno indotto il dotto Freret ad affermare, che i primi a por piede in Italia sono stati i popoli meridionali. E quantunque sì egli, che il P. Bardetti neghino ciò essersi fatto per via di mare sull’unica ragione, che la navigazione non poteva in tanta antichità esser nota; l’autorità di quegli eruditi non deve in conto alcuno antiporsi al detto di Sanconiatone, (Euseb. Praepar. Evang.; Vitruv. lib. II. 1) che fa l’uso de’ navilj poco posteriore all’invenzione del fuoco; nè di Cornelio Tacito, che afferma per mare e non per terra essersi condotti coloro, che nelle antiche età trasmigravano; nè alla testimonianza di Flavio Giuseppe, il quale riferisce, (Antich. Giud., lib. I c. 5) che dopo la confusion delle lingue a Senaar, gran gente andò navigando a popolar le isole, e molto meno al detto della Genesi c. 10, n. 5 – Ab his divisae sunt insulae gentium in regionibus suis. – Che il dottissimo P. Calmet, seguitato da quasi tatti gl’interpreti, cosi commenta. – Nomine insularum gentium intelligendae sunt omnes insulae et regiones a continenti Palestinae sejunctae, quo Hebrei non nisi mari poterant proficisci, intellige Gallias, ltaliam, Graeciam, Asiam minorem etc.
Conchiuderemo domandando con Tito Livio, che qualche cosa condonisi all’antichità. Le origini e i primi fatti delle nazioni non ammettono prove indubitate. E la moderna critica ha tanto assottigliato l’ingegno, che si dubita oggi, se Romolo fondasse Roma.

Il bisogno dell’ ordine e della difesa richiedeva, che le primitive nazioni non trasmigrassero lontano senza un capo animoso, un condottiere ornato di qualità straordinarie; ma quanto il principio è indubitato, tanto è difficile a separare dalle invenzioni allegoriche il fatto. Chi furono questi capi, questi primi eroi? Gli Egiziani riconoscevano Menes, i Greci Ellene, i Germani Teut o Tuiscon; e noi abbracciando una recente opinione, diremo che il condottiere de’ Liguri probabilmente fu Mar, il quale insegnò coll’esempio a domare i cavalli, e visse intorno a cent’anni; onde i poeti favoleggiarono ch’ebbe le forme di un centauro, e morto tre volte altrettante risorse. La sua memoria fu venerata da’ posteri in guisa, che quanto si era inventato in Grecia del nume della guerra Arete, tanto si attribuì in Italia al Ligure Duce, chiamato Mars con desinenza latina, e Marte con italiana. Dura fino al presente il suo nome nel borgo di Marasci sopra il Bisagno, in due castelli Marengo, l’un presso al Lemo, l’altro alla Bormida, e nell’antica pietra de’ Marici, quale i Patriarchi e i primi condottieri de’ popoli por solevano in memoria di loro imprese. Questa pietra fu forse il primo termine della Liguria.
Non pare che Mar, a somiglianza de’ capi d’altre nazioni, avesse il titolo di re. Anzi è verisimile, che i Liguri si mantenessero alcun tempo nel primo stato della società senz’altro governo che delle famiglie, senz’altre leggi che della natura. Di poi si raggrupparono in molte e piccole popolazioni, le une indipendenti dalle altre; il novero, i nomi e i confini delle quali hanno faticata la penna di uomini dottissimi nell’età moderna (Filippo Cluverio, I’autore della Tavola corografica dell’Italia, d’Anville, Freret, Simon Pelloutier, Gasparo Oderico , Stanislao Bardelti, Jacopo Durandi ecc.) Noi le indicheremo brevemente.
Fra il Varo e la Rufuba, ora la Roja, erano i Vedianzi, e i Ventimigliesi. Tenevano i primi due grosse castella, Cemenelo, oggi Cimies alla montagna, e Lumone, forse Mentone al mare. Non si conosce de’ secondi, sebben numerosi e potenti, fuorché la città nominata da’ Latini Albium Intimelium, or Ventimiglia, e il castello allora marittimo di Tabbia or Taggia. È difficile a dirsi, se al territorio loro, o a quello degl’Inganni lor confinanti a levante, appartenesse l’antichissimo bosco consecralo alla memoria di Borman, il Nettuno de’ Liguri. La città principale degl’Ingauni, popolo fra i Liguri chiarissimo, si chiamava in loro favella Albing, in latino Albium Jugaunum, e in volgare Albenga. Confinavano col distretto di lei i Sabazj, padroni del golfo di Vada Sabatia, or Vado, che è coronato da’ gioghi, ove secondo Strabone incominciano l’Alpi; le quali volgendo prima a ponente sino all’estremità occidentale della Lignria, indi a tramontana, da ultimo a levante, coronano l’Italia, e la dividono dalla Francia, dalla Svizzera e dalla Germania.
A’ Liguri marittimi nominati di sopra facevano spalla altrettanti popoli montani sopra le vette e le falde dell’Alpi occidentali; dietro a’ Vedianzi e ai Ventimigliesi i Veneni e i Vagienni appoggiati al Vesulo oggi Monviso, celebre dirupo perchè scaturisce da quello il re degli italici fiumi Eridano o Po, e nell’antica lingua de’ Liguri Bodinco. Le Viosenne, erbose valli in cima dell’Alpi, dividevano i Vagienni dagli Epanterj, ove oggi è Triora, la Pieve del Teico, e Zuccarello sopra il territorio di Albenga; e dietro a’ Sabazj porgevano fino all’Orba e alla Bormida i pacifici Slatielli. Questi erano i Liguri occidentali.
Nel mezzo della Liguria marittima la costa notabilmente s’incurva, un ampio seno formando ove signoreggiavano i Genovesi, detti latinamente Genuenses, e anche Genuates.
A Genova, secondo il greco geografo, ha principio l’Appennino, il quale correndo da ponente a levante, di breve spazio si scosta dal mare fin presso al confine orientale della Liguria, indi prosegue allargandosi, e in tutta la sua lunghezza partendo l’Italia.
Al di sopra de’ Genovesi abitavano i Vitturj, i Langansi, gli Odiati, i Dectunini, i Cavaturini e i Mentovini lungo l’alta Polcevera, il Lemo e la Scrivia; di poi fra l’ultimo corso della Bormida e del Tanaro gli antichissimi Marici e i Levi. Fra l’Appennino e il mare seguivano all’oriente di Genova i Casmonati difesi dal capo di Portodelfino, e abitatori de’borghi Ricina e Casmona, oggi Recco e Camogli; quindi i Lapicini e i Teguli presso al fiume Entella ora Lavagna, nel cui territorio si cava da tempi immemorabili una celebre ardesia; gli Ercati e i Magelli, popoli e nomi di ligure dialetto, non diversi forse da quelli ch’erano i due sopradetti in latino, e finalmente gli Apuani il distretto de’ quali comprendeva il monte Anido grave di marmi, la foce di Magra, il castello di Luni, il suo bel golfo e tutta l’estremità orientale della Liguria.
Sopra le falde dell’Appennino a tramontana e levante Celelati, Illuati, Cerdiciati, Briniati e Friniati occupavano lo spazio compreso fra la Trebia, il Taro e la Vara, nome forse dedotto dall’antico Boron.
Ne’ segnati confini vissero alcun tempo i Liguri una vita quieta, frugale, independente. Onde la semplicità de’ costumi facendo a gara con la bontà del clima, e’ crebbero tanto, che a molti convenné da’ patrj monti discendere nel piano disabitato. Allora fu, ch’ e’ s’inoltrarono nella Gallia meridionale a ponente, e nell’Italia settentrionale a tramontana.
Che se in alcun luogo trovossi qualche colonia di altre nazioni, ebbe a cedere il luogo per la costante superiorità degli abitatori de’ monti sopra quelli del piano nelle guerre , ove forza e ardire hanno il migliore.
Nè perciò trascurarono la navigazione, anzi popolarono l’isola di Corsica; e il Mediterraneo fu carico de’ lor piccoli legni, la cui rozza e debole struttura, anche ne’ tempi in che altre nazioni migliorata l’avevano, porge argomento di somma antichità. E’ fama che con non altri navilj giugnessero fino al mar Nero (Polyb. Megal. hist. Iib.Il; Isidor. Origin XIV. 6; Diodor. Sicul. lib. V; Strabon, lib. V), e sulla sponda orientale edificassero l’antica Citea.
Nuove abitazioni ebbero nuovi nomi, che noi prendiamo a riferire, perchè la descrizione de’ popoli usciti dalla Liguria abbraccia tutto quanto sappiamo de’ suoi principj.
Cominciando però all’occidente, i Liguri si dilatarono dal Varo al Rodano, e in più genti si divisero, Euburiati e Voconzj nell’Alpi, Diceati, Oasibj e Salj alle marine. Questi ultimi, detti pure Saluvj e Segobrigi, fondarono Arles dentro terra, e in un bel seno di mare Marsalia, riunendo così il proprio nome con quello del primo condottiero de’ Liguri. Signori delle bocche del Rodano, e della paludosa maremma che le circonda, i Salj trassero grandi ricchezze, e probabilmente anche il nome dalle molte saline colà raccolte da immemorabile antichità (Scilax,  Peripl. Lycophron. in Cassaud. vs. 1312; Samuel Bochart geog. sac. lib. II). Tra la riva destra del Rodano e i Pirenei porremo senza dubitazione gli Steni, quantunque non sieno essi comunemente notati in tal sito. (vedi. Annotazione. II)

Annotazione II
I Fasti trionfali dicono coll’usata lor brevità :

Q. Marcivs. Q. F. Q. N. Rex. Procos. A. dcxxvi.
de Ligvribvs Stoenis iii. N. Dec.

Or gli eruditi leggendo in Strabone che abitavano presso l’Alpi Retiche i Le ponzi o Tridentini e gli Stoni o Steni, han creduto riferirsi a quest’ultimi il citato passo de’ Fasti. Noi all’opposto crediamo, ch’ei si riferisca a un popolo Ligure abitante nella Gallia meridionale, e che degli Steni ne avesse, come de’ Salluvj, de’ Boj e di moltissimi altri tanto dall’una, quanto dall’altra parte dell’Alpi. E in vero Vellejo Patercolo lib. I, c. 15 attesta, che Q. Marcio essendo proconsole fondò la colonia di Narbona; nè ciò si mette in dubbio da alcuno. Or non è egli egualmente sicuro, che le colonie si fondavano all’intorno de’ popoli nuovamente debellati? O si può forse credete, che Marcio vincesse gli Steni nel Tirolo, e corresse poi a collocare una colonia nel mezzo della Francia ? L’anno segnato ne’ fasti ha evidente­mente un X di meno corroso dal tempo, o dimenticato dallo scultore. Ma non è certo un errore il dittongo posto alla voce Stoenis, il quale nella lingua Ligure, come nella Celtica , doveva essere segno del numero plurale.
Indi è che riflettendo alla significazione del vocabolo Stono negl’idiomi simili al Celtico, si può sollevare il velo della mitologia in quella parte che riferisce i successi di Ercole contro i Liguri transalpini, dicendo che riuscisse a lui e a’ compagni suoi di respingerli co’sassi trovati nel luogo, ove costretto l’avevano a ritirarsi, e che indi que’ popoli stessi traessero il nome di Steni o Lapidei. Una spiegazione sì fatta è confermata dalla topografia. Non lungi dall’ estrema parte del Rodano giace un piano rilevato di circa sei leghe, chiamato da Strabone campo pietroso, e da’ presenti abitanti Crau, voce nel gallico equivalente di sasso. (Bergier, Des grands chemins de l’E. A., I, 456.1. Pinkerton) È tutto coperto di pietre rotonde e grosse quanto la testa di un uomo. A mezza altezza si trovan de’ poggi, la cui superficie è una terra grassa, argillosa, mista a frantumi di pietre, la quale rende un pascolo saporito a centinaia di greggi. Quivi antica fama collocò il combattimento di Ercole; e quivi molto probabilmente gli Steni fabbricarono ne’ tempi appresso il castello, ove piuttosto che arrendersi, vollero tutti morire.
Notisi che la cronologia del Petavio da noi seguitata, anticipa di un anno sopra quella de’ Fasti.

Liguri transalpini fu il nome generico di quanti giunsero di là dal Varo e dall’Alpi. I medesimi varcarono ancora i Pirenei, dove questi monti simili all’Alpi più degradano e quasi toccano il mare. Se alcuno ne dubitasse, osservi la facilità del passaggio, la somiglianza de’ costumi, e la corrispondenza maravigliosa fra Genova, Cervara, Tortona, Piacenza, Valenza, Alba, Asti, Albeniga, Tuledo, Andora terre della Liguria, e Genua Ursano- rum, oggi Ossuna, Cervara, Tortosa, Placencia, Valenza, Alba, Asta, Albeninga, Tuledo, Andora dell’antica Iberia (Aless. Tonso Dell’origine de’ Lig. p. 228. Alcune edizioni di Plinio han Genua Urbanorum, ma lo sbaglio è patente). Se cotante analogie non bastano, abbiamo le seguenti autorità; Eratostene, antico e dotto geografo, che appella penisola ligustica la Spagna; Stefano Bisantino e Suida; i quali ascrivono a’ popoli Liguri la fondazione di Ligustina città sopra il fiume Beti; e Plutarco il quale distingue i Liguri abitanti separatamente lungo le marine d’Italia, da coloro che abitavano a rincontro dell’Affrica unitamente co’ Galli meridionali e con gl’ Iberi.
Or ritornando a que’ Liguri, che secondo il detto di Floro, erano aderenti alle radici dell’Alpi e dell’Appennino, i Veneni e i Vagienni discesero nel fertile piano ove comincia a scorrere il Po, e questo fiume varcato presso la Dora, fondarono una città nominata dall’essere in sull’ingresso d’Italia Turino (Turino, o Torino, Taurinum, da Thor e da Thüre, che» nelle lingue germanico-celtiche significano porta, uscio). Nè l’ampia vallata li contentò, ma risaliti per l’opposte montagne si dilatarono in quell’asprissimo tronco dell’Alpi occidentali, che a tempi men remoti fu detto regno di Cozio, avente Segusio or Susa per luogo principale di traffico e di delizia.
Non altrimenti gli Epanterj e gli Statielli occuparono il piano interposto fra la Stura e il Tanaro; i Levi e i Marici fra il Tanaro e il Po, fabbricando all’intorno Bodincomago, Rigomago, Alba, Carbanzia, Pollenza. E suoi fondatori li chiama l’illustre città del Ticino, oggi Pavia. Circa il medesimo tempo i Dectunini co’ loro compagni edificarono Libarna, Dertuna, Iria; i Celelati e i Cerdiciati Clastidio, Retorbio e Cameliomago; gl’Illuati Veleja, e ne trassero il nome di Eliati o Veliati; i quali potentemente si allargarono fra la Trebia, il Tidone e il Taro. Queste furono le colonie settentrionali, questi i Liguri circompadani. Così l’odierno Piemonte, l’oltre Po, il Monferrato, il Piacentino, il Parmigiano ricevettero colonie dall’antica Liguria.
Gli Apuani intanto s’inoltrarono a levante; parte discesero insiem co’ Briniati e Friniati alla Nicia, al Gabello, alla Scultenna, che sono il Lenza, la Secchia, il Panaro; e le campagne da queste acque bagnate chiamarono dal nome del principale lor fiume, Campi Macri. Parte, varcata la Magra presso la foce, infino ad Arno pervennero, sicché questo bel fiume, che or divide due chiarissime città toscane, fu un tempo il termine orientale della Liguria.
Alle descritte diramazioni havvi chi aggiogne dopo l’Alpi Retiche, i Libui, gli Orobj, i Medoaci e gli Euganei, popolo celebre, il quale dalle sponde dell’Adige fè passaggio in Istria, e mandò colonie in Aonia, provincia de’ Greci, che fu tanto cara alle Muse.
Non mancano infine conghietture e autorità per annoverare nelle colonie ligustiche due popoli sommamente gloriosi, i Siculi e gli Aborigini latini (Dionys. Hal. I. 18; Sil. Ital.; V. Bardetti t.I). I primi si posero fra il Rubicone e l’Esi, appresso fra il Tevere e l’Arno; e ottant’anni prima della guerra Trojana [1300-1200 ca. a.C.] passarono in Trinacria isola bellissima, il nome recandole di Siculo loro re. Padre di costui giusta l’antica tradizione fu Italo, principe in pace e in guerra famoso, il quale vinse gli Enotrj, diede a tutto il paese il caro nome d’Italia, e giovò grandemente a’ suoi popoli, traducendoli dalla vita pastorale allo studio dell’agricol­tura. Ma gli Àborigini fondatori di un piccolo reame nel Lazio furono gli antenati de’ Romani.
Alcune delle anzidette colonie dilatarono i confini del natio paese. Altre all’opposto trovandosi in terre lontane e affatto straniere, non solamente perderono ogni connessione con quello, ma i costumi ancora e gli ordini patrj. Secondo le prische memorie di tradizioni composte e di allegorie i Siculi ebbero i re nominati dianzi, i latini Aborigini Giano, e i Circompadani Cigno, il Lino o l’Orfeo della Liguria. Non è qui luogo da ragionarne più innanzi-, basta accennare che furono indi a non molto soggetti o misti a que’ popoli, che dalla Grecia, dalle Gallie, o dall’Imperio Trojano passarono in Italia.
Ma gli abitanti della Liguria marittima si mantennero nell’ antico stato. Greci e romani scrittori li rappresentano (Diod. Sic. lib. IV; Dionys. Hai. lib. I; Strab.de situ orb. Tit. Liv, hist. lib. XX. et seg.; Plin. Hist. nat. lib. III; Auct de admiranda audit. c. LXXVIII). I Greci grandi amatori dell’elettro o dell’ambra gialla credettero nelle loro spedizioni e scoperte averla trovata alle marine della Liguria, e alle rive del Po. Cosi i conquistatori del nuovo mondo vedevano da per tutto oro) amatori in ogni tempo di libertà, affezionati alle lor rupi, nimici d’ozio e d’agi. Senza grandi fatiche e assidua coltura il loro terreno nulla produce; ma sono giunti a dissodarlo, stritolando il macigno e ingrassando la rena. Tra l’un sasso e l’altro si veggono alberi il cui tronco acquistò un diametro di 8 piedi, ottimi per durezza a fabbricar navi, e a tagliarli o svellerli di somma difficoltà. Ne’ valloni seminano biade, sui poggi educano api e piantano viti. Montanari non mancano che a certe stagioni passano in paesi più fertili con le loro famiglie per lavorare a giornata. Altri si danno alla cacciagione; per li dirupi, pe’ ghiacci inseguono tutto il dì le fiere, e sotto un albero prendon sonno la notte. Moltissimi attendono a navigare, trafficando arditamente nel mar Tirreno e d’Affrica, ma per non migliorare l’antica rozza struttura de’ loro navilj, come fecero altre nazioni, arrischiano ad ogni tempesta la vita. L’ordinario lor cibo è orzo , radici, frutta, o la carne delle fiere uccise; la bevanda è acqua, latte, o licor d’orzo. Talvolta ancora beono vino, ma il nativo è aspro; ne prendono da’ forestieri, dando invece mele, legna e cuojo. Le città son rare. I più abitano in isparsi casali piantati sopra la cima de’ monti e difesi da terrapieni che signoreggiano la gola delle salite, i pascoli delle valli, e l’alveo de’ torrenti. I loro tuguri son fatti di pietre sovrapposte senza cemento; ma vi stanno di rado, abborrendo l’uso de’ letti, quasi altrettanti sepolcri de’ vivi. Il più dormono sulla nuda terra, all’aria libera, e spesso, quando notturna bufera li sorprende ne’ boschi, s’adagiano in spelonche, che la natura sembra aver loro scavate. Poco hanno, ma non desiderano di più, e son felici fra i pericoli e i travagli. Tengono loro dietro ne’ boschi co’ bambini al seno le donne, e partono seco la fatica. Le gravide istesse con pesi e strumenti escono alla campagna, e nel lavorare partoriscono; tuffano nell’acqua il parto, e messolo fra pochi cenci, tornano al lavoro. Balie mercennarie non vogliono. Svezzato che hanno i figliuoli, gli assuefanno a procacciarsi con l’arco e la fionda il cibo, sospendendolo al ramo di un albero, e stropicciano e bagnan loro le braccia per ridurle più flessibili e pronte. Con tali arti s’esercitano e induransi oltre ogni credere i corpi, sebbene per lo scarso vitto riescano sottili; e l’ingegno che d’ordinario sortiscono acuto, non istupidisce per fatiche o età. Usano folta barba, capigliatura lunghissima, ondeggiante. Cuoprono le spalle con dossi di fiere, e vestono un rozzo giubbone incappucciato, che è fatto di pelli di pecore non tosate ancora, da metterne la lana di sotto l’inverno, e al di sopra la state. Arco e fronda ban sempre seco; in guerra portano inoltre uno scudo ricurvo di rame, spada di ferro non lunga. I più combattono a piedi; la cavalleria ha cavalli del paese. Soldati migliori di questi per le guerre disordinate non si danno. È fama costante, che prendon piacere di sfidarsi co’ Galli a privata battaglia, e che bene spesso in tanta disparità di forme riportano la palma. Tanto può il vivere parco e faticoso corroborar la natura! In una parola le donne hanno quivi il vigore degli uomini, e gli uomini quello delle fiere.
Con tutte queste doti di robustezza e d’ardire i Liguri, divisi in una moltitudine di piccoli comuni, sarebbero rimasti preda del primo esercito numeroso, se non avessero, trovato il modo di crescere in forze, senza scapitare in libertà. Questo insegnato dalla stessa natura a quasi tutti i popoli liberi dell’età più remota, consisteva nell’entrar che facevano in una o più leghe i popoli compresi sotto un medesimo nome. Indi il nome Ligure, l’Etrusco, il Latino; e nome significa negli antichi scrittori nazione e colleganza. Indizj si hanno di quattro leghe in Liguria, una de’ Liguri transalpini, un’ altra de’ transappennini o circompadani, e due de’marittimi orientali e occidentali. Inoperose in tempo di pace, esse venivano in comunione di beni e di mali, quando cominciava una guerra. Nessun comune era tenuto a scriversi in quelle; ognuno poteva disciogliersene trascorso il pericolo, o violentato da forza maggiore. Vedremo nelle guerre straniere gli uni seguitare una parte, gli altri la contraria, dandole ricetto, provvisioni, soldati; ma non vedremo mai una lega, un comune, un ligure solo voltare la spada contro dell’altro. Le guerre e le discordie civili sono spettacolo dell’ età moderne.

Anni del mondo 2640. I Liguri combatteron da prima contro gli Etruschi a cagion di confini, e n’ebbero il vanto di superarli in valore (Strab. p. 273).
Nemico inaspettato fu Ercole. Se prestasi fede alle prische memorie, che fra molte invenzioni allegoriche sempre contengono una parte di vero. Ercole fu il più grande avventuriere dell’antichità. Per cercar nuove terre o predare con gloria, navigò dalla Grecia o dalla Fenicia sino all’ultimo confine del mar Mediterraneo, ivi posando quelle famose colonne, che un Genovese dovea poscia passare di tanto spazio. Corse indi le Spagne, varcò i Pirenei, guerreggiando e vincendo s’inoltrò nella Gallia meridionale. I Liguri transalpini nol portarono in pace. Si congiunsero loro i marittimi sotto due capitani Albion e Bergion, nomi allegorici alle naturali difese della Liguria. Giunto a una landa erma e sassosa, Ercole fu assalito all’improvvista, ferito gravemente, e i suoi compagni sgomentali e quasi dispersi. La storia ha taciuto qual arte o caso gli diede in fine vittoria; la mitologia ci narra prodigj; e dice che caduto a terra l’Eroe per la stanchezza e le ferite, si levò ginocchione, Giove pregando che in tanta necessità lo soccorresse; e Giove con gran pioggia di sassi il liberò. I creduli astronomi dell’antichità chiamarono una costellazione l’Ingeniculo, quasi ella rappresentasse Ercole in ginocchio, e dal canto loro i geografi notarono nella descrizion dell’Italia, aver egli piantato a’ confini di quella un castello sul mare col greco nome di Monaco per memoria o giattanza, che fu a vincer solo (Lycopl. 136; Hygin. lib. II; Bochart. lib. XLI; Alp e Berg significano montagne nelle lingue Celtico-Teutoniche. Monos in Greco val solo, Monaco solitario).
Ercole vittorioso percorse l’Italia. Andò quindi nell’Asia, ove dell’imperio troiano spogliò Laomedonte, e Priamo investì. Dopo la morte di lui Priamo venne in guerra co’ Greci, fu vinto e il suo regno distrutto. Enea principe della casa reale fuggì con ventidue navi in Italia; e giunto al lido latino, volle fermarvi sede. Unironsi a lui gli Aborigini, s’opposero i Rutuli, tutto il paese al destro lato dell’Appennino si divise in parti. Co’ Rotuli tennero i Sabini, i Volsci, i Campani; là dove i Liguri e gli Etruschi mandarono ajuti di mare e di terra agli Aborigini e ad Enea. La maggior parte de’ Liguri ausiliarj era guidata dal fortissimo Cinira; pochi ne avea Cupavone, benché discendente dal re Cigno anch’esso, ne portasse l’insegna. Rasente terra veniva il figliuolo di Cupavone sopra minaccevole e alto vascello, detto il Centauro probabilmente in memoria del prisco Mar. Tutto l’esercito navale il seguitava in più file, e conteneva tanti legni, quante il terrestre coorti. Questa naturale esposizione dilegua, se non erriamo, un’apparente oscurità nel decimo libro dell’Eneide (Virg. Eneid. lib. X) libro che serba le più splendide memorie dell’antica Italia sotto il velo d’una poesia immortale. Con tali ajuti Enea superò i suoi nemici, succedette a Latino ultimo re aborigene di cui era genero, e il regno trasmise a’ suoi discendenti, uno de’ quali fondò sulle sponde del Tevere Roma. L’anno della sua fondazione corrisponde agli anni 3231 del mondo, (seguitiamo nella Cronologia Dionysii Petavii Rationarium temp.ed. nov. Venet. 1783, T. II 156. E adoperiamo gli anni del mondo, perchè presentano al comun de’ lettori un’ idea più distinta, che quelli del periodo Giuliano ), e da quello comincia un età novella, meno caliginosa che la antecedente, ma non ben chiara ancora.

Ne’ suoi principi i Focesi, ricca colonia dei Greci sul lido Asiatico, dediti ugualmente a’ traffici come a ladronecci del mare, che in que’ tempi si recavano a gloria, vennero con molti legni in Sicilia e quindi in Corsica (A.M. 3250), dove prese a forza le migliori cave del sale che ricercavano sopra ogni cosa, come i moderni naviganti quelle dell’oro, lasciarono in mezzo agli stagni della parte orientale una colonia, detta con greca etimologia Aleria (Herodot. Lib. 1; Justin. lib XIII).  Poi lungo la maremma toscana fondarono un’altra colonia, negl’ itinerari romani chiamata Phocenses; (Ethici, Cosmogr.; Basil, p. 296), e forse ancora ripopolarono Pisa, che un qualche greco avventuriere più antico avea nominato Alfea. Da Pisa e Bocca d’Arno pervennero con nuove forze in foce di Magra, ove il mare impaluda e rende pur sale. Abitavano là intorno gli Apuani popolo arditissimo in terra, ma niente sollecito delle cose marittime, ond’ è verisimile, che l’armata focese con poca resistenza o nessuna entrasse nel vasto lor golfo. Il greco suo nome Selène (Strab. lib. V 213) fu da’ Latini cangiato in quello di Luni, ambedue convenienti all’arcata sua forma. Ma le sovrapposte castella di Lerice e Portovenere, derivate dal nome di Venere Ericina (Venere fa detta Ericina dal monte di Erice in Sicilia, ove i Greci le dedicarono un tempio famoso. Diodor. I. IV), rammentano anco al dì d’oggi un culto, che i Greci voluttuosi amavano di propagare, e greco nome ritengono, se non la Palmaria, isola posta all’ingresso del golfo, certo i due Tini, contigue isolette, osservabili solo per la piccolezza. Segesta e Sori a levante della Liguria, Polupece e Andora a ponente trassero origine anch’essi da quello stuol di Focea, o da qualche altro appresso; e il medesimo forse o un simile popolò al sinistro lato di Genova l’amenissimo poggio di Calignano. Certamente que’ luoghi han nomi, che (vedi Annotazione III) derivano dal greco.

Proseguirono lungamente i Focesi a frequentarli. E quasi due secoli appresso (A.M. 3428) una squadra loro diè fondo alle piaggie de’ Liguri transalpini, nel cui territorio ella sapeva per esploratori spediti molto tempo innanzi, che il fiume Rodano mette foce , e che intorno intorno si generano ricche saline. Quivi finì il suo corso. Allettati dall’ opportunità del sito e dall’incauta facilità de’ Salj Segobrigi, i capi della spedizione (Iustin. hist. 1. XLIII; Thucyd. IlI 13; Strab. lib. IV) s’introdussero in corte del re de’ Salj Nanno. In quel dì medesimo per avventura ei celebrava le nozze di una sua figliuola Gipti, destinandole a sposo, giusta la patria consuetudine, colui che avrebbe essa stessa additato nel solenne banchetto. Erano convitati i principali non solo della nazione, ma quelli de’popoli vicini; e l’ospitale signore invitò eziandio i Focesi. Già tutti presenti, entra la reale sposa. Dopo le prime vivande, il padre le accenna di porgere una tazza d’acqua a chi più le aggrada in marito; ed ella, tutti gli altri posposti, la porge a Proti, l’uno de’ capi Focesi; il quale di ospite fatto genero, riceve in dote la terra di Marsalia, cangiandone con greco vezzo il ligure nome in quello di Massalia, or nuovamente Marsilia. Le greche istituzioni la trasformarono in pochi giorni tanto, che potea dirsi una nuova città. I Liguri irritati di tal concessione, vogliono annullarla con l’armi in mano, ma disuniti, perchè Nanno teneva col genero, sono respinti. A Nanno poi essendo succeduto Comano, uno de’ Salj, per gran senno stimato in tutto il paese, va a trovarlo e gli dichiara come la greca colonia sarà la rovina de’ Liguri transalpini e la sua propria, se riparando l’errore del padre, ei non s’affretta a distruggerla. Per comprovare il consiglio, soggiunge alla maniera degli antichi savj l’apologo seguente. «Fu già una cagna pregna, la quale richiese per carità un pastore di un solo cantuccio, ove sgravarsi, il che ottenuto impetrò nuovamente di poter educare nel luogo medesimo i suoi cagnuolini: ma poi, come questi diventarono grandi e forti, sicura del domestico presidio, si arrogò da se stessa la proprietà del suo covo.» Non altrimenti i Marsigliesi, ora ospiti del nostro paese, ne diverranno un dì padroni. Persuaso Comano dalle parole del Savio, aspetta il tempo de’giuochi Floreali, che la nuova colonia avea preso a celebrare ogni anno, e mandati colà spettatori occultamente armati, con molti carri all’intorno colmi al di sopra di frasche, e dentro d’uomini e d’ arme, egli stesso si pone con gente spedita dietro a un promontorio a levante, presto a sbucarne quando sia tempo. Riusciva probabilmente il disegno, se una ligure donzella, più fedele all’amante che al suo re, non gli mandava questo breve avviso: Gran pericolo a tutti voi sovrasta; bada, marsigliese mio bello, a salvarti. Avvertiti dal valentuomo, i magistrati della colonia fan tosto legare i finti amatori de’ giuochi, e poscia sen vanno con tutto il popolo armato a sorprendere coloro da cui dovevano esser sorpresi; e nel sanguinoso assalto Comano perdè la vita. Così sì affrettano sovente i mali per troppa sollecitudine a prevenirli.
Circa il medesimo tempo un’altra usurpazione, ma più impetuosa ed estesa, sconvolse l’Italia Settentrionale. Perchè la bontà del terreno e la dolcezza de’ suoi vini trassero giù dall’ Alpi un torrente di Galli bellicosi, che dispersero i Liguri circompadani, fugarono gli Etruschi, e stettero per vendere all’asta pubblica Roma, se Manlio e Camillo con eroici fatti non la liberavano. I Barbari respinti si posero fra l’Alpi, l’Appennino, l’Adige e il Rubicone; e Galli cisalpini si nominarono. Per vendicare le proprie colonie, o perchè vicinanza genera odio, i Liguri di montagna pugnarono lungamente contro i Galli cisalpini, finché Roma maravigliosamente crescendo dopo il corso rischio, si fece una pace generale in Italia, e una lega segreta contro di lei.

Annotazione III
Moltissimi sono nel lido ligustico i nomi che attestano all’osservatore erudito la venuta di uno stuolo di gente d’origine greca, frappostasi, quando che sia, in mezzo de’ popoli più antichi della Liguria, e poscia confusa con loro. Imperciocché cominciando a levante, si trova Lerice che, tolto l’articolo, è nome di città e di monte, ove i Greci dedicarono un tempio famoso a Venere Ericina. Porto Venere, porto, promontorio e castello a rimpetto di Lerice, altro non è che traduzione latina di un vocabolo greco, com’è il golfo di Luni, secondo si ha da Strabone. Lasciando poi la Palmaria, che può tuttavia dedursi da … [in greco], palma di mano, a cui somiglia il suo perimetro, chiaro è che i due Tini, isolette da lato, vengon da … [in greco], piccoli. Segesta, ora Sestri, era pur greca città in Sicilia. Presso al borgo di Sori che ha forma di un avello, … (in greco), tirando su a’ monti boscosi, è un’ acqua purissima, che anco al presente si chiama Camascense dal greco, come a dire acqua per chi si stancò portando pesi.
Caignan, [Carignano] dicono oggi i Genovesi parchi di consonanti; ma nelle antiche scritture quell’estrema punta di Genova vien detta Calignano, ov’è notabilissimo il G frapposto, ch’ è proprio della greca pronunzia avanti la lettera N. E veramente quel luogo è bello ad abitare. Di sotto giace una valle, e sta di rimpetto un poggio folto di case, ove si dice di chi vi ha stanza, egli abita sopra la Coeulla. Quell’œu è dittongo genovese; e [in greco …] in greco significa valle.
Cosi Polupece viene da … [in greco …] molto, e … (in greco) scardassare; e in vero nelle soprastanti montagne, tra il capo di Noli e quel delle Meire di Garlenda e Zuccarello, del Teico e Triora, pascolarono sempre molti capi di bestiame carichi di buona lana che allora serviva probabilmente a giubboni liguri in Polupece, e oggi a’ lanifici in Ormea. Similmente Epanterj derivano da … (greco), sopra gioghi e sommità; (Bardetti T. II) e tuttavia si nomina Andora, e in genovese Andœura una punta e una borgata vicine al Capo delle Meire, e al torrente Meira, che i moderni vogliono l’antico Merula.

Guerre de’ Romani in Liguria.

Severità di costumi, scala di magistrati, milizia di cittadini avevano unite al popolo romano le vicine città, e apertagli la via all’imperio delle lontane. Da principio i suoi patrizj discutevano in senato le guerre e le paci, le sue tribù ne’ comizj le mettevano a’ voti, i suoi re le proponevano, e approvate le mandavano a esecuzione. Ma deposto Tarquinio il Superbo, si crearono in vece di un re due consoli annuali, e insigni trionfi nobilitarono la dignità consolare. L’Etruria, il Sannio, la Magna Grecia dopo crudelissime guerre, o portarono il giogo, o venerarono l’autorità dei Romani. Ma la repubblica di Cartagine, che dominava in Affrica, nella Spagna, e nell’ isole del Mediterraneo, vedendo di mal occhio in una di queste comparire le romane legioni, stimò poter atterrare quel sorgente imperio senza arrischiare il proprio; perchè lei separava dall’Italia un bel trattò di mare, sul quale essa avea di molte e poderose armate, mentre i Romani non ne avevano pur una. Poteva dunque assalire a sua posta, non essere mai assalita; e comunque fosse per riuscire il principio della contesa, credeva averne in pugno la fine, sgombrando la terra ferma, e infestando liberamente i mari d’Italia. Ma i Romani niente atterriti a questa difficoltà, presero senza tardanza la guerra de Cartaginesi, e avendo imparato a fabbricar buone navi e a governarle bene, si segnalarono per grandissime azioni in terra e in mare. Non è da tacersi il magnanimo fatto di Atilio Regolo. Venuto costui in potere de’ Cartaginesi dopo insigni vittorie contro di loro, ne fu rimandato a Roma per chiedere il cambio de’ prigionieri di guerra, sotto giuramento, che non ottenendolo, si restituirebbe egli stesso in prigione. Giunto al cospetto del Romano Senato, espose ciò che i nemici proponevano, ma lo dissuase, mostrandone le ree conseguenze. Poscia le lagrime della famiglia e l’autorità del senato non valsero tanto, ch’ ei non tornasse al suo carcere, pronto a soffrire, come in fatti soffri, atrocissimi supplizj. Crescendo dunque i Romani d’animo e di forze così nell’avversa come nella prospera fortuna, costrinsero finalmente i nemici, dopo ventiquattr’anni di guerra, a una pace ignominiosa.

Tal era la navigazione de’ Liguri a que’ tempi da farsi conoscere a un imperio marittimo, come Cartagine, non tale da ingelosirlo. I loro piccoli legni frequentavano pacificamente le sue coste; i loro porti offrivano a’ suoi numerosi navilj da carico e da guerra comodità di permute, ricovero e aguati. Contratta perciò amicizia, non furono pochi coloro che s’arrolarono nella guerra anzidetta contro i Romani; e i Liguri orientali aggravarono ancora l’offesa, avventandosi sopra l’Etruria per le cagioni che abbondano fra vicini. Due anni dopo la pace co’ Cartaginesi il consolo Sempronio Gracco entrò a mano armata in Liguria, e fu questo il principio della guerra più lunga che prendessero mai i Romani.

A Gracco di cui nient’altro si sa, succedette Cornelio Lentulo che il primo trionfò de’ Liguri; (Eutrop. Rom. hist. Breviar. lib. III) a Lentulo Licinio Varo, indi Manlio Torquato e Lucio Postumo Albino, che fu tre volte consolo. Quinto Fabio Massimo, uno de’ sommi uomini di Roma, riportò il secondo trionfo, per aver ricuperato, come il suo biografo accenna, tutto il paese occupato da’ Liguri fra l’Arno e la Magra. Marco Lepido, Giunio Pera e Furio Filo continuarono in diversi tempi la guerra. Furio ebbe il trionfo; nè si può dire di più, perchè il libro, ove il più facondo de’ latini storici raccontava que’ primi fatti d’arme, andò smarrito.

Fin qui i Liguri combattevano separati secondo che l’un popolo o l’altro era molestato, credendo i Romani solamente intesi a particolari vendette; ma l’esempio de’ vicini aperse loro gli occhi. Avevano i Galli cisalpini fatto guerra a’ Romani per dolore di alcune terre lor tolte; di poi rotti e quasi disfatti si erano invano rivolti a chieder pace. Veggendo adunque i Liguri, che Roma batteva continuamente i Galli sebbene umiliati, conobbero la necessità dell’unione; e come fa il prode quando scorge il pericolo, tutti s’armarono. Giurata quindi una lega, si unirono agl’Insubri, i quali, domi gli altri Galli, resistevano ancora. Con questi mezzi durò tre anni la guerra; (Polyb. lib. II), ma perdute altrettante battaglie, e ridotto per forza Milano, i capitani degl’Insubri, vedendo non v’essere più speranza di salute, si diedero insieme con tutte le cose loro in poter de’ Romani.

Restavano que’ Liguri esposti alla vendetta dei vincitori; se non che venne a destarsi in buon punto il tumulto d’Illiria, al quale per la novità del paese, e l’importanza della situazione che dava adito in Grecia, i Romani si volsero interamente; e cominciò poco appresso la seconda guerra Punica (A.M. 3767), in cui l’una parte deponendo i primi odj, e l’altra rammentando la prima amicizia, ricercarono a gara i soccorsi della Liguria. Ma Roma avea poco innanzi fondato in sulle opposte rive del Po due forti colonie Piacenza e Cremona, secondo un antico suo costume di por freno a’ popoli vinti, ed insieme allogare le famiglie povere della repubblica. Esacerbati da quell’odiosissima impresa, i Galli cisalpini corsero nuovamente all’armi, e il territorio delle colonie guastarono. Per la stessa cagione la maggior parte de’ Liguri, vilipese le contrarie lusinghe, aderì ad Annibaie capitano de’ Cartaginesi, il quale preceduto da grandissima fama, moveva di Spagna ad assalire l’Italia. Ma Genova fu capo della parte non ostile a’ Romani, come quella che più ricca di traffico, aveva più bisogno di pace. Amichevolmente entrò nel suo porto con sessanta navi da guerra il consolo Publio Scipione (Tit. Liv. Rom. hist 1. XXI), il quale ingannato da una voce comune, che Annibaie fosse appena disceso da’ Pirenei, s’incamminò alla Gallia meridionale. Dove sentendosi dall’attivissimo Cartaginese prevenuto di tanto che già valicava l’Alpi, Cornelio tornò a Genova, lasciò l’armata marittima, e avviossi con piccola mano d’armati all’esercito di terra, che due pretori avevano guidato al Po.

E questa la prima notizia di Genova nell’antichità. Nondimeno undici secoli appresso una volgare opinione si sparse, che il fondatore di lei fosse Giano, re degli Aborigini, e nume bifronte al dir de’ poeti; sicché non perdeva mai d’ occhio il passato e antivedeva il futuro, tanto era esperto e perspicace (secondo il sig. Niebuhr la statua di Giano fu fatta bifronte, perché collocata sul monte Palatino, guardava Roma dall’una parte, e Quiri dall’altra. Questa recente opinione non distrugge l’antica). Ma ritorniamo alla storia: il consolo romano spinse l’esercito dal Po’al Tesino, ove rimase sconfitto, ferito, e della vita campata danno alcuni cagione all’amore del figlio quasi fanciullo, il quale fe’ prodigj; altri alla fede e al coraggio di un servo Ligure (Polyb. III).

Annibale ruppe un’altra volta i nemici allaTrebia, indi si ridusse in Liguria per ivi svernare, avvalorar la sua parte e abbattere interamente la contraria. I socj gli dettero nelle mani due questori romani, due tribuni de’ soldati e cinque figliuoli di senatori colti in un’imboscata. Ebbe inoltre vettovaglie, danaro, soldati; con che rinfrescato l’esercito, passò i monti Apuani, s’inoltrò nell’Etruria, e vinse la battaglia del Trasimene. Onde i Romani pigliarono l’estremo partito di eleggere per capo supremo o dittatore quel Fabio stesso, che aveva già sconfitto i Liguri. Fabio rintuzzò l’impeto de’ vincitori, temporeggiando senz’ avvilirsi; e salvata in quel modo la patria, ne dipose il comando. Parve allora al senato, che un’autorevole ambasceria riconforterebbe i suoi amici in Liguria, scemerebbe il numero de’ suoi nimici. Gli ambasciadori mostrarono non convenire agl’Italiani la compagnia de’Barbari; essere instabile la costoro fortuna, sicura sol la perfidia; e dileguarsi gli alteri lor vanti, come la guerra passata certificava, in un profondo sfinimento di forze. Roma all’opposto stimare più de’ comodi proprj i patti giurati, non dimenticare i benefizj giammai, nè perdersi d’animo per qualunqae sventura ; tal che ultimava tutte le guerre con esaltar se e i compagni, vinti e depressi gloriosamente i nemici. Parlavano i legati con grand’efficacia, aggiungendo a chi doni, a chi larghe promesse; ma la quarta vittoria d’Annibaie a Canne (A.M. 3769) spuntò la loro eloquenza.

Un consolo fuggito, un altro morto e quaranta mila cittadini perduti in battaglia, non piegarono i Romani a redimere almen quella volta i lor prigionieri; ma invece di logorare il danaro in taglie di guerra, lo impiegarono a nuove leve e difese. Sopraffatto il vincitore stesso da tanta magnanimità, volle tentare se il numero de’ nimici sottometterebbe coloro che il numero delle vittorie non abbatteva. Onde trasse dalla parte sua Filippo quarto di nome re de’ Macedoni, e chiamò dalle Spagne con forte esercito il fratello Asdrubale. Spiccò in questi due consigli il conto, in ch’ egli teneva la Liguria (Polyb. III); perchè nell’accordo con Filippo comprese que’ Liguri, i quali gli erano amici, e coloro altresì che per l’avvenire diverrebbono tali. Dall’altra parte mandò dicendo in Liguria, come il fratello suo prediletto stava per giugnere; s’ accostassero a lui quanti potevano, e provvedessero d’ogni sorta ajuti; pensassero dipenderne principalmente la facile unione di due eserciti cartaginesi, dalla quale dipendeva l’eccidio di Roma; e volessero con un solo sforzo compiere l’opera sì felicemente incominciata, di liberar se, l’Italia, il mondo tutto dall’imminente tirannia dei Romani.

Molte migliaja di Liguri s’armarono, impazienti dell’arrivo di Asdrubale. Quanto sì fatte notizie agitassero l’animo de’ Romani, ne fa ben fede lo Storico latino. Furono lette in pien senato le lettere, che a tale proposito scrisse L. Porzio pretore, ove consigliava provvedimenti gagliardi, poco esso potendo con poca gente. E fecesi una leva straordinaria di cittadini, e prima del tempo prescritto i consoli si partirono dalla città, rimasta per l’impensata diligenza di Asdrubale in grande ansietà e sospetto. La temuta battaglia (A.M. 3778) seguì alle sponde del Metauro nel cuor dell’Italia. Asdrubale collocò gli elefanti in fronte dell’esercito, com’ era il costume; su l’ala destra i Liguri co’ veterani Spagnuoli, sulla sinistra i Galli, gli Af- fricani nel centro. I Liguri combatterono in guisa che meritarono dagli stessi nemici l’elogio di essere gente incallita nell’armi. Già la fortuna pareva contraria a’ Romani. Ma Claudio Nerone uno de’ consoli, veggendo che i Galli cui egli era opposto, non si potevano rompere per lo vantaggio del sito, e non avrebbero essi rotto i suoi per la freddezza del loro combattere, spiccossi da quelli con alcune coorti; poi fatto velocemente un lungo circuito, prese alle spalle l’ala destra, disfecela, e vinse così la giornata. Il valoroso Asdrubale morì col fiore delle sue genti.

Annibaie, perduta a quest’avviso ogni speranza, non però volle mancare del debito suo alla patria, e difendendosi e minacciando ancora in un canto della Puglia, chiamò in Italia il terzo fratello Magone. Costui con trenta navi belliche, molte altre da carico, dodicimila fanti, e quasi duemila cavalli, consumò inutilmente tutto l’inverno nella minore delle isole Baleari. Alla primavera (A.M. 3781) uscì fuora, costeggiò la Liguria occidentale, si fermò sopra Genova, e schernendo da barbaro la sua indifesa neutralità, la prese a forza, saccheggiolla e distrusse. Protetti i suoi cittadini dall’armi romane all’aprirsi la guerra, dopo la battaglia della Trebia erano stati abbandonati a se stessi. Grandissime spoglie ne trasse il vincitore, Genova essendo un emporio comune, dove Italiani e Galli concorrevano a vendere e comperare.

La quantità delle prede è spesso un inciampo. Quindi avvenne che Magone premuroso di porle in sicuro, non varcò l’Appennino sopra Genova, non s’affrettò a soccorrere il fratello; ma ritornando trentadue miglia indietro, diè fondo nel golfo de’ Sabazj con intenzione di allogare la preda nel soprastante castello di Savo. Avevano i Romani smantellato quel forte, (Liv. XXVIII; Strab. IV. 302; Musant. Tab. chronol.) in pena dell’essersi i Sabazj accostati alla parte cartaginese, provando così due popolazioni congiunte per opposte cagioni simili sciagure. Avrebbe ciò rotto i disegni del capitano cartaginese; ma l’esortazioni di lui e l’opera de’ suoi soldati incoraggiarono i terrazzani a riedificare prontamente il castello, scostandolo alquanto da certi stagni malsani che ancora vi sono; il quale trasponimento diè forse origine alla nobile città di Savona. Assicurato in tal guisa il bottino, Magone lasciò dieci navi alla guardia del golfo, rimandando l’altre in Affrica co’ prigionieri. Gli Ingauni in quel tempo erano in guerra con gli Epanterj; tanto gli uni che gli altri lo richiesero d’ajuto, ma esso antipose l’amistà di un popolo marittimo come gl’Ingauni, a quella de’ montanari, per brama di occupare i lor gioghi ov’ è buon pascolo ed uno di que’ passi angusti, detto oggi il ponte di Nava, onde si scende nell’Insubria. E ciò che voleva ottenne.

Seguì in quel mentre non lungi dalle rovine di Genova, tanto sono la situazione e l’abitudine potenti, una grande adunanza di Liguri e Galli cisalpini per deliberare sulle cose comuni. Avvedutezza e costanza richiedevano i tempi. Perchè, mancate le forze e la fortuna di Annibale, riuscivano la possanza di Roma tanto sospetta, quanto la lega con Cartagine pericolosa. I più animosi sconsigliavano l’amistà della prima, per non buttarsi, piedi e mani legate, in servitù; gli altri non volevano unione con la seconda per non dividere i guai di un imperio cadente; tutti esageravano le proprie forze. Avvisato Magone di tali consulte, corse a tutta briglia al luogo ov’elle si agitavano; e approdaronvi per avventura a un medesimo tempo venticinque navi da guerra con semila pedoni, sette elefanti, ottocento cavalli e molto danaro. Le istruzioni che il ragguagliavano di questi soccorsi, erano imperiose; riprovveduto in tal guisa raggiugnesse senza più il fratello; e portassero insieme alle mura di Roma il terrore, che il giovine Scipione figliuolo di Publio aveva già sparso nell’Affrica.

Gli ordini dati da lontano errano quasi sempre nel fatto. Indi è che il governo cartaginese stimava agevole e piana l’ingiunta unione, quando trovandosi un romano pretore nella Gallia cisalpina e un proconsole nell’Etruria, l’uno e l’altro con valido esercito, era impossibile causar la battaglia con tutti e due, uniti o separati. E come vincerla, avendo soldati arrivati di fresco, poco avvezzi al combattere? Ci volevano forze maggiori. Dunque al primo giorno Magone chiama a sè i principali de’ Liguri e de’ Cisalpini colà ragunati; e pomposamente descrive gli aiuti testé inviati dalla sua patria con isprovvedere sè medesima, manifesti argomenti della sua magnanimità. Quanto diverso fosse stato il procedere de’ nemici, troppo più che non bisognava, il dimostravano Sagunto indifeso, e quegli avanzi di Genova tradita e abbandonata. Perchè dunque popoli di tanto valore perdevano un tempo prezioso in vane contestazioni? Spronavali l’interesse e l’onore a vendicare le ingiurie comuni. Quegli che s’offeriva a guidarli, non era un guerriere inesperto, nè sventurato; avea combattuto alla Trebia, al Trasimene, a Canne, e frescamente in Ispagna. Coloro che l’accompagnavano, erano fiore di gioventù. Contro un esercito cartaginese aiutato da due bellicose nazioni mal si opporrebbe un pretore, un proconsole romano. Il vincitore di tante battaglie verrebbe poi loro incontro co’suoi veterani. Roma sarebbe la meta del loro cammino, il frutto di loro vittorie, Roma ripiena d’infinite ricchezze iniquamente acquistate, Roma che volendo esser libera, voleva tutti gli altri far servi.

I Cisalpini protestarono grandissima affezione; se non che avendo nel paese un nimico, e ai confini un altro, non potevano mostrarla palesemente senza certa rovina; nondimeno tutto ciò che da loro potea desiderare occultamente, domandasse pure, e l’avrebbe: farebbono il restante i loro vicini, a’ quali erano comuni le cagioni dell’aderire, non quelle dell’occultarsi. I Liguri risposero, essere disposti al cimento; desse loro tempo due mesi per le leve, e toccherebbe con mano gli effetti.

I messi de’ popoli etruschi, poco innanzi arrivati, gli fecero somiglianti promesse, ond’ egli si levò finalmente dalla Liguria marittima, dolce soggiorno ove avea consumati quasi tre anni, mal imitando l’ammirabile celerità de’ fratelli. Nel montuoso distretto degli Epanterj egli raccolse quanti uomini e giumenti potè; e scese quindi nell’Insubria. Con che fatica menasse i suoi elefanti su e giù per quelle balze scoscese, chi le passò in sua vita una volta, il sa. Quintilio Varo pretore, e Marco Cornelio proconsole congiuntisi insieme aspettavano Magone al Tanaro (A.M. 3781); esso non ricusò la battaglia, nè potea ricusarla. La fortuna da principio l’aiutò. Un tribuno militare che direbbesi oggi un generale, ventidue cavalieri romani e molte file di fanti furono abbattuti e calpestati dalle belve affricane. Cedevano le intere coorti il terreno, quando Quintilio e Cornelio collocarono gli armati alla leggera sopra due poggi con ordine di scaricare acutissimi dardi contro la proboscide e gli occhi delle fiere. Flagellate esse in tal guisa, da prima ristettero, poscia rivolgendosi indietro rabbiose fecero più danno a’ lor conduttori, che fatto non avevano agli avversarj; da ultimo stramazzarono al suolo senza vita. In questa confusione i Romani presero animo, e incalzati vivamente i nemici, cinquemila ne uccisero, e acquistarono ventidue bandiere. Nelle cose avverse Magone cresceva in ardire; e però ricondusse alla battaglia i fuggitivi, esponendosi da prode soldato. I corpi degli elefanti facevano una specie di argine fra le due schiere. Esso fu il primo a superarlo, ma in quel punto medesimo ricevè una grave ferita che lo costrinse a ritirarsi di nuovo; e la notte seguente riprese il cammino dell’Alpi liguri trasportato sopra una lettiga. Non l’inseguirono i Romani, perchè l’esercito del pretore aveva perduti 2300 uomini, e quello del proconsolo molto più. Giunto Magone al lido del mare fra Savona e Albenga trovò un decreto del suo senato che richiamavalo alla difesa dell’Affrica, diede tosto alla vela, ma nel procelloso viaggio morì miseramente della sua ferita.

Liberati i Romani da questo pensiere non vollero che Genova avesse più a dolersi della loro amicizia. Era la dignità del pretore la prima dopo quella de’ consoli. Confermarono in essa pertanto un senatore diligentissimo Spurio Lucrezio, discendente da quella casa illustre ond’ era nata la pudica Lucrezia, e poste sotto’l governo di lui due legioni, lo inviarono a Genova (Liv. XXX) per attendere al rifacimento delle mura abbattute e all’ornamento del luogo; imperciocché i soldati d’allora sapevano egualmente combattere e murare. Pensate che lavoro fu quello! (A.M. 3781) degnissimo al certo di ottomila Romani pratici, robusti, usati alla fatica, e militarmente uniti sotto un sol capo. Genova dunque risorse più bella due anni dopo la sua rovina; e ottenne o più veramente ricuperò le prerogative delle principali città confederate. Dal canto suo ella si mantenne sempre fedele nell’amistà del popolo romano.

La riedificazione di Genova precedette di poco la maggior vittoria di Roma. Occupate dal giovine Scipione le maremme affricane, vinto in battaglia Siface re de’ Numidi, i Cartaginesi facili ugualmente a disperare come a presumere, richiamarono Annibale dall’ Italia. La campagna di Zama, città cinque miglia distante da Cartagine, fu il luogo dove i due capitani più famosi, gli eserciti più agguerriti dell’antichità combatterono dell’imperio del mondo. Scipione niente innovò dell’antica ordinanza romana. Annibale pose gli elefanti dinanzi alla fronte dell’esercito, in prima linea gli aiuti Liguri e Galli, quindi le nuove leve Cartaginesi, in ultimo le sue bande veterane, e la cavalleria sulle due ale. Egli sperava che l’impeto della prima schiera nimica sarebbe smorzato dalle fiere, o sostenuto appresso da’ Liguri e da’ Galli, i quali gradatamente cedendo al raddoppiarsi delle file nimiche, dovevano dar luogo all’assalto della vecchia ordinanza contro le affaticale legioni, mentre i medesimi riordinandosi a’ fianchi, compierebbono l’incominciata vittoria. Ordine degno di quel gran capitano ! ma l’aste romane il recarono a nulla.

Cartagine vinta implorò la pace. Fra le condizioni a lei imposte una fu di bandire per sempre Annibaie, un’altra di non far leve in Liguria (Polyb. XV). Credevasi universalmente che i confederati Liguri si piegherebbono a chieder pace ancor essi; pur dubitando di non l’ottenere onorevole da nimici trionfanti, stettero duri a non domandarla. Senza che irritava quegli animi feroci il disegno già palesato dal vincitore, di aprire ne’ loro dirupi una strada di congiunzione fra l’Italia e le Gallie. Or se cotale pensiero si traeva ad effetto, giudicavano di perdere il miglior dono che la natura avesse lor fatto, l’asprezza del paese, in danno presto o tardi inevitabile della libertà. Ma che gioveranno le vie scoscese e i passi difficili, se non si bada a difenderli? I Romani ci han tolto i nostri stipendi, i nostri confederati, e vorrebbonci ora spianare le abitazioni. Noi soffriremo giammai! Sono le cose de’ Liguri in questo stato, che alla difesa è lor necessaria l’angustia de’ luoghi, e all’angustia lor la difesa.

Così andavano esagerando i principali della nazione. Da queste voci agitati i Liguri orientali fan lega co’ Galli cisalpini, fra i quali era rimaso un cartaginese per nome Amilcare con l’avanzo dell’esercito di Asdrubale. Eleggono costui per capitano, vanno in numero di quarantamila a Piacenza, una delle colonie fondate, come si disse di sopra, per tenerli a freno, la prendono, la mettono a sacco e fuoco. Non più di duemila coloni si salvano tra il ferro e le fiamme. I vincitori si volgono a Cremona. Lucio Furio, pretore nella Gallia Cisalpina, annunzia al senato, tutta la provincia essere a ripentaglio, di due colonie conservate nella guerra antecedente, l’una distrutta, l’altra in sommo pericolo: uscire in campagna con le deboli forze che aveva in governo, sarebbe partito non sol temerario, ma disperato. Non dispiacque la prudenza di Furio al senato, anzi stimò opportuno che il consolo Aurelio da cirimonie religiose occupato cedesse il comando dell’ esercito consolare al pretore. (A.M. 3785) Il quale dopo un tanto rinforzo si spinse innanzi, e sugli occhi de’ Cremonesi assediati presentò la battaglia agli assediatori. Nè questi la ricusarono; investirono da prima il destro fianco, e non valendo a romperlo, rinnovarono a destra e a sinistra l’assalto. Ciò disgiunse e diradò le file; onde il pretore, ove scorse maggior debolezza urlò co’ cavalli, e penetrato addentro, sbaragliò ogni cosa. Fecero intanto i Cremonesi una gagliarda sortita. L’assedio sciolto, il campo preso, tutte le spoglie de’ Piacentini ricuperate, tali furono i frutti della vittoria. Grandi allegrezze in Roma; Lucio Furio ottenne il trionfo, cosa inaudita per un pretore; e si dedicarono tre giorni di ringraziamento agli Dei.

(A.M. 3786) In questo mezzo i collegati rifanno l’esercito. Rimpiattati aspettano il tempo, che Bebio Tanfilo, successore di Furio nella pretura> s’inoltri nell’Insubria. Vedutolo appena nel luogo disegnato, (Liv. lib. XXXII-XXXVIII) sbucano dalle vicine montagne, lo stringono da ogni parte, e senza dargli tempo di riaversi della sorpresa, gli uccidono semila secento persone. All’udir questa nuova, i Romani mandarono nell’Insubria il consolo Sesto Elio Peto (A.M. 3787) con quattro legioni, il quale però non fè cosa di momento. I consoli dell’anno appresso furono Cajo Cornelio Cetego, e Quinto Minuzio Rufo. Decretò il Senato, che guerreggiassero l’uno e l’altro in Italia, il primo contro i Galli Cenomani, di cui Brescia era capo; il secondo contro i Liguri Cerdiciati, di cui era Casteggio. Cornelio passò il Po vicino a Cremona; Minuzio costeggiò la Liguria orientale (A.M. 3788), entrò in Genova città confederata, e presso al suo territorio varcò l’Appennino. L’uno vinse oltre a’ Cenomani, gl’Insubri e i Boj, che erano nuovamente insorti; l’altro i Cerdiciati, i Celelati, gl’Iluati; ambedue trionfarono, in Campidoglio Cornelio, e in Monte Albano Minuzio.

Ne’ tre anni seguenti la Liguria parve posare, quantunque la Cisalpina e l’Insubria fosser sossopra. Ma non passò il quart’anno così quietamente. Perchè incitati da’ loro vicini o da cagioni che lo storico latino tace, ventimila confederati assalirono l’Etruria. Il romano prefetto non bastò a difendere il distretto di Pisa; tutto il paese fu devastato. A Roma, udito ciò, si levarono due legioni urbane, le quali aggiunte alle due prime ch’erano già arrolate, sommavano sedicimila ottocento pedoni e mille dugento cavalli. A’ popoli del nome latino s’imposero nella proporzione consueta fanti 15000 e cavalieri 500. Mentre insorgono alcune difficoltà per le leve, ecco lettere di Tito Sempronio stato consolo, che annunziavano quindicimila Liguri entrati nel Piacentino; alle rive del Po, sotto le mura di Piacenza essere già pervenuti: i Boj rinfocolarsi all’esempio de’compagni. L’ autorità di tant’uomo bastò appena a persuadere i Romani, che i Liguri osassero da due bande opposte a un medesimo tempo sfidarli. Fu però decretato, non si attendessero le consuete eccezioni di età o di lunghi servigj; contro i renitenti forza si usasse; si partissero i consoli senza indugio da Roma, Q. Minuzio Termo per l’Etruria, Cornelio Menda per la Gallia cisalpina. Quivi sebbene i Boj si erano già aggiunti co’ Liguri, Cornelio trovò le cose della guerra in una disposizione insperata, perchè i nemici scansavano con ogni studio la zuffa; nè il veder guasti i lor campi, arse le ville, punto gli stimolava. Il consolo adunque passò a Modena, e quivi come in paese amico ristette. Ma quando i collegati lo seppero uscito de’ lor confini, il seguitarono in gran silenzio, e avanzatolo di cammino si posero all’ entrata di un bosco, ov’ ei dovea passare. O fosse la gioja del buon disegno, o altro, non istettero cheti; onde Cornelio fermato l’esercito pria d’innoltrarsi, mandò nella fitta notte esploratori che gli scoprirono. Eglino invece di muoversi tosto col favor delle tenebre, aspettarono il giorno chiaro; tanto che assaliti nel proprio agguato, dopo ostinata battaglia perdettero sedicimila persone, i vincitori semila; perdite tali che le crediamo esagerate.

La guerra in Etruria si travagliava con diversa fortuna. Cresciuti i Liguri in numero e ardire avevano posto assedio a Pisa. Ciò fece che il consolo Minuzio si parti ratto di Arezzo in ordine di battaglia quadrata, e dissipate le forze che aliavangli intorno, liberò gli assediati; ma non potè andar oltre, a cagione de’ soldati novizj e inesperti che il lungo cammino aveva spossali. Laddove i Liguri dietro al Sarchio ritrattisi, scorrevano e predavano liberamente. Quando tutto fu a ruba, di repente si dileguarono. Corse voce che sbrancati si fossero e sparsi nelle proprie castella. Allora Minuzio passò il fiume, il sabbion maremmano che vien dopo; e con poca prudenza in una valle angusta si riposò. Ma quando stava per uscirne, s’accorse i nemici averne occupata la gola; volle tornare indietro, e ritrovolli similmente all’entrata. Le vittorie riportate in Ispagna gli venivano in mente e raddoppiavano la sua confusione; i soldati cominciavano a susurrare. In così fatte angustie il capo di uno squadrone ausiliario di Numidi propone uno scaltro concetto; applaudito da tutti, autorizzato dal consolo, così l’eseguisce. Prende i suoi ottocento cavalli, e quelli fa correre di su e di giù a vista de’ Liguri, con ordine di non offendere alcuno. Niente pare più dispregevole; cavalli, cavalieri piccoli e macilenti; quelli senza sella nè morso, coi colli tesi e le teste al vento; questi senz’altre arme che un dardo, spesso per terra o pendoloni come per giuoco. Così i Liguri, ch’erano accorsi a rispingerli, fuor d’ogni sospetto stavano spensierati a veder questa giostra. Ma i Numidi miravano all’uscita, come per appressarsi agli saettatori, o in atto di non saper reggere i cavalli; e quando veggono sè più vicini, è quelli più trascurati, eccoli come fulmini voltolarsi per mezzo loro, fuori saltar dello stretto, correre nelle campagne. Cominciava là presso il territorio de’ Liguri apuani. Abbruciano le biade, guastano le ville, predano, uccidono. L’esercito ligure vede il fumo e la fiamma levarsi da’ suoi colti; ode le grida delle donne e de’ fanciulli, chi può raffrenarlo? Sbandasi, sgombra lo stretto e libera i Romani dall’ imminente rovina. Comunque si giudichi dello stratagemma, certamente Minuzio campò dal pericolo (A.M. 3793), e finito il suo consolato, non solamente gli rimase il comando, ma vennergli nuove forze da Roma. Passò il fiume Frigido, s’affrontò cogli Apuani alla Magra, fé’ molta preda e di molta ricuperò.

Or mentre crede sé in sicuro, e i Liguri in fuga, ode una notte levarsi da tutto il campo un grido subitano: all’arme all’arme; ogni centurione, ogni soldato corre al suo posto per l’eccellenza della disciplina; non disordine, non timore. Il proconsolo sostiene tutta notte l’assalto; all’alba fa due sortite da due porte diverse, e combattuto più ore, respinge da ultimo gli assalitori, che si disperdono e appiattansi nelle montagne; il paese non fa resistenza. Per la qual cosa Minuzio vantavasi di ricevere in Roma l’onor del trionfo sopra i Liguri, come dianzi ottenuto l’aveva sugli Spagnuoli; ma nol consentì il senato allegando l’aspetto ancor vacillante e pericoloso della provincia. Era stato in quel mentre promosso al governo dell’armi in Ispagna il pretor Lucio Bebio. Or questi dando più fede alle millanterie di Minuzio che alla giusta diffidenza del senato, s’arrischiò a trascorrere la riviera ligustica col numeroso suo seguito e i suoi littori così franco e borioso, come fra popoli domi e sbigottiti. Se non che invece del preteso terrore vi trovò odio implacabile, e in cambio di omaggi insulti; talché messa in fuga la sua comitiva e ferito esso stesso, a mala pena arrivò a Marsilia. Implicati i Romani nelle guerre dell’Asia dissimularono; ma quelle vinte in men di tre anni, mandarono le principali lor forze sotto ambedue i lor consoli inTLiguria, cosa non meno spiacevole a’ capi che agli infimi legionari. Negavasi a quelli da qualche tempo il trionfo per la piccolezza de’ vantaggi e la continuazione delle ostilità. Doleva a tutti, già presi dalle morbidezze dell’Asia, il vivere non che il guerreggiare in paese disagiato, angusto, di ogni cosà sfornito; fuorché di pericoli e di fatiche. Dovevano prima scacciarne i possessori, che innoltrarsi. Trovavano ad ogni passo castelli forti, ben difesi, ch’era necessario assediare; da per tutto aguati, assalti improvvisi: non carri, non giumenti, appena vi si reggevano i cavalli; niuna speranza nella guerra; nessun utile nella vittoria. A seduzioni come altrove, a minacce era vano appigliarsi; tutto parea dipendere dall’arme, e queste mille volte felici, non bastavano. Oltre all’asprezza de’ luoghi, lo stesso nimico era instancabile, veloce, intrepido, non dando mai sicurezza, mai posa; quando, si credeva più oppresso, risorgeva più avido di combattere; e se talvolta parea spento, era per rinascere più numeroso: nimico nato veramente, come dice lo Storico latino, a confermare gli animi romani in virtù, e a mantenere i buoni ordini della loro milizia.

Volle perciò il senato che lasciato l’Asia a’ pretori, non un consolo solo, ma tutti e due andassero in Liguria; e opponendosi questi, fece un secondo decreto per obbligarveli. Giunti a’ confini, Cajo Flaminio Nepote combattè i Friniati verso il Modonese, e Marco Emilio Lepido i Briniati verso il Parmigiano; quindi dalle due bande opposte corsero sopra gli Apuani. Sospinti que’ Liguri dall’uno all’altro monte, si raccozzarono sulle vette dell’Augino che dicesi oggi il monte di Centocroci; ma più che la fortezza del luogo potendo la disciplina militare, parte al lido del mare e parte si tramutarono alla destra riva del Po; l’arme tolte a tutti, e proibito di mai più portarne senz’espressa licenza. La storia romana tace qual resistenza opponessero in quelle balze; ma degna del ligure nome fu certamente, atteso i voti solenni che i consoli fecero alle Dee Giunone e Diana in due diversi combattimenti; non era costume di farne, fuorché ne’ pericoli estremi.

Con tutti i vantaggi conseguiti in Liguria non parve a’ consoli tempo di aprirvi strade; ma riserbandole a miglior congiuntura, dettero opera a quelle della Gallia cisalpina e dell’Etruria, acciò se non altro lo spazio interposto fra i romani confini e i monti della Liguria, fosse un cammino agevole e fermo per le legioni. Emilio dunque cominciò una gran via fra Piacenza e Rimini, combaciandola all’antica Flaminia fra Rimini e Roma, mentre Cajo Flaminio un’altra ne aprì fra Bologna ed Arezzo, cui succedeva fra Arezzo e Roma la Cassia. Ambedue presero il nome de’ loro autori, ambe si terminarono con incredibile celerilà. Fremettero a tal vista i Liguri, i Cisalpini, forse pure gli Etruschi.

(A.M. 3799) I primi, non finito ancora l’inverno, si procacciano armi e ritornano alle natie montagne. A Roma nuovi consoli sono Spurio Postumio Albino e Quinto Marcio Filippo. Deputato Postumio ad estirpare l’oscena superstizione de’ Baccanali, occultamente sparsa per tutta quanta l’Italia, non può attendere ad altro. Marcio si parte alla volta della Liguria; gli Apuani s’imboscano nella selva Feronia tra il Frigido e la Magra. Cosa mirabile, ma brevemente, senz’ altre circostanze riferita dallo Storico latino! Al primo assalimento degli imboscati quattromila Romani cadono morti, gli altri si danno alla fuga gittando via l’armi; nè prima di fuggir si ritengono che i Laguri d’inseguirli. Postosi in salvo il consolo, fa quanto puote per nascondere la sua sconfitta, mentre gli Apuani tornati al luogo della loro vittoria, tatto adoperano per celebrarla. Abbruciano sopra una gran pira i cadaveri; di tre bandiere romane, d’undici latine, d’aste, di spade, di scudi tolti a migliaja innalzano un trofeo, e dal nome del capitano vinto appellano il luogo non più Feronia, ma selva Marcia.

L’anno seguente tutto lo sforzo della romana repubblica venne loro addotsso. Il consolo Sempronio li vinse, incendiò le capanne loro sul monte, i casolari nel piano, e diboscò la strada fino al fiume Magra e, al porto di Luni. L’altro consolo Claudio diè mano al collega, e non contento di offendere la riviera orientale, passò in quella di ponente. I Genovesi, i Sabazj lo placaron con doni o pronto ubbidire; gl’ingauni virilmente s’opposero, ma perderono sei castella, e a quarantatre lor cittadini presi in battaglia fu barbaramente mozzato il capo.

Dopo Marco Sempronio e il fiero Appio Claudio vennero altri consoli. Lucio Porzio Licinio si trovò a mal partito ne’ gioghi soprastanti al golfo di Luni, onde votò un tèmpio a Venere Ericina se ne campava; e la Dea del loco, giusta l’erronea opinion de’Gentili, il preservò. Finalmente dopo due ripulse pervenne al consolato quell’ornamento della gente Emilia, Lucio Emilio Paulo che atterrò poscia il regno di Macedonia. Secondo un recente senatusconsulto ciascuna delle sue legioni aveva cinquemila dugento fanti e trecento cavalli con fanti quindicimila e cavalli ottocento, tratti dalle città latine. Gl’Ingauni erano più esacerbati che domi dalla ferocità Claudiana; ma non potendo a tante forze resistere, parte salirono a’ luoghi inaccessibili, parte abbandonata la terra ferma, corseggiando dall’Etruria infino alle colonne d’Èrcole, non rifinivano di molestare i sudditi e i compagni de’ Romani.

Querele e suppliche vennero da ogni lato a Roma ; ma l’anno del consolato passò senza frutto, e fu prorogato il governo della guerra à Paulo, dolentesi oltremodo e confuso di non poter nuocere a’ nemici, dov’essi cotanto nuocevano a’ suoi. Apparecchiate però le cose opportune a un assedio, si strigne alla città di Albenga. Escongli incontro gli ambasciatori della città, pregandolo per un respiro di tempo, per dieci giorni e non più, quanti bastano a rimuovere il popolo dalla sua ostinazione. Pregano inoltre, che nessuno s’inoltri dietro al promontorio ch’è di rimpetto, perchè ivi si trovano di piantagioni preziose, sostentamento e delizia degli abitanti. Ora togliendo una studiata asprezza da questo racconto di Tito Livio, come il fonditore la bassa lega dall’oro, pare a noi che senza accusare di poca fede gli ambasciadori, di troppa dabenaggine il capitano, non altro vi s’intenda che un patto usitato anco al presente, secondo il quale Albenga doveva arrendersi a discrezione, quando fra dieci giorni non ricevesse soccorso. Calavano intanto riuniti dall’odio comune i duri Epanterj con tutti quegli altri che han pascoli nell’ alte Viosenne. Le selve e fondure, e il promontorio celavano i lor movimenti. Sull’ imbrunire dell’ ora insieme raccolti saltano fuora, e piegando a ponente serrano il campo nimico fra l’esercito loro e la città. Impeto più disperato non sostennero mai i Romani. Tempo non hanno a piantar le bandiere nè a spiegar l’ordinanza. Difendere l’ingresso degli alloggiamenti, e coperti dal vallo resistere, questo è tutto che possono fare, e forse nol potran lungamente. Emilio spedisce messi al vicin consolo; ma questi si trovava sprovveduto di gente; scrive all’ altro, ma è occupato contro gl’Istriani.

Vengono in un medesimo tempo al senato le nuove del soprastante pericolo, del chiesto soccorso, dell’ impossibilità di prestarlo. Il senato delibera, s’armino tosto due nuove legioni di cittadini romani; tutti sotto l’età di cinquantanni s’ obblighino con giuramento ad arrolarsi, e partire al primo cenno. I duumviri navali facciano vela con sedicimila Latini alla volta della Liguria occidentale.

Travagliavano intanto il proconsolo Emilio gravissimi pensieri, perchè non tornavano i messi spediti; poteva il nimico averli intercetti; i due consoli, il senato ignorar tuttavia il suo stato, ogni speranza d’ajuto esser vana. Quantunque il suo volto sereno non palesasse l’ansietà del suo cuore, il ritardo era un fatto ch’ e’ non poteva occultare; e però sebbene i soldati continuavano a obbedir la sua voce, non avevano la stessa vivacità. Questa tiepidezza per dubbio di perdere comunicossi a’ Liguri per confidenza di vittoria; tal che dove in principio uscivano in giuste file all’assalto ogni mattina, e rientravano al tardi nel campo senza disordinarsi, ora dopo molto bere e divorare, cominciavano e terminavano il combattimento con ugual confusione. Emilio conobbe esser tempo di tentare l’ultima posta; perciò dispose sul fare del giorno le migliori coorti alle quattro porte del campo, con ordine di avventarsi a’ nimici tosto che fossero vicini; fece smontare la cavalleria, provvide alla difesa, e poi andò intorno gridando: «Siete voi i compagni di quelli, che vinsero Annibale, Filippo, Antioco, i migliori capitani, i re più potenti della terra? E’ questa la nazione de’ Liguri tante volte doma e sottomessa? Siam noi Romani? O da tacersi cosa! Ciò che Spagnuoli, Galli, Macedoni, Affricani non s’attenterebbero a fare, lo fa a man franca il Ligure; accostasi al campo romano; che dico! lo stringe, lo assedia, lo assale, per poco l’ha preso. Vergogna scuota i vostri petti, emulazione gl’infiammi: pensate al nome romano, al vostro proconsolo, a’ patrj Dei, i quali altre braccia troveran che le vostre a pigliare di que’ felloni vendetta, se voi ne ricusate per debolezza il ministero.» Accesi così gli animi, s’ ode uno strepito d’ arme; giungono i nimici, s’appressano al campo! I Liguri principiano l’assalto quasi sicuri di vincere, i Romani fingono timore. Cresce in quelli la fiducia, e con la fiducia la confusione. Finalmente fatto dal consolo il segno convenuto, da tutte le porle del campo sbalzano altrettante schiere, levando a un tempo ferocissime grida, continuate da bagaglioni, ripetute dalla montagna. Come resistere in tanto disordine? come volger le spalle dopo sì belle speranze? I Liguri migliori eleggono una morte onorata; supera negli altri l’improvviso spavento-, ma poco vale il fuggire. Perchè i vincitori non concedono respiro, non danno quartiere; uccidono tredicimila nemici e ne incatenano duemila cinquecento. Dopo sì segnalata vittoria Emilio poteva spegnere i Liguri occidentali, ma farlo non volle, sebbene le replicate offese, il sostenuto pericolo, e i prieghi de’ confinanti lo vi spignessero; perchè importava al popolo romano, come ne accerta un gravissimo scrittore, (Plutarch. Vit. Æmil. Paul.; Liv. XL) che la nazione de’ Liguri, ornamento e tutela d’Italia, non fosse estinta.

Usò tutta fiata di molto rigore. Volle nelle mani i principali Ingauni per ostaggi, mandò nelle carceri i padroni delle navi che avevano danneggiato gli alleati di Roma, smurò le terre fortificate, confiscò trentadue navi armate, e proibì tener per l’innanzi legni maggiori delle triremi: chiaro indizio, che queste antiche galee non avevano già tre coverte e tre ordini di remi, com’ è generale opinione.

Tutto allora rappresentò in Roma la guerra Ligustica. Dedicossi il tempio votato a Venere Ericina dal consolo Porzio, Emilio trionfò solennemente degli Albinganesi; un’ambasceria de’ Liguri apuani fu udita in senato; e ributtate le sue dimande, si lesse da’ rostri un decreto che ordinava nuove leve. Facevansi ancora le scelte quando i proconsoli Publio Cornelio Cetego e Marco Bebio Tanfilo, pentiti del tempo perduto nel lor consolato, assalirono, con le vecchie legioni que’ Liguri apuani (A.M. 3805) i quali abitavano una catena di monti, detta al presente le Panie, e Anido allora. Un uomo pacifico, ma di poco cervello gli avea consigliati all’ambasciata di Roma, senz’impacciarsi di altri provvedimenti. Il perchè disarmati non poterono oppor resistenza. Ma sapendo il senato la parte che avevano avuta nel trofeo della selva Marcia, non rimase appagato della loro sommissione. Si facciano, scrisse a’ proconsoli, si facciano snidare dal loro paese, e si conducano per amore o per forza nel Sannio con le loro famiglie. Era il Sannio una provincia lontana fra la Campania e l’Apulia, spopolata da lunghissimi anni.

A tale intimazione i miseri Apuani maledirono mille volte quel giorno in cui sperarono pietà, gridando a una voce, che meglio sarebbe stato morire non affatto invendicati. Ma poiché omai l’adirarsi nuoceva, si volsero a’ prieghi, alle lagrime, alle più sacre proteste. Rinunzierebbero all’uso dell’arme, darebbero i figliuoli per istatichi, ogni più dura condizione verrebbe lor cara, più tosto che non vedere mai più il suolo natio, i templi della nazione, i sepolcri de7 padri, tante sacre immagini, tante dolci memorie. Pensasse il senato, che se amava egli Roma, eguale amore portavano essi alla Liguria, fors’anco maggiore, perch’era men grande, men fortunata. Quali tiranni, quali fiere, non che un governo sì giusto e pio potrebbono dimenticarsi, che sbandire un popolo, è un violare quell’universale e divino affetto della patria, è un offendere i sacri diritti della natura, un profanare gli Dei conservatori delle città e delle nazioni!

Intese queste suppliche, il senato provvide alle spese del viaggio e del collocamento; ma nella sostanza del suo decreto rimase inesorabile. Di modo che quarantamila Liguri con le donne, i fanciulli e i pochi cenci avanzati alla desolazione, travalicarono quasi tutta l’Italia, per giungere alla terra d’esilio. Non era questa lontana dalle foci Caudine, ove già i Sanniti, numerosi allora e guerrieri, posero un romano esercito sotto il giogo. Onde il sito stesso mostrava, come facilmente si passa dall’ una all’altra fortuna.

La trasmigrazione di quegl’infelici riuscì così grata al senato, che concedette per la prima volta il trionfo a tali, che vinto non avevano nè pur combattuto. Un morbo contagioso era stato cagione che i consoli del medesimo anno si rattenessero a Roma; Calpurnio Pisone ne morì. L’altro consolo Aullo Postumio Albino il losco radunò i comizi per l’elezione del successore, e adempiuta quest’obbligazione legale, n’andò ad aspettare il nuovo collega a Piacenza. La sua dimora in tale colonia fu veramente più onorevole che il trionfo de’ proconsoli in Roma, s’ egli ne tolse occasione, come a noi sembra probabile, per cominciare, ed: aprire una via militare, detta Postumia nelle storie di Tacito, in un testo di Ulpiano, e in antica inscrizione senza accertarne l’autore. Molti furono i consoli di nome Postumio, ma nessun altro trovossi in circostanze tanto opportune quanto quest’Aullo; essendo le vie Flaminia ed Emilia già aperte, le colonie di Cremona e Piacenza poc’anzi ripopolate, i Gialli cisalpini sottomessi, i Liguri sbigottiti, e quattro legioni disoccupate. Così fatta opinione si concilia benissimo con la scoperta di un sasso migliare presso a Verona, che ha l’inscrizione seguente:

s. postvmivs s. F. S. F.

ALBINVS. COS.

GENUA

……………… XXVII.

 (Spurio Postumio Albino, figliuolo di Spurio, nipote di Spurio, consolo, da Genova ……. XXVII). Il fine della terza riga e il principio della quarta essendo corrosi, lasciano la distanza da Genova incerta. Vedi il cippo migliare di Verona con rara dottrina illustrate dal sig. cav. Borghesi nel giornale arcadico di Roma.

Imperciocché’ il Postumio Albino dell’inscrizione, il quale fu consolo l’anno 606 di Roma [148 a.C.], avrà continuata nel Veronese la strada aperta dall’Aullo 32 anni innanzi nella Liguria. E in vero le colonie migliori non si ponevano che a lavoro finito, e lo spazio di un sol consolato non bastava a compiere un’opera sì malagevole, sì lunga, e quanti tumulti, quant’altre guerre non l’avranno interrotta!

La via Postumia incominciava dunque da Genova, notabile preferenza; conduceva per Pontedecimo e il passo di Giovenio, ora de’ Giovi, a Libarna, Tortona e Piacenza ove incontrava l’Emilia; quindi a Cremona oltre Po, all’alto Padovano, a quel di Trevigi, e per Oderzo città del Friuli infino all’Alpi. I suoi comodi furono grandi, agevolare il commercio fra una città confederata e due colonie, fra l’Appennino di Genova e l’Alpi germaniche; prolungare la via Emilia infino al mare, e assi­curare le comunicazioni militari dalle rive del Tevere al centro della Liguria.

Le operazioni ostili ricominciarono dopo la giunta del nuovo consolo Fulvio Fiacco, ma non furono memorabili che per gran crudeltà. Fulvio imitò i proconsoli, costringendo quella porzione di Apuani che dimoravano presso foce di Magra a imbarcarsi per Napoli, donde venner menati nel Sannio accanto a’ lor popolani. (Plin. III. 7. 1) Una descrizione di questa provincia pubblicata tre secoli appresso, dà a conoscere che i discendenti de’ Liguri colà trasmigrati vi duravano ancora sotto il nome di Liguri Corneliani e Bebiani, perchè Cornelio e Bebio si appellavano i primi autori della trasmigrazione. Nel medesimo tempo Postumio entrò nelle montagne interposte fra la Vara e l’Entella. Popolatissime erano, nè senza coltivazione. Ma egli ne svelse le viti, ne bruciò le biade, e talmente ne impedì ogni accesso, che i popoli affamati si arrenderono. Pochi giorni ancora mancavano alla fine del suo consolato, esso gli spese in costeggiare sopra un navilio la bella riviera occidentale, avendo in animo forse, qualora tornasse in Liguria con podestà consolare, di proseguire la nuova via Postumia da Genova al Varo. Ad ogni modo gliene fallì l’occasione; perchè invece di consolo fu eletto a censore, magistrato eminente, ma ristretto alle cure interne della Repubblica, nelle quali non cessò di spiccare il suo genio vasto e operoso.

In questo mezzo la rimembranza de’ compagni esiliati fieramente pungeva i Liguri orientali, pur conoscendo che il menomo indizio ratterrebbe nel loro paese i Romani, dissimulavano. Ingannati dall’apparente tranquillità i consoli Fulvio e Postumio ricondussero le legioni a Roma, e subito l’avanzo degli Apuani si raccozzò co’ Friniati, passò il Serchio, e mise a sacco il fertile piano de’ Pisani. Ammolliti costoro da lunga pace, richiesero il senato romano, che dov’ e’ non giudicasse opportuno uno stabile e forte presidio di legionarj sopra i loro confini, volesse almeno una colonia fondarvi di Latini agguerriti, quasi antemurale contro le scorrerie de’ loro vicini, prontamente offerendo i terreni necessarii al mantenersi. L’offerta fa accettata, e deputati triumviri alla nuova coIonia Q. Fabio Buteone con due fratelli Popilj, che si renderanno fra poco famosi. A’ nuovi consoli ch’ erano un altro Fulvio Fiacco e L. Manlio, commette il senato la continuazione della guerra.

(A.M. 3806) In Roma Emilio Lepido solennizza con giuochi e pubbliche feste la dedicazione di due templi votati ott’anni prima ne’ combattimenti sostenuti contro i Liguri; e in Liguria nel medesimo tempo le legioni romane guidate da Fulvio vanno all’assalto delle montagne, ove i rimanenti Apuani s’erano afforzati; li mettono in fuga e atterrano i loro trincieramenti. Questi successi magnificali in senato, tre giorni di ringraziamenti consecrati agli Dei, e quaranta vittime solenni sacrificate da’ pretori in su gli altari, ci fanno conghietturare, che lo Storico latino abbia taciuto qualche infortunio, o qualche grave pericolo intervenuto a’ Romani prima della vittoria. Fulvio ottenne il trionfo.

(A.M. 3807) Il consolo Giunio gli succedè nel governo dell’armi; ma dalla Liguria dovè trasferirsi in Istria quasi all’opposta parte d’Italia, i cui abitatori improvvisamente armati, avevano il romano campo sorpreso. Fu breve la loro fortuna. Perduti poco appresso gli alloggiamenti acquistati, perdettero ancora l’anno seguente i principali loro villaggi e il re loro fu morto.

(A.M. 3808) Cajo Claudio Pulero aveva in quell’ anno il grado supremo della repubblica e dell’esercito. Non era ancora assicurata la nuova conquista, che il senato gli raccomandò di accorrere con due legioni nel Modenese occupato da’ Liguri Briniati. Claudio li raggiunse al fiume Scultenna, or Panaro, e riportonne una vittoria tanto più gloriosa, che lasciarono sul campo quindicimila morti, se pure il testo latino non è alterato, e soli settecento prigioni. Al vincitore di due popoli tanto discosti fu decretato uno splendido trionfo. Or mentre che in Roma si trionfa de’ Liguri, essi son già in sull’arme, discendono i monti del Modonese, si gittano nel contado, entrano vittoriosi nella città. A Claudio fu ingiunto, terminate le feste, di racquistare in qualità di proconsolo l’infelice colonia, e gli riuscì. Or come il senato avea poc’ anzi inviata una colonia latina nel contado di Pisa dirimpetto agli Apuani, così a frenare i Briniati, ei prese consiglio di stabilirne un’ altra di duemila Romani a Lucca, dandole i terreni tolti a’ Liguri, che i Lucchesi posseggono anche al presente sotto il nome di Garfagnana. Non era però finita la guerra. I popoli tutti delle montagne dal fiume Magra all’Entella rinnovarono la lega. Donde il proconsolo Claudio entrò nuovamente nel territorio ligure (A.M. 3809) fra la Toscana e quel di Parma, il consolo C. Valerio Levino si pose con due legioni fra la Magra, la Vara e il golfo di Luni. Ma Q. Petilio Spurino da soverchia foga spronato, si spinse con due altre legioni, che l’antiguardia formavano, oltre all’Entella, separandosi così dal collega. Pervenuto a una costiera, onde quattro strade si partono verso il Piacentino, il mare, l’Entella stessa e la via di Genova, Petilio riposò la sua gente. Sorgono là presso due monti, che gli assalitori della Liguria orientale s’ ingegnarono in tutti i tempi di occupare, l’uno chiamato Susmonte, e l’altro Balista, or Monteroso e Lasagna. A tergo s’estende una fertile e armigera valle, che ha oggi nome di Fontanabuona. S’era quivi ridotto il grosso de’ Liguri, e aveva afforzate le due sommità gagliardamente, tutti i greppi vicini bulicavano d’armi e d’armati. Petilio a tal vista divise le riposate legioni in più coorti, (Val. Max. l, 45) e le due prime guidando egli stesso contro il giogo di Leto che mena ritto a Susmonte, gridava per incoraggirle: «Venite su, valenti compagni, ch’oggi è quel dì, ch’io piglierò Leto ad ogni modo». Superstizioso era il volgo di Roma; e però quelle voci del consolo in cambio di far animo a’ soldati, lo tolsero; dacché Leto e morte suonano in lingua latina Io stesso. Piovevano intanto le saette, le pietre. Una delle coorti ch’ e’ guidava in persona, cominciò a dubitare, a fermarsi. Egli vi accorse, rimisela al passo, e tornando con impeto a salire e a precedere gli altri, pria che se n’avvedesse, fu accerchiato da’ Liguri, e quindi ucciso. I legionari già mal disposti a seguitarlo, senza pur levarne il cadavero, si diedero ad una fuga precipitosa, che durò fino alla marina. Donde il senato, disaminato il fatto, li cassò tutti dagli stipendj, dichiarando indegni della milizia coloro, che morir non sapevano piuttosto che abbandonare il lor capitano. Quel giogo fatale fu quindi innanzi chiamato con piccola variazione Mons laetus, Monte lieto, oggi ancor Mont’allegro; o i vincitori volessero i vinti beffare nella lor lingua, o i Romani stessi mutassero in bene un nome malaugurato.(Trovaronsi, or son quarantanni, là intorno gli avanzi di uno scheletro con molti ornamenti militari, e veggonsi ancora al monte Lavagna i rottami d’antichissime fortificazioni; il che conferma la nostra opinione, ch’i pur di Cluverio, contro chi colloca Susmonte, Leto e Balista nell’Appennin Modonese)

Dall’altra banda Valerio più cauto fu altresì più felice. Gli Apuani e i Briniati riuniti lo assalirono, ma valorosamente respinti, perdettero nella fuga cinquemila persone. Se il testo di Livio non fosse qui interrotto, si conoscerebbero verisimilmente altre azioni gloriose di questo consolo, sapendosi altronde, (Liv. ed. ad usum Delphini 1, XLI, ex Tab. Cap) ch’ ei fe’ dedicare al collega morto coll’arme in mano, una statua marmorea nel foro di Roma, e ch’ ei trionfò sopra una quadriga seguitata da carri splendidissimi al Campidoglio.

Ma i Galli cisalpini furono meno atterriti dalla vittoria di un consolo, che incitati dalla morte dell’altro. Onde porsero orecchio all’esortazioni de’ Liguri lor confinanti, rinovarono l’antica lega, e dall’una all’altra riva del Po strappando le insegne romane, gridarono guerra e indipendenza. (A.M. 3810) I nuovi consoli partirono le provincie; toccò ad Emilio Lepido, consolo per la seconda volta, la Gallia cisalpina, a Publio Muzio la Liguria. Il primo con maravigliosa celerilà guidò l’esercito al Po presso a Casteggio, s’impadronì del ponte, e corse tutto il paese sulla destra sponda del fiume; nè i Galli cisalpini, nè i Liguri abitanti a rincontro della pianura, prima raggiunti che armati, opposero valida resistenza. Muzio spalleggiato dalla felice diversion del collega combattè gli Ercati, i Lapicini, i Garuti; spinseli al torrente Audena, che altri crede l’Aulella, altri il Serchio, e carichi ancor del bottino acquistato sul distretto Lucchese, li vinse e spogliò d’ogni bene. Per queste cose il senato diede a’ consoli il trionfo, e tre giorni di ringraziamenti dedicò agli Dei.

Erano più di sessant’ anni che si combatteva in Liguria; nè mai gli Statielli s’erano mossi. Nondimeno Marco Popilio Lena dianzi triumviro, e poi consolo, entrò improvvisamente nel paese loro con una legione e un drappello di cavalleria. Tuttavolta essi stettero cheti, non potendo persuadersi, montanari inesperti, di esser offesi senza aver provocato. Disingannati dall’ordine arrogante che smantellassero il loro castello Caristo, oggi Cartoso, uscirono in campo, e a piè fermo aspettarono l’assalto de’ Romani. Una giusta indegnazione teneva lor luogo di esercizio in guerra. Durò la fortuna tre ore indecisa, finché Popilio comandato non ebbe alla cavalleria di dar la carica quanto più presto e più impetuosamente potesse. Questa volendo sopra i pedoni distinguersi, eseguì per modo il comando che sdrucì in tre parti l’ordinanza nemica, e corsele per entro fino alle spalle. I concitati Statielli si difendevano ancora; ma la fanteria investendoli coll’aste abbassate, dopo grande uccisione dall’una parte e dall’altra, li mise in piena rotta. Non più di settecento fur presi vivi, diecimila morti, e de’ Romani tremila. I fuggitivi si raccolsero dentro a Caristo; dove apparendo che le persone atte ancora a difesa erano meno delle perdute in battaglia, si risolverono a darsi senza patti espressi, confidando in quelli di umanità. Ma Popilio gli spogliò d’ogni avere, atterrò loro le case, di un popolo pacifico offeso a torto, costretto a difendersi, vendè a pubblico incanto infin le famiglie. Ne inorridì l’Italia. I più ragguardevoli senatori di Roma dettero segni di altissima indegnazione in sentire le lettere del consolo, il quale non che arrossisse del suo operare, tutto ardiva descriverlo con millanteria. Fu però decretato essere di piacere al senato, che renduto a’ compratori il prezzo sborsato, si mettessero in libertà gli Statielli, si restituissero i loro beni, e compensassero i danni, il che eseguito, sgombrasse Marco Popilio il paese, ammonendolo, quant’ è cosa onorata l’abbattere gli arroganti, tanto essere infame l’oppressione degl’ innocenti. Ma egli ricusò di ubbidire, andò a Roma per giustificar sue ragioni, e riuscigli a segno, che la sua iniquità aggravata dalla disubbidienza rimase impunita, e non gli fu disdetto di ritornare nel territorio de’ miseri Statielli, ove la stizza che vie maggiore sentiva contro di loro, incitollo a guastare i lor bagni frequentati dalle terre vicine e giovevolissimi in tutti i mali delle giunture. Allora i popoli dell’Insubria con quelli della Liguria, frementi che uom sì ribaldo abbia a continuar nell’imperio, esclamano a una voce: Sia rivocato e punito il tiranno; sia fatta giustizia agl’ innocenti! Una circostanza straordinaria li favoriva. Volesselo il caso o romana politica, era per la prima volta salito al consolato di Roma un Ligure nominato Publio Elio. I fasti consolari, non ostante la severa lor brevità, fecero espressa memoria del paese nativo di Elio; ma la storia non vi aggiunse alcun cenno, onde conoscere o sol conghietturare in qual parte della Liguria egli nascesse. Egualmente s’ignora come ottenesse la cittadinanza romana, sola via agli onori; la quale si otteneva in due modi, o con privilegio personale per meriti proprj, o con privilegio di origine per aver sortiti natali in qualche città decorata del titolo di Municipio.

Comunque ciò avvenisse, il senato, i tribuni della plebe, il popolo tutto con maravigliosa unanimità volevano liberati coloro che si erano arresi, e. condannato il loro oppressore. Elio avea già steso un decreto, i tribuni già combinata una legge; già gli Statielli speravano libertà e vendetta. Ma i Popilj, casa potentissima in Roma, conosciuta in tempo l’intenzione del senato e del popolo a sollievo de’ Liguri, avevano ogni sforzo adoperato a conseguirne i suffragj per Cajo, stato anch’ esso triumviro della colonia pisana, fratello ed ajuto del consolo accusato. E Cajo fu eletto collega di Elio. Costui riunendo l’autorità del grado al favor de’congiunti, uomo accorto insieme e superbo, operò tanto, che la legge fu tardi approvata, in gran parte elusa; e tutta in somma la commiserazion de’ Romani si ristrinse a mettere in libertà coloro che dagli ultimi sett’anni addietro non avevano preso parte a’ tumulti, con obbligo ancora di lasciarsi guidare oltre Po a coltivar nuove terré. Il che due pretori sollecitamente eseguirono, spopolando d’altre migliaja d’uomini la Liguria. Tanto è difficile, che chi può far violenza, faccia appieno giustizia!

Il senato poi destinò a’ novelli consoli quella stessa provincia. Come il tracotante Cajo Popilio era stato rissoso col suo collega in Roma, così fu tutto dolcezza in Liguria: perocché vedeva ardersi in viso lo sdegno di que’ popoli delusi; e d!ordinario l’uom superbo a casa è da principio umilissimo di fuori. Convennero dunque i due consoli di antiporre la benignità alla violenza; e tal frutto ne colsero, che in quell’ anno medesimo e ne’ quattri anni appresso, quando Perseo re di Macedonia e Genzio re d’Illiria ebbero guerra con Roma, il paese tutto fu in pace. Donde si può conoscere, sebbene la parzialità degli storici latini insiste sovente nel contrario, chè i Liguri erano pacifici, sempre che non erano provocati. Fecero anche di più, arrolandosi in numero di duemila giovani destri e vivaci nella fanteria leggiera degli eserciti romani. (Liv. XLII. 7; vedi Annotazione IV)

Annotazione IV.

La gente o Casata degli Elj, benché non patrizia, era riputata nobilissima, come quella che avea ottenuti i primi onori della repubblica. De’ rami o delle famiglie in ch’era divisa, uno aveva il cognome di Tuberone, un’ altro di Peto, e un terzo di Ligure. Se questo avesse principio dal consolo Publio Elio, o fosse più antico, non si hanno memorie per giudicarlo. Ma è indubitato, come osserva lo Streiknio (Grevio, T. VII, 1121), che quando simili aggiunte al nome de’ consoli non significavano un’insigne vittoria, dinotavano sempre la patria o la nazione originaria. Altri Liguri furono aggregati alla gente degli Elj al tempo di Cicerone, sembrando cagione di tanta corrispondenza fra questo casato e quella nazione, un genio comune di temperanza e frugalità. Narra Plutarco, che sedici Elj vivevano tutti di un picciol podere, e che il primo arnese d’argento entrato nella lor casa, si fu una guastada [caraffa, boccale], che Paolo Emilio vincitor de’ Macedoni trovò nel regio tesoro, e della quale fè dono a Elio Tuberone suo genero, in premio di segnalate prodezze.

Riconobbe il senato tali vantaggi dall’autorità del consolo Elio nel paese natio; e il rimeritò prontamente, soggiogata al tutto l’llliria, con eleggerlo uno de’ legati, ch’ era sommo onore, a rassettarne lo stato e regolarne le condizioni. Ma non usò pari gratitudine verso i popolari di lui. Anzi non prima venne a capo di quelle guerre, che un’altra ne suscitò in Liguria.

(A.M. 3819) Q. Elio Peto e M. Giunio Penno si nominavano i consoli dell’ anno 587 (753-587=166 a.C.) di Roma, Claudio Marcello e Sulpizio Gallo dell’ anno seguente. Quelli si diedero a saccheggiare il paese, e questi secondo i marmi Capitolini ne ritornarono trionfanti a Roma. La generosa nazione s’accese a vendetta; e l’ingratitudine provò un gastigo almen momentaneo, leggendosi nell’argomento del libro quarantesimo sesto di Tito Livio, che i Romani combatterono con varietà di successi contro i Liguri, i Corsi e i Lusitani. Ma la perdita di quel libro caro agli animi gentili, ci ha tolta ogni notizia delle sue particolarità. Sono insieme periti i rimanenti volumi di Livio, se non che da’ fasti del Campidoglio si sa, come l’anno 596 (753-596=157 a.C.)di Roma (A.M. 3827) M. Fulvio nobiliore proconsolo, e ivi a tre anni il consolo Claudio Marcello trionfarono de’ Liguri Veliati. Uno scrittore pieno di filosofia ci ha conservata memoria di una circostanza ben atta a mostrare quanto la bontà possa giovare alla dominazione; ciò è ch’ essendo in quel torno defunto Emilio Paolo già vincitore de’ Liguri, poi degli Spagnuoli, e in fine de’ Macedoni, al funerale che Roma gli fece grandissimo come conveniva a tant’uomo, concorsero Liguri, Spagnuoli e Macedoni, protestandosi di averlo tanto amato in pace per la sua giustizia e moderazione, quanto temuto lo avevano in guerra per la sua vigilanza e il suo valore. (Plutarch. Vit. P. Æm. n. 67).

Infino allora i Romani avevano guerreggiato contro i Galli cisalpini e contro Liguri marittimi o circompadani; quando venne loro occasione di passar l’Alpi e il Taro contro i Liguri e i Galli transalpini. L’origine della guerra fu la colonia di Marsilia. Respinti i suoi primi nemici, come addietro mostrammo, Marsilia esercitò il traffico della sua metropoli, e n’ emulò la fortuna. Per armi o danaro acquistò nuovi terreni al mare; edificò Antibo non lungi dal Varo, passò quel piccolo fiume che separa due grandi paesi, e fondò Nizza. Seguirono molte contese co’ popoli vicini; la più pericolosa fu verso I’anno 598 (753-639=155 a.C.) di Roma co’ Liguri Ossibj e Diceati. I quali più felici ovalorosi che i Salj Segobrigi non erano stati, corsero da levante le terre nuovamente fondate, e da ponente pervennero fino alle porte della greca colonia. (A.M. 3828) Marsilia ancora nascente avea ricercata l’amistà de’ Romani, e ottenutone i patti più favorevoli, quasi gradi a entrar nelle Gallie. Allora dunque richiese di ajuto il romano senato (Polyb. Excerpt. Legat. 132; Liv. Epit. XLVII). Parve egli restìo all’occasione che sì fatta domanda gli dava in mano. Pur, come dall’antica lega costretto, inviò tre legati (lul. Obseq. de prodig. c. 76; Egitna è creduta dal CIuverio Cannes, da altri Agay) a Egitna città principale degli Ossibj, invitando que’ popoli a cessar dalle offese, restituire il già tolto, e vivere in pace co’ Marsigliesi. Gli Ossibj non avvezzi a-mediazioni, e del nome romano consapevoli sol per udito, ricusarono le condizioni degli ambascìadori. E reggendoli lenti al dipartirsi, insospettiti gli accomiatarono. (A.M. 3829) Due ubbidiscono; il terzo, Cajo Flaminio nominato, persiste nella volontà di trattenersi; minacciato dalla forza pubblica, arma i servi, munisce la casa, & solamente dopo l’uccisione di quelli, ferito ancor esso, si lascia trasportare a Marsilia. Allora i Romani allegando la violazione del gius delle genti e dissimulandone l’abuso, denunziano guerra agli Ossibj: i consoli Quinto Opimio e Lucio Postumio hanno ordine di assalirli. Augurj infelici misero da principio spavento, perchè il settimo giorno dalla lor partita, Postumio sì gravemente ammalò che fattosi condurre a Roma, vi morì poco appresso. Ma le vittorie di Opimio liberarono gli animi dalla superstizione. Gli Ossibj furono sconfìtti, perchè temerariamente sdegnarono di aspettare i Diceati, i quali venivano in loro soccorso. Con pari temerità combatterono i Diceati, allargarono gli ordini dell’ esercito loro, e quasi a sicura preda corressero, si diedero gli uni dopo gli altri a urtare i Romani, che sebben vittoriosi de’ loro compagni, mostravano nella lentezza de’ movimenti timore. Quando i Diceati erano più sparsi e disordinati, il consolo diè segno di avventarsi contro di loro, ne uccise i primi, gli altri prese o fugò. Nizza, Antibo furono ricuperati, Egitna espugnata, i rei della violata ambasceria caricati di catene, e mandati a Roma; l’intera nazion suddivisa in piccoli popoli; parte del territorio donato a Marsilia, e quella durissima condizion imposta di darle ostaggi, e a dati tempi scambiarli.

I patti troppo molesti presto si sfanno. Saprebbesi come i Transalpini rompessero quelli che Opimio avea loro imposti, se smarrita non fosse la storia di Pompeo Trogo, il quale, secondo che accenna il conservato proemio del quarantesimo terzo libro, ne trattava espressamente; e bene il sapea, essendo loro paesano. Certo è che i Romani, vinta la terza guerra contro Cartagine, disfatta Numanzia, e repressi alcuni interni tumulti, si volsero, secondo il loro costume, a un paese in tutto quel tempo trascurato, e trovaronvi l’alleata città nuovamente alle mani co’ popoli circostanti. (A.M. 3860) Donde le inviarono il consolo Marco Fulvio Fiacco con poderoso esercito, e lui vincitore de’ Voconzi e de’ Salluvj onorarono del trionfo. Non furono però ben domi; poich’è rimasa memoria che Cajo Sestio Calvino successore di Fulvio dopo il suo consolato venne confermato nella provincia in qualità di proconsole; dove riportò tali vantaggi, che non solamente potè conseguire il trionfo, ma stabilire nel centro di quella una colonia con doppia relazione al suo autore, e alle sue terme, nominate Aquae Sextiae. Nè di ciò paghi i Romani mossero guerra agli Sleni, Liguri potenti all’occidente di Marsilia, come i Voconzi all’oriente. Così avvisavano di passo in passo tutta la Gallia meridionale occupare fino alle Spagne, di cui avevano già gran parte senza avervi sicura comunicazione. In capo a quattr’anni il loro disegno ebbe pieno effetto. Perchè gli Steni veggendosi nell’aperta campagna sempre sconfitti, si chiusero in grandissimo numero nel principale castello; dove smantellate alla fine le mura, perduto il primo recinto, tale disprezzo della vita e tale odio de’ vincitori li prese, che la maggior parte si ammazzarono; e fino i fanciulli da quella feroce risoluzione esclusi, veggendosi prigionieri, procacciarono in varie guise di torsi la vita.

(A.M. 3868) Dopo sì luttuosa vittoria il consolo Quinto Marzio Re fu continuato nell’imperio, acciò collocasse quasi di mezzo fra le Alpi e i Pirenei una colonia chiamata allora Narbo Marcius, al presente Narbona. Ciò pur non bastò; ma ripullularono nuovi tumulti, le cui particolarità non si conoscono. Sappiamo bensì da’ marmi capitolini, che l’anno 639 (753-639=114 a.C.) di Roma il consolo Scauro, novello splendore della casa Emilia, ottenne sopra i Liguri un’ ultima vittoria, dopo la quale si compiè l’opera tanto contrastata, di sottometterli tutti e collegarli alla più potente repubblica del mondo.

Per collegarli più stabilmente, non erano ancora trascorsi quattr’anni, quando il medesimo Scauro aprì nella loro riviera una via di che apprèsso diremo; e nel 665 (753-665=88 a.C.) sotto il consolato di Cneo Pompeo Strabone padre del Grande, i tribuni Carbone e Silvano vinsero una legge, che dava la cittadinanza romana a’ Liguri, a’ popoli tutti sulla destra del Po, e a’ Veneti ancora, come una legge proposta da Lucio Cesare predecessor di Strabone, comunicata l’aveva a’ Latini e agli altri antichi socj di Roma. Due inscrizioni a questi dì pubblicate fanno fede, che il medesimo onore fu compartito anche a que’ Liguri, cui Bebio e Cornelio avevano traslocati nelle campagne taurasine del Sannio (Cicer. Orat, pro Archia poëta cum com. P. Manutii; idem Ep. ad Atticum I., lib. I. Vedi. etiam Sam. Pitisci, Lexicon ant. rom. Il 439; Guarini, Illustraz. dell’antica campagna taurasina, Napoli).

Non passeremo avanti senza rivolgere lo sguardo alle guerre fin qui descritte. Dall’anno 516 sino al 639 (237-114 a.C.) vedemmo i Liguri combattere contro la Romana repubblica, vincere alcune volte, più spesso perdere, ora in segreto rifarsi, ora non mettere mezzo fra una sconfitta e una conquista, assaliti, assalitori, e non mai bene assoggettati. Nel medesimo tempo Filippo Macedone, Antioco re della Siria furono vinti da’ Romani: gli Etoli, i Gallogreci oppressi, i regni di Macedonia e d’Illiria estinti; Cartagine, Corinto, Numanzia distrutte e arse; tutti i potentati, tutti i popoli tacquero, per così dire, al cospetto di Roma. Queste nazioni si difesero con eserciti, ricchezze, o forti ripari, talora anche con grandi virtù; e nondimeno riuscì facile a’ Romani il debellarli. Difese i Liguri un’ unione di cose, che negli altri antichi popoli non si mantenne lungamente, e ne’ moderni non è mai; ferocia di costumi, asprezza di strade, abbonimento alla servitù, un viver libero e uguale, ma soprattutto la povertà, che rispetto alle grandi nazioni è delle piccole la difesa migliore.

De’ modi loro di guerreggiare si è già accennato. L’uno si adoperava dopo grandi offese o sconfitte. Tenevasi allora una generale adunanza de’ popoli compresi nella medesima lega; e promulga vasi a grida e a furore la legge sacra, così detta del Saramento, che ogni persona abile all’arme prendeva, di difendere e vendicare la patria. I principali della nazione giuravano i primi; e poiché l’adunanza era sciolta, trascorrevano tutto il paese per dare il giuramento agli assenti. E cosa mirabile a pensare, come dopo le maggiori percosse si rinnovava per tal legge un esercito sopra i precedenti numeroso e feroce, aggiungendosi all’ordinarie cagioni gli stimoli della religione. Ma non conoscevano allora indugj, non aspettavano occasione; scorto il nimico lo assalivano, e se quegli avea migliori armi o miglior disciplina, seguiva di loro un macello. Pertanto l’esperienza gl’indusse a guerreggiare in una maniera meno arrisicata per sè, e più dannosa altrui. Se vendicarsi volevano d’infesti vicini, era nel tempo che i Romani svernavano. Se costoro campeggiavan lor terre in numero superiore d’assai, eglino si sparpagliavano nelle montagne, e al momento della partita ricongiungevano le forze con incredibile prontezza. A uno stretto, a una fitta boscaglia aspettavano ì capitani prosontuosi, addormentavano con simulata oziosità i rimessi, e con l’abbandono delle patrie case gli avari. Mentre gli uni badavano a sollazzarsi, gli altri a rubare, il campo era assediato e la vittoria in sospeso; stratagemmi molte volte felici e sempre molesti. Da qui nasce, che i romani eserciti, seguitati da creduli e appassionati scrittori, chiamarono i Liguri fallaci, turbolenti, orgogliosi, e più difficili a essere trovati che vinti; nella medesima guisa che proverbiavano ne’ Cartaginesi la fede Punica, ne’ Sanniti la fallacia, e lo spergiuro ne’ Greci. Perocché i conquistatori hanno in costume intitolare la propria rapacità virtù, l’altrui resistenza delitto; sdegnarsi che altri opponga l’arte alla forza, la sagacità all’ingiustizia, e spacciare come inviolabili le condizioni imposte dalla violenza, mentr’essi rompono apertamente le loro promesse e le leggi più sacre delle nazioni. Certamente la guerra de’ Liguri si raccendeva, se i Romani non pigliavano il generoso partito di averli per compagni e concittadini, anzi che per sudditi. L’odio nazionale si mutò allora in benevolenza: cessarono le volgari contumelie, più irritanti talora che le ferite; cessò il ligure nome di essere reputato straniero, e il più giudizioso come il migliore de’ poeti latini nel suo magnifico elogio dell’Italia, avanti il valore de’ Scipii e la virtù de’ Camilli, esaltò la costanza de’ Liguri nella sventura (Virg. in Georg, lib. II).

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Autori vari

10.000 – 1.200 a.C.

Si ammette che i Liguri occupassero il territorio che in seguito fu la Gallia dalla penisola Iberica fino alla penisola Italica ai confini con l’Etruria, comprese le isole. Scrittori greci antichi parlano di Liguri o Libui, abitatori della parte occidentale del Mediterraneo, i quali potrebbero essere i primi abitatori dell’Italia, che pare fossero anche nominati Ambroni. Quei primitivi vissero nelle caverne [citare ritrovamenti] e in seguito su palafitte, poiché le pianure erano paludose e dovevano difendersi dalle belve. Era un popolo organizzato in famiglie che vivevano isolate, ma che si univano quando li minacciava un pericolo comune. Furono invasi e si mescolarono ad essi popoli provenienti dall’Asia come i Tirreni, i Sardani, i Lidii e i Fenici che portarono strumenti in ferro e bronzo ed insegnarono loro il commercio sotto forma di pirateria. Tante invasioni li costrinsero ad occupare l’Italia settentrionale fino a Milano e a Bologna. A quei tempi si deve far risalire il mito che Ercole, venuto dalla Grecia, fu ferito dai Liguri e la sua gente costretta a retrocedere con il lancio di massi dalle Alpi marittime. I Liguri abitano un territorio che va dalle Alpi occidentali fino all’Adriatico a nord e, a sud, fino al Tevere. Con le invasioni di altri popoli i Liguri si ritirarono in una regione che va dal Varo, a ponente, al Magra a levante, fino alle Alpi e all’Appennino a nord. Il centro di tale regione divenne Genova. (Donaver, 1890)

Un patrizio genovese, il Rovereto (in Liguria Geologica nel 1937) in relazione alla ubicazione del porto di Genova faceva un’osservazione che merita di essere ricordata: “L’insenatura, che poi diventò il porto di Genova, era una piccola rientranza della linea costiera, in delineamento parabolico, e orientata in maniera da essere completamente aperta verso il Mezzogiorno e verso Ponente: non è stata quindi la forma, ma l’ubicazione rispetto alle vie dei traffici, ai passi dell’Appennino, che, fin dai tempi della ricca necropoli di via XX Settembre, appartenente all’età del ferro, dai tempi dei navigatori etruschi e focesi o massiliesi, ha fatto scegliere ai Liguri Genoati il sito marittimo accompagnato dal loro Oppidum e dal loro Emporium. In generale si verifica il contrario, sono le articolazioni costiere e non i passi dell’entroterra, che influiscono sull’ubicare e sviluppare i centri marittimi”. Un’affermazione che consente di dire che il porto di Genova, non lo ha voluto la natura ma gli uomini. (Rovereto in Petrucci, 1997)

L’antichissimo Porto si estendeva dalle falde del Castello di Sarzano alla piazza del Molo: rada e insenatura il rimanente. Le acque occupavano più del terzo dell’attuale Città. Ma la prestante fibra de’ genovesi seppe a furia di palafitti ed interrimenti fabbricare in pochi secoli la vasta zona che ora circonda il mare. Il Mandraccio viene indicato come il porto più antico conosciuto: ma ei non dovea servire che ai più sicuri approdi, e specie di avanporti e insenature ci dovean essere per altri ormeggi,  per le darsene ed anco per cantieri di costruzione. Sull’origine de’ Genuenses o Genuati molto si disputò: certo è che e’ traessero il nome, se non la favolosa origine, da Giano, figlio o nipote di Noè. E Giano in ebraico è quanto dir mare. Ond’è che si volle le antiche monete genovesi portassero da una parte il bifronte Dio, dall’altra la poppa e la prora d’una nave, come gli assi di Roma (si nega ora che sien mai state tali monete genovesi: ma fu secolar tradizione per provare l’origine della Città di Giano). Per quanto Plinio vanti i generosi vini del genovesato, e’ fu sempre ribelle all’aratro. Però ben si disse essere Genova balia de’ popoli marittimi, prima in Italia avanti i Pelasgi e i Tirreni (i romani vennero secoli dopo) a disprezzare i pericoli e a vincere le difficoltà della primitiva navigazione. (Malnate, 1892)

Giano, re degli Aborigeni antenati dei Romani. Genua in lingua celtica significa adito o entrata, porta come via d’accesso agli scambi commerciali con le genti del nord (vedi Giacomo Lumbroso, in Giornale Ligustico, 1874 e 1876). (Donaver 1890)

Il nel Seno di Giano. Era un piccolo fiordo che si insinuava tra la collina di Castello e quella di Carignano al suo estremo si trovava una località detta Ponticello ed un piccolo porto da cui prese il nome il quartiere di Portoria. L’antico Seno di Giano in Portoria fu il primo porto naturale di Genova Centro. (Miscosi 1933)

“Procedendo in ordine geografico, da ponente a levante, i popoli stanziati sulla nostra riviera nell’età pre romana, e di cui la storia ci ha conservato i nomi, erano i seguenti: 1) dal Varo alla Turbia i Vedianzi, la cui capitale era Cemenelo, oggi Cimiez; Nizza e Monaco essendo colonie dei Missiloti; 2) dalla Turbia al torrente Impero, gli Intemeli, capitale Ventimigli; 3) dall’Impero a Finale, ossia al torrente Pora, gli Ingauni, Capitale Albenga, e a tramontana di questi gli Epanterj; 4) dal Pora al torrente Lerone, fra Cogoleto e Arenzano, i Sabazi, capitale Vada Sabazi, oggi Vado; 5) dal torrente Lerone a Portofino, i Genuati, capitale Genova, e a monte di essi, sull’alta Polcevera, i Veturi; 6) da Portofino al capo Mesco, i Tiguli, cogli oppidi Tigulia (?) e Segesta (?); 7) dal confine dei Tiguli a quello di Luni, gli Apuani, capitale Pontremoli.” (vedi. Vittorio Poggi, I Liguri nella preistoria, Savona, tip. Bertolotto e C., 1901, citato in Donaver, 1913).

Una merce che si vendeva sempre bene nel mercato di Genova era l’ambra, che proveniva dal Baltico, come rilevò il Mommsen e come hanno confermato le esperienze fatte su pezzi d’ambra raccolti nelle tombe di via XX Settembre. E’ importante questo fatto perchè ci attesta quanto sia antica quella corrente commerciale attraverso la Svizzera e le Alpi che si afferma al giorno d’oggi coi valichi del Gottardo e del Sempione. (Poggi G., 1914)

Probabilmente fin dai tempi dei Fenici, 1000 e più anni a.C. venivano i portatori d’ambra sul nostro lido, come si recavano sul lido Adriatico passando per la via del Brennero, detta in antico via dell’ambra gialla (Mommsen St., Rom. Lib. I Cap.X). (Poggi G., 1914)

(Poggi G., 1914)

 

Genova pre-romana. (Barbieri, 1938)

Età ellenistica.

 

Bibliografia:Poggi V., Delle antichità di Vado, in Giornale Ligustico, 1877, pg.366; Oberziner G., I Liguri antichi e i loro commerci, in Giornale Storico e Letterario della Liguria, 1912; Barrili A.G., I Liguri cavernicoli, in Voci dal passato, Milano, 1909; Rossi G., I Liguri Intemeli, in Atti della Società Ligure di Storia Patria, vol.39, 1907.

[ulteriori immagini saranno inserite appena verranno pronte]

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L’ OPPIDUM LIGURE-GRECO

Gaetano Poggi, Genova Preromana, Romana e Medioevale,
in Genova , Giovanni Ricci editore, Libreria Moderna, Galleria Mazzini, 1914.

SOMMARIO: Il castello dei Genovesi – Origine del nome di Genova – La marina, le due anse – Genova distrutta dai Cartaginesi – Genova grecizzante – Descrizione dell’oppidum ligure-greco – L’arce – Serzan – Coccagna e ra Veca – O Prión – Mascaona – Sce-o-cian – Coeù-lua – Ma ta moa e Ga ta moa – Le Carbonée – Lo porte e lo mura doll’oppidum – La platea longa – Il panorama di Serzan e la sua storia – La città romana di Canneto.

Come tutte le città molto antiche, Genova si venne formando a poco a poco per via di successivi ingran­dimenti passando a traverso a tre civiltà, la greca, la romana e la medioevale.
Fu città greca per cinque secoli dal VII al II secolo a. C. – romana per otto secoli dal 202 a. C. al 641 dopo C. – sofferse del generale decadimento dal 400 al 1000 – risorse e brillò di luce fulgidissima dal 1100 al 1500.
Il «castello» fu il nocciolo primordiale. Come il Cam­pidoglio a Roma, il castello dei Zeneixi, che la tavola di bronzo chiama Genuates e Genuenses, si ergeva sopra una rupe, limitato fra i due clivi caratteristici di S. Croce da una parte e di Mascherona dall’altra. E che fosse in quel luogo lo attesta la tradizione, e il nome di «castello» che vi è rimasto attraverso ai secoli fino ai tempi nostri. Ma più di tutto lo dimostra la sua posizione, che risponde al tipo caratteristico degli antichi castelli dei Liguri, ricordati, lotreche nella tavola di bronzo, in Polibio e Livio e Cicerone. Erano questi castelli sempre in posizione elevata e forte, come Luni dei Liguri descritta da Frontino (G. Poggi. Luni Ligure Etrusca e Luna colonia romana, p. 5. 25. 162), e come tanti ca­stelli che rimangono ancora in val di Magra, come l’antica Ventimiglia in riviera di Ponente, Savignone in valle Scrivia (Lo studio dei castelli liguri preromani formerà oggetto di una nota speciale. Vedi Henry de Gerin-Ricard, Les antiquitès de la vallèe de l’Are Aix, 1907).
Il Castello era il centro amministrativo e politico, la sede dell’annona e dell’erario pubblico, la fortezza, il luogo di rifugio in tempo di pericolo. Vicino al castello era gene­ralmente un piano (cian, zan), ove si radunava il popolo a parlamento. A Roma era il foro, a Genova era il S-er-zan.
La marina genovese, che dovette essere un punto di commercio da quando i Fenici cominciarono a navigare il mar Tirreno (Mommsen. C. J. L. Vedi pure sul commercio dei Fenici sulle sponde Liguri. – Oberziner, I Liguri antichi, p. 196 e segg., nel giornale Storico e letterario della Liguria 1902. – Movers, Die phonizier – Pietsmann. St. dei Fenici), divenne certamente l’emporio più impor­tante del golfo ligustico dal VI al II secolo a. C. quando si trovarono in gara Greci, Cartaginesi ed Etruschi, ormai preponderanti sugli orientali.
Da questo concorso di forestieri sulla spiaggia di Ge­nova nacque probabilmente il nome di «Zeno » e «Zeneix ». Fra tutte le interpretazioni che furono date del nome di Ge­nova questa mi pare la più attendibile, perchè ha la sua base storica nel fatto che in quei tempi erano comunissime queste espressioni: «Zeno» il forestiero – «Zenoa o Zena» il luogo frequentato dai forestieri – «Zenoeixi o Ze­neixi» la gente che traffica coi forestieri. Così parlavano i Greci (Vedi i miei «Genoati e Viturii», p. 174), e il loro modo di esprimersi pare fosse in uso per tutto il Mediterraneo.
Queste cose io scrivevo dieci anni or sono. E i docu­menti vennero a darmi ragione. Infatti il prof. Cabotto ha trovato un testo dell’Anonimo Valesiano, il quale parlando delle insurrezioni contro gli Ebrei dell’anno 520 ed accen­nando a Genova, usa la forma «Coena» traduzione arbitraria della forma primitiva Zena, che era già stata tradotta in «Sena» in altre città dell’ Italia antica (Casotto, Storia dell’ Italia occidentale nel medio evo. II. 433).
Il promontorio, su cui sorgeva il castello di Genova, finiva in una punta o scogliera sul mare, simile a quell’altra che sta all’estremità opposta del golfo, la punta della Lan­terna. A levante sotto il Castello era una bella marina « maen-a» incorniciata in una di quelle insenature, che nella riviera ligure come nella riviera di Marsiglia portano ancora quel nome caratteristico di «anse» da cui forse eb­bero origine i molti «anzo ed anzio» del littorale italico. Un altra ansa era dal lato di ponente, ove poi si costrusse il primo porto di Genova. Da ciò si deduce che i luoghi di approdo dovevano essere due nell’epoca primitiva. Lo sbar­care più a levante che a ponente doveva dipendere dal vento, essendo preferibile approdare a levante quando il vento era da libeccio, ed a ponente quando era vento di scirocco.
Non è questa una ricostruzione ideale perchè è basata sopra elementi positivi, che si raccolgono studiando la strut­tura geologica del promontorio e la conformazione delle due marine quale apparisce dalle antiche carte.
Venticinque secoli fa avveniva nel mediterraneo un fe­nomeno quasi identico a quello che si verifica al giorno d’oggi. Era accanita la lotta per la penetrazione commer­ciale, e Genova era un punto troppo importante per non essere preso di mira, come ai tempi nostri l’Egitto, Tunisi e Tripoli nei rapporti degli Stati Europei. I Greci anela­vano alla conquista non tanto della terra quanto dei mer­cati italiani, e lo stesso programma avevano i Cartaginesi. Questi avevano occupato la Spagna, e miravano alla Si­cilia e alla Sardegna. Quelli avevano conquistato la Sicilia e l’Italia Meridionale e risalivano il nostro mare, occupando tutti i punti del littorale, che potevano servire al loro com­mercio. Come li troviamo a Pisa, così li troviamo all’isola d’Elba, a Popluna (Populonia), ad Aleria in Corsica, a Monaco (portus Herculis), a Marsiglia, a Nizza ecc. Greci e Cartaginesi si estendevano a danno degli Etruschi, ma ad un certo momento si urtarono fra loro, ed Erodoto ci fa vedere genti liguri combattenti coi Cartaginesi contro i Greci nei mari della Sicilia. Polibio ci conferma che la ricca Cartagine, l’Inghilterra di quei tempi, faceva grandi leve di soldati mercenari in Liguria (Polibio I. 17. 67; 111. 33).
Nel 205 a. C. Genova è distrutta da Magone e nel castello di Savona è portato il bottino (Liv. XXVIII 46). Il che ci fa chiaramente in­tendere che era la riviera occidentale che parteggiava per Cartagine, mentre Genova era nel partito opposto.
Questo diverso atteggiamento politico trova la sua spie­gazione nel fatto che Genova era divenuta per effetto di penetrazione commerciale, città essenzialmente greca. Il duello fra Roma e Cartagine finì colla vittoria di Roma, perchè questa riuscì a trascinare con sè tutte le città mari­nare grecizzanti, le quali vedevano di mal occhio il trionfo di Cartagine che metteva a pericolo certo la loro autono­mia commerciale.
Che Genova fosse una città greca, o per meglio dire un abitato di Liguri divenuto città per effetto della civilizzazione greca, si argomentava finora dalla tradizione e da molti indizi ricavati dal dialetto e dai costumi, e sopratutto dallo studio della colonizzazione greca. Se questa toccò la Corsica e Pisa, se si spinse fino a Marsiglia, era verosimile il ritenere che anche Genova fosse caduta nel predominio greco, dal momento che la troviamo avversa a Cartagine. Mancavano tuttavia le prove dirette di questo fatto impor­tantissimo per stabilire le vere origini della nostra civiltà. E queste prove ci furono date finalmente dal sottosuolo col vasto sepolcreto di tombe greche scoperte sul colle di S. Andrea nell’ anno 1901, in occasione degli scavi fatti per la costruzione di via XX Settembre. Le tombe che furono rac­colte nel museo di Genova, sono giudicate del V o IV se­colo a. C. (A. D’Andrade, Tomba a pozzo con vari dipinti appartenenti ad un sepolcreto preromano dell’antica Genova, Acc. Lincei, Serie 5, Vol. VI, p II, 1893. – Gherardini, D’un sepolcreto primitivo scoperto in Genova, Acc. Lincei Serie 5, Vol. VIII 1899. – Paribeni, Une nécropole archaique dans la ville de Gènes, Congr. Int. d’Antiq. et Archéol. preist. Monaco, 1808. Necropoli arcaica rinvenuta nella città di Ge­nova Ausonia, 1910. – Issel, Museo del palazzo Bianco, Bollettino di paletnologia italiana Anno XXXV, 1900. – Rizzo, Atti dell’Acc. dei Lincei. Anno 1910, Vol. VII. – G. Poggi, Museo di Palazzo bianco 1908. — Orlando Grosso. Catalogo del museo Municipale. 1912).

Le tradizioni locali, troppo disprezzate dal male inteso positivismo del secolo scorso, hanno avuto anche in questo una splendida conferma. Accenno a quella leggenda scritta sopra le arcate del bel S. Lorenzo, la quale narra di un principe troiano, che navigando sarebbe venuto a Genova, e vi avrebbe preso stanza e l’avrebbe ampliata «nomine et posse». Il principe troiano è preso a prestito dalla lettera­tura virgiliana, che nel medio evo infiorava tutte le tradizioni ; ma se si toglie il contorno poetico, si vede che la leggenda genovese aveva una base storica, in quanto affermava l’introduzione della civiltà orientale per opera di gente venuta dal mare, e dalla costa asiatica, perchè probabilmente erano greci di Focea quelli che vennero a Genova, come quelli di Marsiglia, di Pisa e di Corsica.
Colla scoperta delle tombe greche noi abbiamo risolto non solo il problema delle origini della nostra civiltà, ma abbiamo potuto iniziare lo studio della topografia di Genova antica con dati di fatto precisi. Infatti, mettendo in relazione le tombe scoperte sul colle di S. Andrea nel 1901 con quelle scoperte in occasione dell’apertura di via S. Lorenzo, e dell’abbassamento di via Tomaso Reggio e della sistema­zione di piazza S. Lorenzo nel 1828, abbiamo potuto stabilire che nell’epoca preromana la costiera che correva dal colle di S. Andrea a S. Lorenzo era un sepolcreto ed in conse­guenza non era abitata. Ciò che vuol dire che a quel tempo la città finiva al fossato che scendeva dal Prione a S. Giorgio.
Una lapide antichissima che esisteva in Sarzano, e ci fu conservata dal Ganduccio, diceva che balzati dalle loro navi i nuovi venuti salirono sul piano di Sarzano, ed ebbero dai Genovesi benevola accoglienza. Questa leggenda trova esatto riscontro in quella di Marsiglia, ove si narra con ricchezza di particolari dell’arrivo di una imbarcazione di Focesi nell’anno 600 a. C., e del matrimonio conchiuso fra il greco Protis e la bella Gyptis figlia di Nann capo della tribù lo­cale. A Genova non si conservò memoria di matrimonii, ma la critica storica permette che, anche senza documenti, si ritengano come avvenuti.
Un marmo sepolcrale trovato dal Grosso presso porta Soprana, il quale secondo ogni probabilità era stato raccolta nel vicino sepolcreto, ci ha dato il nome di due persone di quel tempo. Il marmo dice che il popolo piange Apollo­nia, moglie di Potamono Archippo. I nomi sono essenziale mente greci. Il démos ci ricorda le colonie greche delle isole Egeo, dove troviamo la stessa identica forma: ò démos, il pòpolo piange, onora, esalta (Vedi le inscrizioni di Thera nel C. I. G. Vol. III). Questo confronto ha un grande valore sia per l’interpretazione epigrafica, sia perchè giova a stabilire sempre meglio i caratteri e l’origine della nostra primitiva civiltà. Il démos vuol essere segnalato come tema di uno studio importantissimo. Si tratta di sapere quale si­gnificato deve darsi al démos che onorava Apollonia. Era il démos; in senso lato, cioè tutto il popolo genovese, o era la comunità dei Greci residente in Genova? Chi sapesse deci­dere questo punto avrebbe risolto un grande problema sto­rico, quello cioè di conoscere se i Greci formavano in Ge­nova una colonia, un démos, come nelle colonie dell’Egeo, o se formavano coi Genovesi una comunità sola. I pochi indizii che ci dà la tavola di bronzo e lo studio delle usanze antiche ci fanno propendere per la prima ipotesi.
Della venuta dei Greci in Genova, della loro prove­nienza, dei loro commerci, dei loro sepolcreti e degli indizii della loro localizzazione in Genova si parlerà più diffusamente nelle note. Per ora mi contento di accennare all’ipo­tesi che mi sembra la più verosimile, che essi abbiano preso stanza sulla «veca» (Ra-veca) e sulle pendici del «Priòn» e sul versante nord del Castello, da S. Donato fino a San Giorgio, ove probabilmente impiantarono quel mercato che durò per tutto il medio evo.
Questa sarebbe la città ligure greca distrutta da Ma­gone Cartaginese, nell’anno 205 a. C. rifatta nel 202 coll’aiuto delle legioni romane comandate dal Senatore Spurio Lucrezio. Questo sarebbe l’ «oppidum Genua» ricordato da Plinio (Plin. III. 72), il quale doveva avere per confini il mare da una parte e dall’altra il fossato che scende dal Prione e passa per via S. Donato e via Giustiniani e finisce sotto S. Gior­gio. Giova soffermarsi alquanto a studiarlo perchè tutto quello che potremo afferrare della sua conformazione pri­mitiva diventerà prezioso per lo svolgimento ulteriore dei nostri studi.
Prima che i Romani sistemassero Genova militarmente nel modo che si descriverà fra poco, l’oppidum era certa­mente più pittoresco perchè si protendeva sul mare con quella punta che poi divenne il Molo. I Romani tagliarono fuori la punta, e squadrarono l’oppidum colle due strade di S. Bernardo e delle Grazie. Importa notare che queste sono perpendicolari l’una all’altra, e s’incontrano ad angolo retto sulla piazza di S. Giorgio. Evidentemente qui si vede la mano del gromatico romano che segna un cardo e un de­cumano e al loro incontro mette la piazza principale, il foro, secondo le regole della castramentazione. Nell’interno dell’oppidum si mantenue probabilmente la pianta antica, quale era imposta dall’andamento della montagna, e quale si vede ancora attualmente. L’oppidum porta in vetta l’antichissimo castello, che forma l’arce, come dicevano i Romani, l’acropoli, come dicevano i Greci. Cominciamo a rilevare i carat­teri di questa acropoli, che è uno dei più preziosi ricordi dell’antica civiltà mediterranea (Vedi carta topografica).
L’arce è ben delineata dai clivi di Mascherona e di S. Croce. Misura circa 200 metri di lunghezza per 80 di lar­ghezza. Non presentò finora avanzi di muri romani o pre­romani, ed è probabile che non ne compariscano, perchè se questi muri sono esistiti furono certo i primi ad essere de­moliti quando Rotari, avendo conquistata Genova, ordinò, come era sistema di tutti i conquistatori, l’abbattimento dei castelli e delle mura. Ma forse di mura vere e proprie aveva poco bisogno perchè era come il castel di Luni «na­tura tutissimum». M. Henry de Gerin Ricard studiando i castelli liguri in Provenza ha notato che erano difesi almeno per una buona metà del loro circuito da una scarpata na­turale tagliata quasi a picco nella roccia. La cinta era qual­che volta semplice, ma spesse volte si trovano due o tre recinti. All’interno i castelli presentano la forma che la con­figurazione del suolo consente; predomina la pianta rettan­golare. Quando la cinta è composta di muri questi sono gene­ralmente formati con pietre a secco, ma non sono mura ciclopiche o pelasgiche come facilmente si suppose da chi lavorava di fantasia. I muri sono circa due metri alla base e un metro alla sommità, circa tre metri di altezza. Lungo il perimetro della cinta doveva correre una palizzata con tronchi d’albero intrecciati fra loro. Il castello dei Genoati doveva essere su questo tipo, e tale deve essere rimasto colla venuta dei Greci, che probabilmente si collocarono in­torno lasciando intatto il sacrario dei Liguri. Della distri­buzione che aveva internamente, è impossibile parlare al giorno d’oggi. Rileviamo soltanto che i due accessi che sono in alto uno da Mascheroua e l’altra da S. Croce devono appar­tenere all’impianto primitivo e rispondere al concetto di una porta dextera, e di una porta sinistra, che l’arco di S. Maria in Passione deve essere un’altra delle entrate antiche per quanto non vi sia nulla di romano nè di preromano nelle grandi bozze che troviamo sull’arco destro dell’archi­volto, appartenendo esse ad una torre medioevale. Final­mente una entrata, la principale, doveva essere in Sarzano nel punto ove ora si entra al Liceo Andrea Doria. Lo ar­gomento dal fatto che ivi convergevano i due clivi che sali­vano al castello, di Mascherona e di S. Croce. In fondo, di­nanzi alla chiesa di Castello la fortezza si elevava e proba­bilmente ivi non era porta, perchè era il punto più esposto al nemico.
Il Ganduccio, che scriveva nel sec. XVI, quando erano più visibili i caratteri antichi, notava che intorno al recinto erano tre punti fortificati. «Uno ad oriente nel luogo più elevato della piazza di Sarzano ove si comprende ora quel sito che è fra la chiesa di S. Croce e quella delle monache di S. Silvestro, volgarmente di Pisa; aveva tre torri, due nei lati ed una nel mezzo più eminente. (Qui il Ganduccio accenna al palazzo medioevale del Vescovo che si allargava verso S. Croce.) L’altra fortezza dominava verso tramontana della quale si vedono i vestigi. Nella parete esterna del mo­nastero delle monache di Madonna delle Grazie era la porta che scendeva nel luogo detto Mascarana. L’altra fortezza era fondata appresso il lido del mare verso occidente, della quale appariscono i segni nelle mura del convento di S. M. di Castello, in quella parte che riguarda verso S. Nazaro e Celso, che è ora la chiesa di Madonna delle Grazie della Marina.»
I tre punti fortificati a cui accenna il Gauduccio esi­stono tuttora. Dalle Grazie, come dall’archivolto di S. Ma­ria in passione, e sulla cima del colle si trovano gli avanzi delle torri che difendevano il recinto nell’epoca medioevale, quando per mutar di tempi l’antichissimo castello tornò ad essere un prezioso riparo contro le invasioni dei Saraceni.
Le case addossate all’esterno di questo recinto non sono di data molto antica, il muro o la roccia doveva essere sco­perto quando il castello era in piena funzione di difesa. All’interno del recinto vi erano tutto all’intorno delle case, come ricorda il Casoni, riferendosi al tempo antico.
Che cosa esistesse nel mezzo, ove è ora la chiesa di S. Maria in Passione non sappiamo. Certo se qualche cosa esi­steva era un edifizio pubblico, forse un tempio. Sono dubbii che è bene enunciare come spunto di futuri studi.
Sotto il castello era la grande spianata detta «s-er-zan» che è quanto dire: sul piano. Era la sede del parlamento, il campo marzio, il luogo di feste, di danze e di convegni. Il Serzan era formato dallo spianamento di una parte del colle, in modo che rimaneva fra due alture, il Castello e Coccagna. Questa bellissima zona, che prese il nome dall’essere posta in co’, o meglio in «coccu» (la cima del colle, onde la parola cocuzzolo) presenta nell’impianto del suo abitato un sistema geometrico, che non è certo del medio evo. Anche qui è da sospettare l’intervento dei gromatici di Spurio Lucrezio. Le case saran state più volte ri­fatte dall’epoca romana in poi, ma gli allineamenti primi­tivi, perchè logici e razionali, rimasero. Così sui campi del’Emilia, sconvolti da tante vicende, è rimasto il reticolato delle colonie romane (A. Poggi, Luni L. E. e Luna colonia romana). Il quadrato di Coccagna è allineato sopra la contrada della «Veca». Si chiama «veca» in lin­guaggio alpino il crinale della montagna, e siccome sulla nostra veca erano le mura e l’abitato si addossava a quelle, era naturale che questo si chiamasse alla veca; di qui la forma a veca, ra veca. Sotto la veca era la regione del «Prion» che confinava da un lato con Serzano e dall’altro col rivo di «in o Prion ». Il Belgrano spiega il Prion (Belgrano, Porta Soprana p. 32) come una pietra, su cui nel medio evo saliva il cintraco per annunziare i suoi bandi al popolo. Ma chi ha esteso i suoi studi a tutta la Liguria ha ormai compreso che è una espressione antichissima quella di «Pria e Prion e Prian » e che vuole rappresentare una configurazione comunissima della montagna. Pria e Prion e Prian accenna alla pietra, alla roccia, che apparisce sovente nel fianco della montagna, scarnificata dalle intemperie, dai venti e dalle pioggie.
Si vedrà meglio studiando la circoscrizione delle compa­gne medioevali che il Prione di Genova era tutta una regione che si estendeva nel modo testé indicato; una parte era Compagna di Castello, l’altra parte di Platea longa (Conestagia predoni Castri, conestagia predoni platee longe). La parte dell’oppidum che rimaneva tra il castello e via S. Bernardo si chiamava Mascaona, nome che può riferirsi al pendio scosceso (Il Ma è comunissimo per dire: affatto, tutto) del colle, come alla ubicazione sull’asca (Studiando gli infiniti nomi in asca e asco mi sono convinto che accennano al fossato in montagna, al canale, al rivo, alla bialera in pianura). Le contrade di Mascaon-a erano due; entrambe sali­vano all’ arce, una da piazza S. Bernardo, l’altra da piazza Embriaci. Un’altra contrada importante dell’oppidum era quella che da piazza S. Bernardo saliva al piazzale di Serzan e alla Veca passando per vico Vegetti. Un’altra quella che, passando sul fianco di S. Donato, per vico del Filo an­dava «sce-o-cian», sul piano di S. Andrea. In questa frase «Sce-o-cian» comparisce l’articolo greco preromano come nelle frasi «in o prion, in o campo, en i prói, en i çen, in e ciappe, en i seca. Dico greco preromano senza tema di es­sere smentito, perchè la forma tipica «en i seca» nella seca, è scolpita in bronzo nella tavola di Polcevera di 117 anni a C. È l’articolo che fu ed è tuttora in uso nelle città che sorsero per impulso di civiltà greca (A Napoli o porto, du porto, to porto, n-o porto. A Genova o porto, du porto, to porto, n-o porto. E l’articolo greco), e si contrappone all’articolo ligure, umbro, italico, che dir si voglia «er der, ar» che poi diventa «el, del, al», passando attraverso una infinità d’oscillazioni regionali. Sce-o-cian significa «sul piano» essendo in Liguria sempre in uso la forma «cian» per dire piano, «sce» per dire su (È lo stesso sce che i Francesi scrivono «chez»).
Quanto al sapere come e quando sia nato questo ri­piano famoso che si vede ancora davanti a Porta Soprana, io credo che dobbiamo riferirci all’epoca preromana quando fu spianata la «veca» e aprì una «colla» per passare dalla valle del Prion alla valle di Rivo torbido. Il bel piano al quale faceva capo la via romana dovette essere frequen­tatissimo fin dai tempi antichi, come lo fu nel medio evo.

Dalla parte verso il mare non v’ era bisogno di scavare per rendere forte e sicura la città. Bastava la roccia altis­sima che formava una vera rupe Tarpea, come quella su cui s’ergeva il Campidoglio a Roma. Il precipizio, il gran cavo si chiamava «cavon». Molti sono i termini di confronto che potrei indicare, ma ricorderò soltanto il Castel Gavon al Finale, che presenta la stessa rupe a precipizio dalla parte dei monti. I Francesi chiamarono il cavon la « cabonnière » ; in Genova prese il nome di « Cabonéa » e i notai tradussero « Carbonaria». Il Lib. Jur. ci parla delle « Carbonarie Ca­stri » che sono precisamente i burroni testé accennati. L’Al­bergo dei poveri fu detto per molto tempo di « Carbonèa » perchè dinanzi all’albergo erano le mura della città, e un gran fossato, un cavon, che diede il nome di Carbonèa alla porta e a tutta la regione.
Abbiamo notato tre vie dell’oppidum tutte convergenti in piazza S. Bernardo, e nessuno può avere difficoltà a con­vincersi che come le vediamo oggi, e come esistevano nel medio evo, così esistevano nell’epoca primitiva. Sono troppo caratteristiche, troppo connaturali al declivio per supporre diversamente. Il carattere eminentemente archeologico del nostro oppidum risulta poi evidente a chi ha fatto degli studi comparativi, per esempio coll’oppidum di Baux in Provenza, così pittoresco, così interessante nel sublime silen­zio dell’abbandono, come pure a chi ha visitato alcuni degli infiniti oppidi antichi che si trovano in Italia, come Amalfi, Perugia e Ventimiglia sul monte. Cito questi tre perchè appartenenti a regioni diverse, ma osservo che sono tutti armonizzanti ad uno stesso tipo, che io chiamerei greco italico.
Le tre vie, che convergono a S. Bernardo ci dicono che esse avevano come meta una porta o quanto meno un’uscita dell’oppidum. E qui è il momento di rimettere in onore la tradizione genovese, che per troppo amore di po­sitivismo era stata messa da parte nel secolo scorso, intendo dire la tradizione riferita dal Casoni. Nei suoi annali, giunto all’anno 1336, egli ricorda qual era la forma del nostro op­pidum nell’epoca romana:
«Cominciavano le mura sotto la chiesa di S. Nazaro e Celso e passando sotto la chiesa dei Santi Cosmo e Damiano giungevano alla piazza di S. Giorgio tutelare, ove era una porta, per la quale si andava in Canneto. Da questa rivol­tavano verso oriente per la strada detta Chiavica, cioè fosso della città, quale tirava diritto a S. Donato, sempre sotto le estreme pendici del colle di Castello. Vi era una porta in dirittura alla porta di S. Lorenzo vicino alla cantoria ».
La tradizione riferita dal Casoni risponde al vero, perchè essa è confermata ormai da due fatti positivi : l.° il fatto già accennato in principio che l’oppidum non si estendeva al colle di S. Lorenzo perchè ivi era il sepolcreto. 2.° il fatto che il rivo di via Giustiniani camminava scoperto ancora nel medio evo.
L’oppidum era dunque sul colle di Castello e doveva finire logicamente al fossato, e sul fossato doveva aprirsi la porta che era in direzione della cantoria di S. Lorenzo. Quando parleremo delle mura con cui fu recinto il castro ossia l’oppidum nel medio evo vedremo che esse correvano precisamente sulla sinistra sponda del rivo di via Giusti­niani, e vedremo un’ infinità di fenomeni locali che sono altrettanto conferme di questa primitiva configurazione.
Uscendo fuori della porta che fu poi detta di S. Lorenzo si varcava il fossato sopra un ponticello e si entrava subito in un piazzale che i documenti del medio evo ricordano col nome di « platea longa » (Un documento del L. I. del 1133 ci descrive la via che da S. Giorgio va su per la chiavica fino ad incontrare la via «qua per pia- team longam vadit ubi dicitur subtus Sancto Donato», aggiunge che in quest’ultima via è un ponticello. La regione subtus Sancto Donato è piazza S. Bernardo). La platea longa che noi se­gniamo nella nostra carta di fronte alla porta e al ponti­cello, occupava lo spazio fra via Giustiniani e Canneto. E si capisce molto bene quanto dovesse essere utile per l’oppidum, per sua natura angusto, avere una bella piazza su­bito fuori della porta a valle. La piazza doveva servire di sfogo agli abitanti della parte bassa, ed essere nello stesso tempo la succursale della piazza dei mercanti.
Tre adunque dovevano essere le piazze principali dell’oppidum, il Serzan, ossia la piazza del parlamento – la piazza dei mercanti o S. Giorgio – la platea longa fuori della porta a valle. Dissi fuori della porta, ma è un quesito che lascio da risolvere, se nell’epoca romana, dato il sistema di difesa adottato e che svilupperemo in seguito, vi fosse bisogno di un muro di cinta che chiudesse l’oppidum dalla parte di via Giustiniani (Il Celesia vide gli avanzi della porta nell’archivolto Mongiardino. Io ho fatto assaggi, ma nulla ho trovato). Certo una porta soprana doveva esistere, se non al posto preciso di quella che vediamo at­tualmente certo molto vicino, per essere in relazione colla strada romana. Questa porta si chiamava, secondo il Casoni, degli Arcati o delle Arcate. Il nome è prezioso perchè coincide colla scoperta dell’acquedotto romano, diretto a Raveca, che abbiamo fatto nel 1901. Se l’acqua doveva andare a Raveca bisognava che vi fossero delle arcate dove è ora porta Soprana. Un’altra porta doveva esistere verso il mare a S. Giorgio, ed un’altra in Sarzano. Dalla parte della riva l’oppidum era validamente difeso da un muro di cui parle­remo fra poco. Sotto il castello, dalle Grazie, era la carbonea ossia la rocca naturale, sotto il Serzano un muro. Lungo la veca è di nuovo incerto se esistessero muri, potendo bastare la difesa naturale della rocca.
Il muro che esiste tuttora in Sarzano sotto la chiesa di S. Salvatore fu sempre ritenuto un avanzo delle mura romane in base alla tradizione riferita dal Casoni (Il Celesia op. cit. le dichiarava senz’altro etrusche, ed invocava l’autorità dell’Orioli, che per tali le avrebbe riconosciute!). Ma nel 1901 il Podestà nel mettere in luce molte notizie ricavate dagli archivii (Podestà, Il colle di S. Andrea p. 266) credette di aver trovato la prova che romano non era perchè un documento diceva che nel 1141 il muro della città passava ancora a monte della chiesa di S. Sal­vatore. E concludeva che il muro in questione doveva essere stato fatto colla cinta del 1155. Che il muro del secolo X passasse a monte della chiesa di S. Salvatore, che il muro che si vede sotto S. Salvatore sia in tutto o nella massima parte costrutto colla cinta del 1155 siamo d’accordo, ma ciò non esclude punto che nella cinta fatta dai Romani e di­strutta da Rotari nel 641 fosse compreso il bel piazzale sorretto da un robusto bastione, che la cinta del 1155 avrebbe ripristinato. Tutti gli oppidi antichi hanno il piazzale com­preso nelle fortificazioni, esempio il magnifico piazzale di Perugia. Il lasciare metà del piazzale fuori e metà dentro si spiega in chi ha fretta o vuol fare economia, ma non si può supporre in un impianto stabile romano. E siccome questo impianto vi fu noi non possiamo scostarci dall’idea che il muro corresse sotto S. Salvatore seguendo una linea logica e normale. In altro luogo dimostreremo che la cinta del 1155 non è per la massima parte che un ripristino della cerchia romana.
Il piazzale di Sarzano doveva avere nell’epoca antica una estensione doppia di quella che ha attualmente e doveva occupare tutta l’area del convento e della chiesa si S. Agostino, come ho segnato nella mia carta. Creato mediante lo spianamento del colle doveva formare un terrapieno dalla parte dello stradone di S. Agostino e del vico dei Re Magi.

(Da Barbieri, 1938)

 

(Poggi G., 1914)