04.1 Dai primi Vescovi ai Longobardi (IV-VIII secolo).

04.1. Dai primi Vescovi ai Longobardi

(IV -VIII secolo)

 

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II. Secoli II e I av. C. I, II, III, IV, V, VI, VII e VIII d.C.

Cenni storici illustrati e raccolti dal pittore Quinto Cenni (Milano) per conto del Sig. Dr. Cav. H. J. Vinkhuizen dell’Aia, Medico. http://digitalcollections.nypl.org/search/index?utf8=%E2%9C%93&keywords=genoa

II Genoa Municipio Romano. Secoli II e I a.C. fino al 477.

Per circa sei secoli durò la preminenza romana su la Liguria in genere e su Genoa in ispecie, ma i documenti storici che riguardano questa non breve epoca sono tanto scarsi che poco o nulla si può ricavarne. Si sa soltanto da essi che gl’abitatori propri di Genova e contado erano detti Genoenses e quelli della Polcèvera e di Voltaggio avevano il nome di Genoati. Che il torrente Polcèvera era detto Porciphera, poi Porcòbera ed il torrente Bisagno veniva chiamato: Vesanus (ed in appresso “Feritore”) e la sua valle: Valle Vesanus.

Genoa cristiana, anno 451.

Genoa non divenne totalmente cristiana altro che nel 451. Ma già prima di tal anno, aveva avuto i suoi martiri (S. Lorenzo a. 260) ed i suoi vescovi (1°, Diogene, nel 381), nonché le sue chiese e cioà S. Lorenzo (280 circa), San Marcellino (296), SS. Nazaro e Celso (poi S. Maria delle Grazie) e S. Maria di Castello tutte e tre ancora esistenti meno l’ultima che è semplicemente chiusa. Genoa e la Liguria formavano in principio la IX Regione di Roma, poi, in seguito, una regione sola con l’Insubria, che aveva a capitale Milano; onde il Vescovado di Genoa apparteneva alla Diocesi milanese. Perciò quando si accese la persecuzione ariana contro i Cristiani nel secolo V i Vescovi di Milano si rifuggiarono in Genova e vi stettero per circa 70 anni, contribuendo in qualche modo al suo ingrandimento.

In linea di storia militare nulla si sa di notevole fuorchè essa formava un forte nucleo di abitazioni, non si sa precisamente se già ricinto di mura, e che si adensava sul colle di Sarzano, avendo per confini: ad est la valletta stretta e profonda del Rivo Torbido, al sud il mare, mentre varie ramificazioni della città si prolungavano lungo il golfo in direzione di ovest e nord-ovest. Quest’ultima circostanza è dimostrata ampiamente dalle successive edificazioni di chiese quali: S. Ambrogio (540), Basilica SS. Apostoli (poi S. Siro) (547), S. Sabina (586), le quali non avrebbero certamente potuto sussistere che in località abitate.

Dei suoi costumi ed abitudini militari, armi ed armamenti si è affatto all’oscuro onde bisogna forzatamente riferirsi a quelli generali, di tutti i popoli, almeno di quelli della penisola, di tali epoche.

Nell’anno 477 cadde l’Impero Romano per opera di Odoacre re degli Eruli.

III. Regno Erulo. 477-490.

Questa breve dominazione barbara non lasciò altro ricordo fuorchè quello dell’enormità delle sue tasse contro le quali i Genuenses fecero ricorso al loro Vescovo. Ciò dimostra che forse il Vescovo era la maggior autorità di Genoa.

IV. Regno Ostrogoto. 490-553.

Neppure questa seconda dominazione, relativamente breve essa pure, ebbe effetti speciali – almeno in linea di governo – su Genoa poiché il suo ingrandimento non ne fu affatto impedito come lo dimostra patentemente l’assunzione a cattedrale della città della basilica dei SS. Apostoli, situata un buon chilometro ad ovest del nucleo di Colle Sarzano, l’erezione di S. Ambrogio nel centro quasi del colle medesimo ed il pacifico ritorno dei Vescovi milanesi alla loro sede (520). Però nel 537 pericolando le cose degl’Ostrogoti, fors’anche per fatto dei Liguri, Genoa ebbe a patire un grave saccheggio dai Borgognoni scesi in Italia in aiuto di quelli, ciò che fa pensare che, forse, la città non era ancora munita di mura, o, quanto meno, le mura non proteggevano altro che il nucleo di Sarzano.

V. Impero Greco. 553-568.

Questa terza dominazione si fè sentire così poco in Genoa che essa non temè, quella durante, di rivendicarsi pienamente, quasi insensibilmente, la sua indipendenza che dichiarò tosto che l’Impero fu atterrato da una nuova invasione barbara quella dei Longobardi.

VI. 1° Indipendenza. 568-636.

Le diamo il titolo di 1° inquantoche l’altra che sussistette fino alla avvento della dominazione romana non ebbe alcun carattere politico spiccato.

Ricca, indipendente, con un commercio assai esteso e con una flotta abbastanza ragguardevole, Genoa fu in grado di accogliere e mantenere i profughi dell’Insubria e delle due riviere fuggenti l’invasione Longobarda e potè anche incutere qualche timore ai Longobardi medesimi che per allora non si arrischiarono a valicare l’Appennino.

Tavola V. Un avanposto genovese. 630-636.

Noi profittando di questa sosta , dedichiamo la Tavola V [La Tavola V non è presente nella NYPL] alla libera città mostrando alcuni suoi soldati in avamposto sul luogo stesso delle tavole I e IV. Il Sole è già alto e mostra bene tutte le sinuosità della montagna che ricinge la città da est, per nord, ad ovest e che ha per suo punto più alto il così detto “Sperone”. Il vestiario di quei soldati ed il loro armamento è quello dei così detti “Bassi Tempi” e sta fra il greco ed il romano.

VII. Regno longobardo. Ducato di Genova. 636-641 e 641-774.

Il Re Rotari più ardito o più istrutto dei suoi predecessori, valicò formidabile l’Appennino, cadde rovinoso sulla città, ne abbattè le mura e la ridusse in sua soggezione. Però, tendendo sempre l’egemonia longobarda ad ingraziarsi gli Italiani, il Re non portò più oltre la sua animosità, anzi eresse in Ducato la città e lasciò che continuasse nell’ingrandimento della sua flotta e del suo commercio.

VIII. Impero Franco. 774-800. Contea di Genova.

Nè fece diversamente l’imperatore franco Carlo Magno, il quale, anzi, debellati i Longobardi, e cambiato il Ducato in Contea, contribuì del suo meglio ad ingrandire ed abbellire la città, così che questa, alla caduta del detto impero (800), potè di nuovo dichiararsi indipendente pur mantenendo un Conte franco a capo del suo Governo nel quale eragli compagno – forse non soltanto per le cose della Chiesa – il Vescovo della città stessa che non aveva mai cessato di rimanere dal 477 in poi la prima autorità cittadina.

 

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ORIGINI DELLA CHIESA GENOVESE
Secoli IV -V

Poggi G., Genova preromana, romana e medievale, in Genova, Giovanni Ricci, Libreria Moderna, Galleria Mazzini, 1914

SOMMARIO: La leggenda di S. Nazaro e Celso è confermata dai monumenti — I primi Vescovi del Sec. IV — La diffusione del cristianesimo in relazione coll’ emporio — Importazione del culto dei martiri — La cattedrale nel centro dell’ emporio — S. Ambrogio e la basilica dei XII Apostoli — S. Siro martire titolare primitivo — S. Siro Vescovo del Seo. IV — Castelletto e la Cappella di S. Onorato — Le Cappelle dedicate ai martiri nel sec. IV — La diffusione del Cristianesimo nell’ Appennino per opera, dei monaci bobbiesi longobardici nei sec. VI e VII — La storia del monachismo longobardico-bobbiese — I monaci longobardici-bobbiesi in Genova.

Molto si è discusso sulle origini della Chiesa genovese e sui primi vescovi di Genova. Quando alle origini i Bollandisti rilevarono che la leggenda relativa alle predicazioni di S. Nazaro e Celso è un contesto di favole, in quanto narra una infinità di viaggi e di miracoli, con abbondanza di particolari inverosimili.
Ma il fatto che S. Nazaro abbia predicato nell’ alta Italia e in Provenza e specialmente a Milano pare non si possa mettere in dubbio, perchè se ne parla con sicurezza nella vita di S. Ambrogio scritta da S. Paolino nella prima metà del sec. V. E se fu in Milano, e se fu in Provenza, toccò certamente Genova, che era la stazione intermedia, ove sostavano le navi che viaggiavano fra Roma e P alta Italia e la Provenza. I Bollandisti intuirono che la venuta di S. Nazaro in Genova non era da mettersi come tante altre fra le cose inverosimili, e si limitarono a conchiudere che sarebbe stato desiderabile che il fatto fosse confortato «melioribus antiquitatis monumentis».

La diffusione del Cristianesimo fu contrastata nei primi tre secoli sia dalle persecuzioni di stato, sia da tutto l’ambiente romano che, essendo basato sulla schiavitù e sulle grandi disuguaglianze sociali, vedeva nelle nuove idee la sua rovina. Bisognava che il Cristianesimo invadesse l’esercito, conquistasse gli imperatori e diventasse per mezzo loro religione di stato, perchè le popolazioni si volgessero in massa alla nuova credenza. La maggioranza è sempre utilitaria. Quando si vide che la religione cattolica, che prima portava al martirio, diventava la via per arrivare ai posti più elevati, tutti vollero essere cattolici ed ortodossi. Questa è la grande rivoluzione che avviene nel secolo IV, quando il Cristianesimo diventa elemento importante nella vita pubblica. Prima di Costantino l’essere cristiano voleva dire andar contro a tutti i propri interessi per sacrificarsi a un grande ideale. La perversità dei tempi faceva volgere verso il Cristianesimo le anime elette, tribolate dalla sventura, nauseate dalla corruzione e dall’ assolutismo imperiale. Ma per la massima parte le comunità cristiane erano composte di schiavi e di miseri, per i quali il cristianesimo era la dottrina liberatrice. Lo stato vedeva con diffidenza le nuove organizzazioni cristiane, le quali erano obbligate a vivere come società segrete. Cercare le prove della diffusione organizzata e palese, in queste condizioni, è un compito illogico, che non può dare che risultati negativi. E se questo è vero, non è buona critica escludere la predicazione dei tempi apostolici e i suoi effetti solo perchè ne mancano le prove. L’unico processo critico che si può utilmente sperimentare è di vagliare le tradizioni religiose mettendole in relazione coll’ordine storico dei fatti palesi.
Quanto ai primi vescovi si è disputato finora. La cronotassi riferita dal Beato Jacopo da Varagine, dallo Stella, dal Giustiniani, dal Foglietta, ed accettata dal Baronio, fu contradetta nel sec. XVII dall’Ughelli, poi dall’Accinelli, dal Paganetti, dal Semeria, corretta dai Bollandisti, rifatta dal Grassi, dal Belgrano e dal Ferretto, il quale con buone ragioni dimostrò che fece male chi volle discostarsi dalle tradizioni antiche. La cronotassi da lui ricomposta, coll’aggiunta di nuovi elementi che non si conoscevano prima, porta a questo risultato che mi sembra doversi definitivamente accettare. Lasciando a parte la questione, che forse non si risolverà mai, se siano esistiti vescovi nel tempo delle persecuzioni, devono ritenersi del IV secolo i primi quattro di cui si ha memoria: S. Valentino (312-325), S. Felice (335-355), S. Siro (355-381), Diogene (381-?).
Si noti che l’elezione di Valentino, il primo vescovo pubblicamente noto, cadrebbe nel 312, un anno dopo il decreto di Galerio, Licinio e Costantino, che dichiarava tollerato il culto cristiano, un anno prima dell’editto di Costantino pubblicato a Milano nel 313, il quale proclamava la libertà di credenza e ordinava la restituzione dei beni tolti alle comunità cristiane. La Chiesa fiorisce fino all’epoca di S. Felice; poi cominciano subito le pestifere lotte dell’arianesimo, che hanno il loro risalto nella leggenda allegorica di S. Siro, che caccia il serpente dal pozzo della sua Chiesa.
Per chi era uso a concepire Genova unicamente come un oppidum ristretto intorno a Castello doveva rimanere un enigma il fatto che la cattedrale sia stata edificata, quando già il Cristianesimo era trionfante, ad una distanza notevole dalla città. La ricostruzione storica di Genova nell’epoca romana ci fa invece comprendere che la cattedrale è sorta a S. Siro perchè là era il centro del gran mercato, o meglio della città mercantile. È un fenomeno che vuol essere studiato nelle sue intime ragioni storiche.
Il Davidsohn nella sua storia di Firenze ha molto opportunamente rilevato come la diffusione del culto cristiano nelle città commerciali è essenzialmente dovuta al ceto dei mercanti, che frequentando le nostre piazze, vi portarono le idee nuove e gli atteggiamenti nuovi della fede, fra cui la venerazione dei corpi santi dei martiri che trasportavano in Italia sopra le loro navi. Solo a questo modo si spiega come il culto di Santa Reparata passi così rapidamente a Pisa, a Lucca, a Firenze, e come queste città abbiano in santa Reparata martire asiatica la loro prima patrona. Così si spiega come in Genova primeggia per antichità il culto di S. Giorgio. Fu un errore quello per cui si ritenne da molti che il culto di S. Giorgio abbia origine dalle Crociate, perchè un documento scoperto dal Marenco, di cui parleremo in seguito, ci fa vedere la chiesa di S. Giorgio esistente in Genova nel secolo X.
La ragione del fenomeno a cui accenniamo è semplicissima. L’idea religiosa, per diffondersi, doveva seguire le grandi vie segnate dal movimento commerciale. Come la prima predicazione evangelica arriva a Genova da Roma per la via del mare, così è naturale che ai tempi in cui l’Oriente e l’Africa s’infiammano e si esaltano nelle idee nuove, si stabilisca una corrente religiosa fra l’Oriente e l’Africa da una parte e l’Italia dall’altra. E quando Costantino insedia solennemente la nuova Chiesa a Roma è naturale che il fenomeno abbia la sua pronta ripercussione in Genova, il cui porto serviva di intermediario fra la capitale politica che era Milano, e la capitale religiosa, Roma. Naturale quindi che negli scali di Banchi, di S. Pancrazio, di S. Ugo sbarcassero le reliquie dei Santi, come sbarcheranno a Banchi le ceneri di S. Agostino nel secolo VIII, come sbarcheranno in fondo al fossato di S. Ugo le ceneri di S. Giovanni Battista nel 1098.

I preti genovesi, che nel 410 mandavano per via di mare a consultare S. Prospero di Aquitania, discepolo di S. Agostino, per avere spiegazione su certi punti della dottrina Agostiniana, attestano essi pure come la coscenza religiosa dei nuovi credenti avesse sentito profondamente l’influenza della dottrina che veniva d’oltre mare.
La leggenda di S. Siro, che ci addita il vicolo per cui l’allegorico serpente, cacciato dal pozzo della Chiesa battesimale genovese, fuggì per scomparire in mare, è un altro fatto che ci fa intendere come gli Ariani scacciati dalla chiesa di S. Siro filassero via per il mare, come dal mare erano venuti.
Altri fatti del sec. V ci fanno vedere i cristiani della Spagna e dell’Africa, che per sottrarsi alla ferocia dei Vandali cercano rifugio sui nostri lidi.
È il caso di dire che la penetrazione religiosa è per noi essenzialmente marinara. Da tutto questo si vede quanto sia logico e naturale che la nostra prima cattedrale sorgesse in mezzo all’emporio commerciale, nel poggio che sovrasta ai due scali principali dell’epoca romana, Banchi e Fosselo [Fassolo].
L’influenza dell’ elemento greco orientale in Genova risulta pure dal nome dei primi vescovi. Infatti a Valentino e Felice, che portano un nome latino, succede S. Siro, che porta un nome asiatico, Diogene e Pascasio che portano un nome greco.
Tutti questi fatti spiegano non solo come e perchè la cattedrale sia sorta in mezzo del mercato, ma ci danno anche buoni argomenti per stabilire che la sua origine deve cercarsi nel secolo IV e non nel VI, a cui la voleva trasportare il Grassi ed il Belgrano. Nel secolo VI il movimento commerciale era in gran decadenza, e quindi mancherebbe la ragione d’essere della Cattedrale a S. Siro. Scomparso il mercato, progredito il cristianesimo, era logico che la cattedrale sorgesse nell’ oppidum, e non più all’aperto.
La prima cattedrale di Genova fu probabilmente una sala sul poggio di S. Siro, come furono tutte le prime chiese cristiane al principio del Sec. IV. Ma è probabile che all’epoca di S. Ambrogio e dell’ imperatore Onorio la cattedrale sia stata impiantata solennemente nell’edilizio pubblico che io presumo dovesse esistere ove è l’attuale chiesa di S. Siro. Giova ricordare a questo riguardo che S. Ambrogio fu il grande organizzatore della Chiesa nell’alta Italia, che il giovane imperatore Onorio seguì l’indirizzo e gli impulsi del grande Metropolita, accordando che fossero trasformati in chiese templi e basiliche, che precisamente intorno al 380 S. Ambrogio erigeva in Milano la basilica dedicata ai SS. Apostoli, che era il titolo con cui si andava affermando la Chiesa universale in Roma e a Costantinopoli e in tutti i grandi centri. Dati questi fatti, e tenuto conto della grande attività di S. Ambrogio, che non contento di promuovere il culto nella Chiesa dell’alta Italia, visitava la Toscana, ed organizzava la chiesa di Firenze, non è da mettersi in dubbio che egli avrà pensato a dare una con veniente sistemazione alla Chiesa di Genova, che era direttamente alla sua dipendenza. Tre circostanze ce ne convincono in modo particolare – il titolo dei SS. Apostoli dato alla Cattedrale di Genova, come a quella di Milano – il fatto che al momento delle invasioni longobardiche i Vescovi di Milano si rifugieranno in Genova come in casa loro, e il fatto che le grandi donazioni fatte alla Chiesa in Liguria appariscono fatte in capo ai Vescovi di Milano, i quali continueranno a possedere fin oltre al 1000 pievi e chiese e patrimonii in Liguria.
La cappella, che servì da Cattedrale nei primi tempi, potrebbe essere quel vano di antichissima costruzione, che abbiamo trovato nei fondi della casa Pallavicini, di recente restaurata, in via S. Luca e Salita S. Siro. Si trovò una sala di circa 10 metri di lunghezza per 5 di larghezza, orientata a levante e colla porta nella salita che mette a S. Siro, precisamente di fronte al pozzo famoso, che una lapide tuttora ricorda, nel medio evo, la sala di cui parlo, convenientemente decorata, era diventata «la loggia dei nobili di portico vecchio ». Un avanzo di arco a listelli bianchi e neri che il M.se Pallavicino ha consentito a mettere in vista, con lodevole esempio, additerà ai venturi questi preziosi ricordi della nostra storia. [foto?]
Il pozzo o fontana che stava dinanzi alla cattedrale ha una grande importanza come elemento di ricostruzione storica, anche perchè dallo statuto dei Padri del Comune si ricava che la fontana di S. Siro era di tale importanza che nel 1582 fu deliberato di fare un acquedotto per diramarla in piazza Fossatello e a ponte Calvi. Tale ricchezza d’acqua spiega sempre meglio come S. Pancrazio fosse un abitato dell’ epoca romana, come il «Fosselo» fosse uno dei punti più frequentati dalle navi, come il poggio di S. Siro, che godeva di questo privilegio della fontana, dovesse essere il centro del mercato, e come presso alla fontana sia nata la prima cattedrale di Genova.

Abbiamo esteso i nostri studi a quell’abitato che sta alle spalle di S. Siro fino a Castelletto, e ci siamo convinti che è antichissimo, che dalla cattedrale al monte erano tre strade, una per la salita della Rondinella, l’altra che passava tra le case occupate ora dall’ Hotel Rebecchino ed il palazzo Grimaldi ora Mackenzie, la terza per la salita di San Francesco, che il Castelletto era una fortezza già nell’epoca romana, che il piano di Castelletto formava un abitato detto « N-o-seùa » ossia nel sito, perchè « ma-n-o-seua » si chiamava la via che dal piano conduceva proprio nel sito di Castelletto … L’apertura di via Nuovissima o via Cairoli troncò la continuità fra S. Siro e Castelletto. Ma i documenti più antichi del Liber lurium ci fanno vedere i frati di S. Siro che reclamano il Castelletto come ad essi spettante, per antica donazione fatta dal vescovo quando donò ad essi la Cattedrale.
Questa antica colleganza fra Castelletto e la cattedrale di S. Siro ci dà forse la spiegazione di un fatto, rimasto oscuro finora. Sappiamo dai cataloghi milanesi, che quando i Vescovi di Milano risiedevano a Genova, (571-641) erano sepolti «ad Sanctum Sirum»; ma il primo di essi, S. Onorato, fu sepolto «in Ecclesia S. Georgii ad Nucetam». A Castelletto esisteva ancora nel medio evo una chiesa col nome di S. Onorato. Perchè non poteva essere questa la chiesetta di S. Giorgio di N-o-seùa, a cui S. Onorato avrebbe lasciato il suo corpo e il suo nome? …
Ma la spiegazione più convincente del fatto di essere stato il primo vescovo milanese sepolto in Castelletto si ha nella circostanza già discussa che il Castelletto doveva essere un luogo fortificato nell’epoca romana. Il vescovo Onorato veniva in Genova spaventato dalla strage che Alboino aveva fatto a Milano, ed è troppo naturale che egli cercasse asilo nella fortezza che stava sopra la cattedrale, e là finisse la sua travagliata esistenza.
Tutti questi fatti vengono a confermare l’importanza che aveva S. Siro e la regione circostante nell’epoca romana. Ma presto tutto cadrà intorno alla cattedrale. Scomparirà il mercato, sarà distrutta la fortezza.
Cessato il campo romano la valle di Soziglia diventerà, come il Castelletto, un possesso del Vescovo, ove si pianteranno vigne ed orti; la bella regione d’in o campo, scomparso il mercato, ritornerà ad essere un prato – pratum S. Siri. II vescovo diventerà il padrone della plaga deserta che subentra alla città commerciale. Chi verrà molti secoli dopo stenterà a credere che tutto quel ciclo di prosperità e di decadenza da noi adombrato sia esistito, e preferirà immaginare una chiesa cristiana, che sorge in un luogo appartato, in un cimitero cristiano lontano dalla città e dai commerci. Così concepì il Ferretto l’origine della Cattedrale di Genova, ispirandosi ai fenomeni della chiesa nascente in Roma ai tempi apostolici. Ma quando parliamo della Cattedrale di S. Siro non dobbiamo riferirci ai tempi apostolici, ma ai tempi di Costantino e all’affermazione aperta e solenne del Cristianesimo a quel tempo. D’altra parte non è possibile ammettere che la regione di S. Siro fosse un luogo appartato in qualsiasi epoca della dominazione romana, perchè era il punto ove faceva capo la via che veniva dalle Gallie e quella che veniva dalla valle del Po, e doveva essere sul mercato, a qualunque modo questo si voglia concepire. Ritengo che anche il Ferretto vorrà convenire su questo punto, che ha un’importanza secondaria per la sua tesi, tanto più che la cattedrale, come noi la figuriamo, viene a spiegare molto bene il suo assunto principale della precocità del Vescovato genovese, determinata dall’ importanza commerciale della nostra città.
Oltre alla cattedrale devono essere sorte ben presto in Genova altre chiese o cappelle. Nulla sappiamo di certo a questo riguardo, ma, argomentando dall’antichità di certe chiese che sappiamo essere anteriori al secolo X e dal fatto testè accennato delle correnti religiose che venivano dal mare, è logico il supporre che al primo divulgarsi del Cristianesimo in Genova, cioè nel Secolo IV, quando la navigazione era in fiore, sia venuto dall’oriente il culto del martire S. Giorgio e dei martiri Cosma e Damiano, e per tempo sia venuto da Roma il culto dell’arcidiacono S. Lorenzo, martirizzato verso la metà del secolo III, e il culto del giovinetto S. Pancrazio, e del mimo S. Genesio, martirizzati a Roma al principio del secolo IV. A S. Lorenzo e S. Genesio romani dedicano una cappella o basilica gli abitanti della zona romana. S. Pancrazio è accolto dal nucleo commerciale che abita intorno al Fosselo [Fossatello], S. Giorgio e S. Cosma e Damiano hanno la loro cappella nell’oppidum, ma nella parte bassa di esso ove stanno i mercanti. Anche questo è da notarsi, per convincersi sempre meglio che la idea religiosa si propagò per i contatti commerciali. S. Nazaro e Celso hanno la loro chiesetta sulla riva del mare al molo, dove la tradizione diceva fosse avvenuta la prima predicazione.
A queste chiese dobbiamo aggiungere S. Maria di Castello, che figura fra le chiese più antiche. Non abbiamo documenti, è vero; ma chi vuol procedere a base di documenti di archivio finirà sempre come si è fatto finora col sopprimere tutta la nostra storia antica. Nè qui si arresta l’elenco delle chiese primitive, perchè probabilmente rimontano al IV secolo quelle cappelle di S. Marcellino, di San Sabina, di S. Fede, di S. Vittore e di S. Sisto, che dopo gli studi del Belgrano si era cominciato ad attribuire timidamente all’epoca dei Milanesi in Genova (571-641). Questa idea si fece strada, perchè si era notato che gli stessi titolari esistevano pure a Milano, onde era facile arguire che nel loro esilio in Genova i Milanesi avessero riprodotto sul nostro suolo i loro altari. Ma ora che vediamo la grande diffusione che ebbe il culto dei martiri nel IV secolo, e constatiamo la grande comunione d’idee e il procedere sincrono di certi culti per tutta l’alta Italia, subentra facilmente l’ipotesi che, come è avvenuto per S. Siro e per San Giorgio, così sia avvenuto per tanti altri martiri, che ebbero culto a Genova e nella valle del Po nello stesso tempo.
Quando si pensa che l’epoca Carolingia e la Longobardica che la precede sono epoche povere, che le regioni di S. Siro e di Prè erano allora abbandonate o quasi, che il secolo V e VI è pieno di guerre e di rovine, non vi è che il secolo IV, che è ancora epoca di prosperità e di commercio, che possa aver dato luogo a tante fioriture di chiese intorno al mercato, e alle vie che mettevano al mercato.
Insistiamo su quest’ultima circostanza perchè è troppo caratteristica ed eloquente: tre sole chiese primitive troviamo nell’oppidum, dieci sul mercato; segno evidente che esse son nate quando il mercato fioriva, non quando era un deserto.
In origine erano tutte piccole cappelle od oratori, come abbiamo potuto constatare a riguardo di S. Giorgio leggendo il documento pubblicato dal Marenco, e divennero poi chiese artistiche per via di successive trasformazioni avvenute nell’XI, XII e XIII secolo.
Coloro che trovarono negli archivi i documenti che si riferivano alla riedificazione di queste chiese dopo l’invasione Saracena credettero che si trattasse di «fondazione» e così si accreditò l’opinione che dall’XI secolo cominciasse la loro esistenza.
Alterate le date relative al vescovato, alterate quelle relative alle origini delle chiese, la storia nostra religiosa era divenuta un problema insolubile, perchè ad ogni passo venivano fuori delle incongruenze. …
Anche a Genova arrivò la corrente benedettina, e possiamo fino a un certo punto constatare il cammino da essa percorso. Da Bobbio rimontarono i Benedettini per la via Patrania, ove fondarono due monasteri, Montebruno e Tor- riglia. Poi discesero sul nostro versante, e si collocarono a S. Pietro di Davagna e S. Colombano di Moranego, la cui o- rigine bobbiese risulta sia dal nome dei titolari sia dalla leggenda di S. Colombano riferita dal Kemondini. Dalle alture di Davagna e Moranego i Benedettini passarono ad occupare S. Fruttuoso sul mare. Scendendo per vai Bisagno, si stabilirono sui bei poggi di Struppa, ove fondarono un monastero (Remondini, Parrocchie dell’Archidiocesi di Genova). E così arrivarono in Genova, ove occuparono il colle che sta alle porte della città, e vi fondarono S. Michele che sarà poi S. Stefano. …
L’origine bobbiese di S. Stefano si ricava da molti fatti. 1° Tradizioni e memorie, da cui risulta che una chiesa dedicata a S. Michele esisteva, prima della riedificazione del vescovo Teodolfo. S. Michele è titolare caratteristico dellè fondazioni longobardiche. 2° La denominazione di Bobbio primo, Bobbio secondo e Bobbio terzo che avevano ancora nel secolo XV i vicoli di S. Stefano, segno evidente che i monaci avevano portato con sè una colonia di gente bobbiese, progenitrice dei forti popolani di Portoria (Podestà, Il Golle di S. Andrea, negli atti della Società di S. P.). 3° Il fatto che i monaci dedicarono nel territorio di Portoria una chiesa a S. Colombano loro fondatore (dove sorse poi l’ospedaletto dei Cronici; la cui chiesa conserva il nomo di S. Colombano, e le vecchie costruzioni adiacenti nascondono gli avanzi d’un chiostro del 1000). 4° I possessi che avevano i monaci di S. Stefano.
Cito il possesso che avevano i monaci di S. Stefano del monastero di S. Fruttuoso di Capodimonte, e la tradizione riferita dal Remondini che l’alto Bisagno avesse per la Chiesa di S. Fruttuoso una speciale venerazione, loro inculcata nelle sue peregrinazioni da S. Colombano.
Tutti questi fatti vengono a confermare che il monastero bobbiese longobardico fu S. Stefano prima che il vescovo Teodolfo lo riedificasse, nell’anno 972, come dice una inscrizione apposta alla chiesa (questa lapide fu trovata nel secolo XVII incorporata nella muratura della chiesa attuale di S. Stefano).

Un’altra chiesa e monastero che attesta la presenza del monachismo bobbiese in Genova, è quella di S. Colombano ora Ospedaletto dei cronici. Un’altra è quella di S. Pietro di Banchi. A questo riguardo abbiamo il diploma dell’ imperatore Ottone I del 972 il quale conferma al monastero di Bobbio le sue possessioni, e fra queste «ecclesiam S. Petri que est sita in civitate Janue» (M. H. P. Chartarum voi. I, p. 232). E siccome le memorie relative alla traslazione del corpo di S. Agostino dicono che al suo arrivo in Genova il corpo fu deposto «in ecclesia S. Petri prope Januam» e le lezioni del Breviario vetere dicevano «in ecclesia S. Petri de Arena» abbiamo quanto basta per stabilire che S. Pietro di Banchi era una fondazione bobbiese longobardica. Era «prope Januam» perchè fuori dell’oppidum, era in civitate, perchè Banchi era nel territorio della civitas. Si diceva «de arena» perchè questo era il nome della spiaggia dal molo a S. Ugo.
È molto probabile che la stessa origine bobbiese longobardica avesse il monastero di S. Michele che era ai piedi del colle di Oregina. Ciò completerebbe il concetto dell’impianto religioso promosso dai Longobardi in Genova, allo scopo di cattivarsi coi monaci l’animo delle popolazioni.
A chi sembrasse eccessiva questa intensa divulgazione del monachismo longobardico in Genova, ricorderò ancora che in un diploma di Corrado il Salico (Muratori – Antiq. I 494) si conferma al monastero di S. Pietro in Celo d’oro di Pavia «ecclesiam que in honorem S. Augustini non longe a Januensi civitate constructa est a Liutprando». Non abbiamo più traccie di questa chiesa, che non era certamente il S. Agostino attuale fondato verso il 1260. Le indicazioni date nel diploma portano a cercarla fuori del castro, e della civitas – forse a S. Teodoro, forse a S. Benigno.

 [ulteriori immagini saranno inserite appena verranno pronte]

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 IV  al  V  secolo

 Autori Vari

 IV secolo d.C. nel IV secolo d.C. sorgeva la basilica cristiana extra moenia, dedicata in origine ai Dodici Apostoli (poi intitolata a San Siro), a cui si aggiungevano le chiese dei Santi Nazario e Celso sotto la collina di Castello (l’attuale Nostra Signora delle Grazie) e dei Santi Vittore e Sabina nel suburbio oltre San Siro (ora scomparsa). (Angeli Bertinelli M.G., L’epoca romana imperiale e tardoantica, in Borzani L. Pistarino G. Ragazzi F., Storia illustrata di Genova, Elio Sellino Periodici, 1993)

IV secolo. Toponimo di Genova. Il toponimo di Genova compare nella Tabula Peutingeriana, copia di una carta itineraria romana del tempo di Galla Placidia. L’originale è, verosimilmente del IV secolo e venne ricopiata nel XII. Appartenne a Konrad Peutinger da cui prese il nome. Attualmente si trova nella Biblioteca Nazionale di Vienna.

(Poggi G., 1914)

310 d.C. Edictum de praetiis di Diocleziano. Ne è un segnale la probabile menzione del porto di Genova nell’edictum de pretiis di Diocleziano, emanato verso la fine del 301 d.C. ed elencante in una tariffa i prezzi di calmiere sia delle merci sia delle mercedi, nell’ottica di una peraltro fallimentare politica antinflazionistica. (Angeli Bertinelli M.G., L’epoca romana imperiale e tardoantica, in Borzani L. Pistarino G. Ragazzi F., Storia illustrata di Genova, Elio Sellino Periodici, 1993)

312-324 d.C. Pietra miliare e viabilità. Appartiene infatti forse alla via Postumia (da Genua a Placentia per Libarna e Dertona), piuttosto che alla via Aemilia Scauri (da Luna a Dertona per Vada Sabatia), un miliario di Costantino databile fra il 312 ed il 324 d.C., ritrovato riempiegato nella cripta di Santa Limbania nella chiesa medievale di San Tommaso (demolita nel 1865), al limite del suburbio occidentale. Il cippo iscritto con la titolatura imperiale attesta, insieme con altri numerosi miliari relativi ad altre vie, la cura dell’imperatore per il riassetto stradale in generale nell’Impero ed in particolare nella penisola italica e nella Gallia, ma nella fattispecie documenta il rimodernamento e potenziamento delle comunicazioni fra Genua, l’entroterra padano e, in più vasto raggio, l’occidente ed il nord dell’Europa. (Angeli Bertinelli M.G., L’epoca romana imperiale e tardoantica, in Borzani L. Pistarino G. Ragazzi F., Storia illustrata di Genova, Elio Sellino Periodici, 1993)

381 d.C. Diogene fu vescovo di Genova fin dal 381. Così, per esempio, sia Ambrogio sia Virgilio di Tapso affermano che tra i vescovi presenti al concilio di Aquileia del 381 d.C., durante il quale furono condannati i presuli ariani Palladio e Secondiano, si trovava anche il vescovo di Genova, Diogenes episcopus Genuensis, che si espresse per la condanna di Palladio. (Donaver, 1890)

IV e V secolo d.C. Aree abitative e sepolcrali. Nel IV e V secolo d.C. si inquadrano altri resti archeologici, che documentano sia una continuità abitativa sia spostamenti e modificazioni nello spazio civico. Nell’area contigua al porto, in via San Giorgio, rimangono tracce di uno strato tardoimperiale e di un livello con cereali carbonizzati, forse ricollegabili all’esistenza di horrea, magazzini di grano almeno in parte importato d’oltremare. Mentre in piazza Cavour sono evidenziate da recenti scavi fosse con materiali del IV-V secolo d.C., la zona di San Silvestro appare in qualche modo recuperata e reinse­rita nel tessuto urbano, per la presenza di reperti tardoimperiali. Le aree sepolcrali inoltre risultano sparse in più punti, a San Martino, in via XX Settembre (ad ovest del ponte Monumentale), in via Fieschi, sul colle di Sant’Andrea, in piazza della Maddalena, sovrapponendosi alle più antiche necropoli o legandosi al percorso di strade interne o tangenziali, come quella dal bivio di San Vincenzo a quello di San Siro, mentre i cimiteri cristiani appaiono annessi agli antichi edifici di culto, di San Siro e di Santa Sabina, assolventi la funzione di poli nello sviluppo di nuovi nuclei insediativi. (Angeli Bertinelli M.G., L’epoca romana imperiale e tardoantica, in Borzani L. Pistarino G. Ragazzi F., Storia illustrata di Genova, Elio Sellino Periodici, 1993)

401 d.C. Alarico ( 376-411) e Stilicone. Passate le Alpi Alarico re visigoto giunge fino in Liguria, ma l’anno successivo viene costretto da Flavio Stilicone (ca. 359-408)  a ritirarsi in Veneto. (Zunino G., www.vegiazena.it)

408 d.C. Genova tappa obligata di viaggi. Nel corso del V secolo d.C. riaffiora ancora talvolta, nella tradizione letteraria, il ricordo di Genua come di una città di passaggio e tappa obbligata di viaggi e terrestri e marittimi. Per esempio Zosimo accenna allo sbarco nel porto verso la fine del 408 d.C. dei potenti eunuchi Arsacio e Terenzio, della corte dell’imperatore Onorio, i quali, diretti verso la Gallia e giunti a Genova, deviarono improvvisamente verso Ravenna. (Angeli Bertinelli M.G., L’epoca romana imperiale e tardoantica, in Borzani L. Pistarino G. Ragazzi F., Storia illustrata di Genova, Elio Sellino Periodici, 1993)

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LA CATASTROFE DELL’IMPERO 

GENOVA SENZA COMMERCIO INVASA DAI FUGGIASCHI

Poggi G., Genova preromana, romana e medievale, in Genova, Giovanni Ricci, Libreria Moderna, Galleria Mazzini, 1914

SOMMARIO: Devastazioni d’Alarico in Liguria — Milano cessa di essero capitale, decadenza di Genova — La provincia delle Alpi Cozie — Attila e gli Unni — I Vandali — Ripercussione in Liguria delle stragi vandaliche — Genova occupata dai fuggiaschi — Ricimero, Oreste, Odoacre — L’ Italia concessa a Teodorico re degli Ostrogoti.

Ed ora entriamo nel periodo delle invasioni barbariche così magistralmente descritto dal Villari (Villari. Le invasioni barbariche). È un periodo, che più d’ogni altro, vuol essere meditato al giorno d’oggi, per comprendere quali siano le conseguenze di uno sfacelo sociale.
Il buio si addensa sulla storia d’Italia, di tempo in tempo si travede come in un lampo la rovina immensa, devastazioni e stragi che si alternano ad una vita di stenti, di fame, di languore mortale. E tutto questo per due secoli; poi per altri tre secoli si succedono le invasioni saracene! Avvenne che i nostri paesi, quando si ridestarono, non riconobbero più se stessi, e i monaci almanaccando sui palinsesti cercavano di indovinare dove erano le ricche città descritte da Plinio colla frase che ancora a noi sembra una ironia: Omnia nobilibus oppidis nitent!
Procederemo rapidamente perché il nostro scopo è soltanto quello di richiamare le cause che portarono Genova alle misere proporzioni del 1000.
Ricordiamo la prima invasione dei Goti e l’assedio di Aquileia (400-401). Alarico, re dei Goti, dopo avere scorrazzato nel Veneto e in Toscana è battuto da Stilicone, un Vandalo, a Pollenzo (Pasqua 402) – l’invasione di Radagaiso arrestata da Stilicone colla battaglia di Fiesole (405) – la seconda discesa di Alarico, e il famoso assedio di Roma e il sacco dato alla città eterna il 24 agosto del 410 – la morte di Alarico in Calabria (410), – la traversata dei Goti, guidati da Ataulfo, che dall’estrema punta meridionale risalgono la penisola per andare a stabilirsi definitivamente nelle Gallie.
In questa prima fase del dramma dobbiamo rilevare quattro fatti che interessano la Liguria.
Il primo eccidio di Libarna certamente colpita nella prima invasione Alariciana, o quando Alarico, per sottrarsi all’esercito di Stilicone, si avviò dall’Emilia verso Asti e Pollenzo, o meglio quando sconfitto a Pollenzo dovette rovesciarsi colle sue genti affamate sull’appennino e saccheggiare le città che trovava sulla strada nel ritornare verso levante. In secondo luogo è da rilevare la devastazione apportata dai Goti nella riviera di ponente, di cui fa menzione una lapide di Albenga, che si loda degli aiuti e dei restauri ottenuti poi da Costanzo (C. I. L. Albenga). Ataulfo nel recarsi colle sue genti nella Gallia, percorse probabilmente la Flaminia e l’Emilia, e giunto a Tortona s’incamminò per la Julia Augusta, che era la via più comoda per le Gallie, ben nota agli eserciti invasori di tutti i tempi. Vado, Albenga, Ventimiglia fra le città marittiine, subirono le spogliazioni di quelle orde in cerca di preda, e la stessa sorte toccò probabilmente alle altre città della Julia Augusta entro terra, Tortona, Acqui ed anche Libarna che era a poca distanza da quella via. Ma il fatto che ha maggiori conseguenze per la storia di Genova è la rapida decadenza di Milano determinata dal fatto che l’imperatore, minacciato da tutte queste invasioni, e dall’agitarsi dei partiti in Milano, s’indusse a trasferire nel 402 la capitale a Ravenna. Un altro fatto importante che pare si sia compiuto dopo il 402 è la formazione di una provincia detta Liguria Marittima e poi impropriamente Alpes Cottiae. Questa nuova Provincia pare comprendesse tutto il littorale dal Varo alla Magra, come l’antica Liguria Augustea ed a tramontana soltanto le città che sono alle radici dell’Appennino, Casteggio, Voghera, Tortona, Libarna, Acqui, Alba, Benevagienna e Ceva. Genova sarebbe stato il capoluogo di questa provincia, che veniva ad essere incardinata sulla via Julia Augusta e sulla Postumia, ed aveva evidentemente lo scopo di organizzare la difesa su queste due strade, ed arrestare possibilmente le avanzate barbariche. Se le guarnigioni di Sarmati furon poste a Tortona, ad Acqui, come attestano le lapidi riferite nel Corpus, più a ragione devono essere State poste a Genova, a Vado, a Ventimiglia, punti strategici della nuova provincia. D’altra parte, se una stazione militare esisteva a Genova da tempo antico, sarebbe assurdo il pensare che essa non funzionasse nel momento in cui si organizzava la difesa sul nostro littorale.
Il trasporto della capitale a Ravenna deve aver avuto conseguenze disastrose per Genova come città commerciale. Si disse finora che la storia di Genova non esiste in questi secoli, e che è un sognatore chi tenta di ricomporla. Io appartengo a questa categoria, convinto che se esistono delle grandi lacune, queste sono a un dipresso le stesse che esistono per la storia di tutta l’alta Italia nell’ età barbarica; eppure il Cabotto la va mirabilmente ricomponendo (1). Certamente chi intende per storia notizie specifiche di uomini e di fatti locali poco può raccogliere. Ma lo stato generale d’Italia in quel tempo è noto, come son note le scorrerie dei barbari, e i rivolgimenti più importanti da esse prodotti. Lo studioso di storia genovese deve tendere l’orecchio a tutto quello che avviene all’intorno, spiare da una parte ciò che avviene di là dai monti, dall’altra ciò che avviene sulle sponde del Mediterraneo, e negli avvenimenti che si incrociano da mare e da terra troverà gli elementi per stabilire quale fu la sorte di Genova. La mancanza di notizie locali è sintomatica. Ogni manifestazione di vita civile si arresta, e per necessaria conseguenza si dilegua la grandezza civile e commerciale di Genova.
Fra il 425 e il 450 due sono le correnti barbariche che agiscono alla distruzione d’Italia, Attila e gli Unni da terra, Genserico e i Vandali dal mare. Genova risentì, benché indirettamente, di queste due calamità.
Morto Onorio (421), morto il suo collega Costanzo (423), rimasto l’impero d’occidente a Valentiniano III sotto la continuata tutela della madre, la famosa Galla Placidia, capitale Ravenna, l’impero parve alquanto rassicurato dal- l’abilità di due generali, Bonifazio ed Ezio, che tenevano fronte ai barbari, o meglio negoziavano con essi, l’uno in Africa, l’altro in Italia. Ma nel 451 Attila a capo di un grande esercito barbarico passa il Reno e invade la Gallia. Sconfitto a Chàlons sur Marne dal generale Ezio, si riversa sull’Italia e nel 452 assedia Aquileia e la distrugge. Poi fa scempio di Altino, Concordia, Padova, e per la via di Verona s’incammina a Milano, e lancia le sue orde sulle belle città dell’Emilia. Tortona e Libarna furono probabilmente comprese nel nuovo eccidio.
«Confortatori, soccorritori, ristoratori, prima e durante e dopo la bufera dell’invasioni, i vescovi e la Chiesa rappresentano l’energia più rigorosa e più simpatica nello sfacelo di tutte le forze della vita pubblica, presente ed agente quando ogni altra vien meno. Ed i popoli sotto l’incubo della calamità o nella fresca memoria di essa, guardano a loro colla tensione dolorosa e col mesto sorriso delle anime oppresse, e ne ascoltano i moniti, e sempre più ne invocano con intenso fervore l’opera di protezione e di aiuto.» Così scrive il Cabotto nell’opera citata.
Splendida figura quella del papa Leone, che si presenta al campo di Attila. Nulla si sa del colloquio avvenuto sulle rive del Mincio presso Peschiera. Ma nelle memorie degli Italiani restò profondamente impresso l’atto solenne del capo della Chiesa, che traversa l’immensa orda barbarica allineata sulle vie e sui prati. Erano trecento mila uomini, che avevano seminato per tutto lo spavento. Feroci e ributtanti all’aspetto, visi torvi e deformi, cogli occhi incavati, le guancie giallastre, imberbi e oscenamente sconciate, portavano con sè traini infiniti di donne e bambini, di prede stipate nei carri zingareschi. Da quel giorno, si formò la convinzione dell’impotenza del potere civile, e dell’onnipotenza dell’idea, rappresentata dalla Chiesa.
Ma il danno maggiore in questo secolo V venne all’Italia dal mare. I Vandali dopo aver devastato la Francia e la Spagna erano passati in Africa portando lo sterminio in quella provincia, che, colonizzata dagli italici, era diventata la più fertile delle provincie italiane, tanto da essere chiamata il granaio d’Italia. Siciliani, Sardi, Italiani di ogni regione avevano laggiù i loro commerci e vasti possedimenti. Tutto fu manomesso. In poco volger d’anni i Vandali erano padroni della Sicilia e miravano all’Italia. Nel 455 dopo varie scorrerie nell’Italia meridionale, si spinsero contro Roma, che ebbe a soffrire un orribile saccheggio (455). Molti cittadini fatti schiavi furono condotti in Africa, dove emerse la carità eroica del Vescovo di Cartagine, unico grande in mezzo a tanta sventura.
Nell’eccidio di Roma furono risparmiate dall’incendio le chiese cristiane, che divennero l’asilo di tutti i derelitti rimasti. L’antica Roma è caduta, dice il Villari, e la nuova già comincia a sorgere facendo prova di una grandezza diversa ma non meno ammirabile.
Della invasione dei Vandali come di quella di Attila, nessuna memoria in Genova. Ma i fatti ora accennati ci portano ad una serie di deduzioni logiche, che sostituiscono in buona parte i documenti.
La rovina dell’Africa fu certamente un colpo mortale per il commercio e la navigazione genovese, che aveva relazioni attivissime colla costa Africana. Inoltre la perdita dell’Africa significava mancanza di grani e carestia. Bisogna interrogare i grandi volumi del Mommsen, pensare che cosa vogliono dire le infinite lapidi da lui verificate nel suolo Africano, quando ancora si trovava nello stato di barbarie mussulmana, per capire quale immenso tesoro di civiltà fu sepolto in Africa coll’invasione dei Vandali, a cui subentrò quella degli Arabi e dei turchi.
L’invasione dei Vandali non fu mai misurata in tutta la sua estensione, in tutta la sua gravità, e se non erro, Genova ci si presenta come il miglior punto di osservazione a questo riguardo. Infatti, quando l’uragano dei Vandali traversò la Francia e la Spagna, Genova incominciò a sentire i primi gridi di dolore dai fuggiaschi che approdavano ai suoi lidi. …
L’emigrazione crebbe quando tutta l’Africa fu in preda ai Vandali. La grande sciagura ebbe una immensa ripercussione sui nostri lidi. Gli abitanti dell’Africa che erano per molta parte Siciliani, Napoletani e Liguri, tesero spaventati le braccia verso la madre patria antica. … Ma chi sa quante migliaia di derelitti pellegrinarono e morirono lungo la via littoranea! quanti che superati gli stenti della fuga trovarono in Genova e nelle riviere il conforto di una ospitalità fraterna! Chi non sente in mezzo a tutto questo turbinar di sventure il mutamento di Genova? Il grande e prospero mercato non è più possibile, perchè l’onda barbarica incalza da ogni parte; non è più questione di arricchirsi ma di salvarsi dal più terribile dei nemici, la fame.
Il sorgere di tanti romitaggi, di gente che va ad abitare sugli scogli o sale per le gole dei monti, e si adatta a vivere di erbe e di ghiande non è un fenomeno religioso soltanto, ma la conseguenza del dissolversi di ogni consorzio civile. Come le nostre isolette diventano nidi di profughi, così in mezzo alla laguna dell’Adriatico i derelitti d’Aquileia innalzano le loro capanne ‘ di falasco, non sognando che quelle isolette dette « venetiae » che essi avevano scelto per temporaneo rifugio, si chiameranno un giorno «la grande e bella Venezia».
Da Napoli, da Roma pare che sia stato attivissimo l’esodo verso Genova, che si riteneva in quel tempo come un rifugio tranquillo in fondo al mare ligustico. Così Genova cominciò ad esercitare quella missione di ospitalità, che è uno dei più grandi titoli che ha verso l’Italia. Genova che era nata come città dei forestieri, diventa ora il rifugio di tutte le sventure italiche.
Non è a credere però che in quei momenti calamitosi cessasse del tutto l’attività dei Genovesi. Gente «assueta malis», tenace e resistente al pericolo come alla sventura, essi trovarono probabilmente in quella gran massa di emigrati, che avevano cercato rifugio in Genova, l’occasione di giovare ad altri ed a se stessi. Tra i forestieri predominavano certamente persone di gran conto, che non si acquetavano all’esiglio, ma avevano bisogno di notizie, di comunicazioni, di noleggi per Roma, per l’Africa, per Costantinopoli. Le navi Genovesi dovevano essere sempre in moto. Diventando le strade terrestri sempre più impraticabili e rischiose, altrettanto dovevano essere ricercati i trasporti per via di mare. Procopio che scrisse la storia di quei tempi, ricorda una volta Genova e la definisce, una stazione importante nella navigazione degli Ispani e dei Galli (2). Non una parola che accenni all’emporio.
Dura per tutta la seconda metà del secolo V il profondo sconcerto. L’impero occidentale più non esiste che di nome. Un barbaro Ricimero spadroneggia in Italia per 17 anni a capo di un esercito raccogliticcio, formato per là maggior parte di barbari. Egli nomina imperatori a suo talento, prima Avito (455), che poi fa arrestare, obbligandolo a farsi prete (456) poi Maiorano (457) che fa uccidere dai suoi presso Tortona (461) poi Libio Severo (461-465), poi Antemio eletto nel 465, ucciso nel 472. Combatte contro i Vandali ma infelicemente, perchè più che il pensiero del nemico prevalsero le rivalità e le ambizioni personali dei generali d’Oriente e di quelli d’occidente.
Succede a Ricimero un altro generale barbarico, Oreste, che fa proclamare imperatore un suo figlio minorenne, che per ironia si chiamava Romolo Augusto (475). Con questa larva finisce definitivamente l’Impero. I barbari che formavano l’esercito di Oreste, accortisi oramai di essere i veri padroni d’Italia, chiesero il terzo delle terre come era stato loro concesso in tante altre parti dell’impero, e non avendolo ottenuto si ribellarono, e levarono sugli scudi Odoacre uno dei loro (476). Questi inseguì Oreste in Pavia, pose a sacco la città. Non osò prendere il titolo nè di imperatore nè di re d’Italia, e più pratico si contentò di impossessarsi del bel paese e di chiamarsi re delle sue genti. Ottenne dall’Imperatore di Costantinopoli il titolo di patrizio, e in tale qualità assunse il governo d’Italia. La Provenza era passata ai Visigoti. Sicilia, Sardegna e Corsica erano in mano dei Vandali.
L’alta Italia si immiserisce sempre più colla assegnazione di un terzo delle terre ai barbari. Il sacco di Pavia determina certamente nuove emigrazioni in Genova.
Nel 489 entra in scena Teodorico re degli Ostrogoti, mandato dall’imperatore di Costantinopoli a combattere Odoacre «ad defendendam Italiam ». Egli scende per la gran via aperta a tutti i barbari, vince Odoacre sull’Isonzo, poi sotto Verona, lo assedia in Ravenna finché nel 493 conquista la città e ne fa la sua capitale.

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V secolo

Autori Vari

 410 d.C. Alarico passa da Genova per andare a saccheggiare Roma. (Zunino G., www.vegiazena.it)

412 d.C. Ataulfo. Ataulfo, re dei Goti, andando verso la Gallia passa per la Liguria distruggendo Albenga e Ventimiglia. (Zunino G., www.vegiazena.it)

417 d.C. Rutilio Namaziano, il poeta e uomo politico (prefetto dell’Urbe nel 414 d.C.), imbarcatosi nel 417 d.C. a Portus Augusti per far ritorno in Gallia, la sua terra d’origine, descrive il viaggio dalla foce del Tevere. Purtroppo della parte perduta del racconto, relativa al tragitto oltre Luna, restano soltanto pochi frammenti di incerta interpretazione ed anche di dubbia connessione fra loro (scoperti di recente in un codice cinquecentesco del monastero di Bobbio, della fine del VII o dell’inizio dell’VIII secolo): si allude qui ad una città ligure senza nome, proiettata nel lampo di subitanee immagini (il frumento riposto, gli horrea ben protetti, i fieri venti, i soldati nei ligustici quartieri d’inverno forse distaccati da Mediolanum, il fuoco che si innalza nell’aria, l’orcio di vino, un amico illustre di nome Marcellino insignito di alti onori…). La città così descritta si trovava dopo Luna, prima o dopo Albingaunum, e potrebbe trattarsi perciò o di Genua o di Vada Sabatia oppure di Portus Maurici (l’odierna Porto Maurizio) o di Portus Herculis Monoeci (l’odierna Monaco) o di altri porti ancora, anche se piacerebbe riconoscervi Genua. (Angeli Bertinelli M.G., L’epoca romana imperiale e tardoantica, in Borzani L. Pistarino G. Ragazzi F., Storia illustrata di Genova, Elio Sellino Periodici, 1993)

431 d. C. Presbiteri genovesi: Camillo e Teodoro. Prospero d’Aquitania risponde, nell’opera dal significativo titolo Pro Augustino responsiones ad excerpta Genuensia, alle richieste dei presbiteri genovesi Camillo e Teodoro, per spiegare loro i passi degli scritti di Agostino. (Angeli Bertinelli M.G., L’epoca romana imperiale e tardoantica, in Borzani L. Pistarino G. Ragazzi F., Storia illustrata di Genova, Elio Sellino Periodici, 1993)

444 o 493 d.C. Epigrafe sepolcrale. Si data inoltre al 444 o al 493 d.C. l’epigrafe sepolcrale, incisa su una lastra marmorea proveniente piuttosto che dalla badia di Santo Stefano probabilmente dall’area della cattedrale di San Lorenzo (ove è tuttora affissa alla parete della cappella dell’Assunta), che commemora con più scoperto formulario, corredato dai simboli grafici cristiani, il suddiacono Sanctulus di buona memoria, che visse in pace più o meno ottant’anni e fu deposto il 26 aprile dell’anno del consolato di Albino v(ir) c(larissimus). (Angeli Bertinelli M.G., L’epoca romana imperiale e tardoantica,in Borzani L. Pistarino G. Ragazzi F., Storia illustrata di Genova, Elio Sellino Periodici, 1993) [fare foto]

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LE PROVINCIE DELLE ALPI APPENNINE E COZIE:
LE INVASIONI E LE GUERRE VANDALICA E GOTICA
(421-569)

Fiorentini Ubaldo, Genova nel basso impero e nell’alto medioevo, in Storia di Genova dalle origini al nostro tempo, vol. II, Garzanti, Milano, 1941.

Alpes Apenninae
Nei primi decenni del secolo V si verifica un improvviso profondo mutamento nello stato politico di Genova; la città, con le due Riviere e con alcuni municipi limitrofi d’Oltregiogo, viene separata ufficialmente dalla Liguria ed entra a far parte d’un nuovo organismo provinciale che prende il nome di Alpes Apenninae. Quest’istituzione è connessa con un contemporaneo rimaneggiamento della vecchia provincia delle Alpes Cottiae che, già nel sistema dioclezianeo-costantiniano, aveva guadagnato terreno di qua e di là dalle Alpi ed ora assorbiva, in limiti imprecisabili, nella valle occidentale del Po, altri municipi appartenenti alla Provincia Liguriae.
La notizia di questo eccezionale rivolgimento amministrativo, scompaginante il tradizionale assetto dell’alta e media Italia, si ha da un catalogo venuto a noi in diverse redazioni il quale elenca, accanto alle vecchie provincie, la nuova delle Alpi Appennine; un manoscritto di Spira indica espressamente la posizione in quest’ultima della città di Genova: Alpes Apenninae in quibus Genua (Procopio, Guerra Gotica). Riguardo alla data, il catalogo è da posporsi alla Notizia dignitatum utriusque imperi, la cui redazione si assegna concordemente alla fine del secolo VI, giacché in questo documento la provincia appenninica non è ancora nominata.
I confini della provincia si desumono dal breve trattato geografico contenuto nella storia dei Longobardi di Paolo Diacono, tenendo presente che, nel descrivere l’ordinamento regionale d’Italia, lo scrittore non ha in nessun modo avuto presente la ripartizione amministrativa del regno longobardo, alla sua età, come molti hanno inteso (basterà osservare che il termine provincia è assolutamente estraneo alla nomenclatura amministrativa del Regno e che in nessun modo le provincie di Paolo corrispondono ai confini di ducati, o judiciariae longobarde), ma ha utilizzato testi e documenti dell’anteriore età bizantina, come vedremo infine.
Nel sistema di Paolo Diacono, confermato da due consoni cataloghi similmente redatti in età longobarda, la nona provincia d’Italia Alpium Apenninarum incomincia là dove finisce l’ottava Alpium Cottiarum, e cioè sugli antichi confini fra i municipi di Libarna e Velleia, nel versante padano, di Genova e Luni, nel versante tirrenico, e procede per mediani Italiani lungo la catena dell’Appennino, separando la Tuscia dall’Emilia.

La Liguria Marittima sofferse la sua prima invasione barbarica nel 401, con la seconda calata di Alarico in Italia attraverso le Alpi Giulie. Dopo aver percorso la Venezia, la Liguria, l’Emilia, depredando le campagne e le città, salvo quelle munite di solidi apprestamenti difensivi come Pavia, o Milano, entro le cui mura riparò l’Imperatore, il condottiero dei Visigoti, avviandosi a Roma, aveva già superato l’Appennino ed era sceso in Toscana, quando gli giunse notizia che un esercito adunato da Stilicone lo minacciava alle spalle; fulmineamente Alarico invertì la marcia dirigendosi verso la Gallia. Le fonti ricordano soltanto, a proposito del fallace vaticinio che gli aveva promesso la conquista di Roma, il passaggio compiuto dal re del fiume miri cognominis Urbem, cioè dell’Orba; questa sola indicazione topografica riesce tuttavia a stabilire con sufficiente certezza che le schiere dei Visigoti batterono, nella loro veloce marcia della Toscana alla valle occidentale del Po, dove dovevano subire la disfatta di Pollenzo, le strade dell’Appennino e della Riviera Ligure. È assai probabile che la città di Luni incontrasse durante questa marcia la sua prima rovina, attestata dalla devastazione della Curia, sui cui avanzi fu costruita, nel secolo V, la cattedrale di Santa Maria; se pure nessun ricordo storico o leggendario commemora nel medesimo tempo una depredazione di Genova e dei suoi dintorni, vive la tradizione di una parziale o totale distruzione di Albenga compiuta, prima o dopo la battaglia di Pollenzo, dal corpo principale o da qualche nucleo sbandato di visigoti. Di nuovo la linea dell’Appennino ligure-toscano fu violata da Radagaiso, venuto dal confine retico attraverso la Liguria Padana e l’Emilia, sconfitto alle porte di Firenze e giustiziato da Stilicone nel 406, senza che forse la Liguria marittima avesse subito depredazioni e rovine oltre il territorio dell’estrema Riviera Orientale. In quest’anno medesimo avveniva la grande invasione della Gallia per cui lo stesso confine alpino fra la Gallia e l’Italia diveniva pericoloso.
A questo punto possiamo intendere in tutto il suo significato e valore la notizia contenuta in una lapide di Albenga ricordante una restaurazione della città compiuta da Costanzo (Albenga, lapide di Costanzo, circa 412), personaggio variamente identificato, ma nel quale dobbiamo riconoscere il grande generale di Onorio che fu poi il marito di Galla Placidia e per breve tempo augusto nel 421. L’iscrizione, in qualche punto oscura, connette l’opera edilizia di Costanzo con un provvedimento amministrativo riguardante la Liguria nella più ampia estensione del termine a cui allude con l’espressione constituit ligures; la quale frase, secondo una geniale intuizione del Gabotto, deve riferirsi alla istituzione della provincia Alpes Apenninae e conseguentemente alla contemporanea nuova sistemazione delle Alpes Cottiae.

Tuscia e Liguria nella guerra marittima
Il nuovo sistema provinciale dell’età onoriana sorto in casi di estrema necessità fu soggetto a rapidi e continui mutamenti secondo rincalzare degli eventi, nel tramonto dell’Impero.
In una data anteriore al 458, fu spostato il confine dioclezianeo-costantiniano fra le due diocesi civili dell’Italia superiore e medio-inferiore con l’aggregare alla prima sette municipi della Tuscia settentrionale, Arezzo, Firenze, Pistoia, Lucca, Pisa, Volterra, Luni i quali formarono una provincia separata col nome di Tuscia Annonaria, la quale nuova circoscrizione venne a trovarsi nei più stretti rapporti territoriali con la provincia Alpium Apenninarum; quest’ultima infatti, in tutto il suo lungo tragitto per mediam Italiam, si componeva di numerosi frammenti di municipi toscani. In questa situazione, in una data imprecisabile, dovette avverarsi un particolare collegamento amministrativo fra le due provincie, espressamente documentato soltanto da due tarde notizie di Procopio, ma di cui possiamo stabilire, con criteri di storiografia generale, i motivi e l’occasione.
Dice Procopio, nel parlare di Genova, a proposito dello sbarco ivi avvenuto delle forze bizantine, nel 538, che questa città era l’estrema della Tuscia; in altro luogo, delineando in termini generali i confini delle provincie settentrionali, pone sulla sinistra del Po la Liguria e sulla destra la Tuscia e l’Emilia. Le due notizie collimano ed è opera vana vessare il secondo brano con tentativi di emendamenti o supplimenti, quando rimane inequivocabile la prima affermazione. Infatti, lo storico bizantino descrive esattamente l’ordinamento provinciale della Val Padana secondo la terminazione ufficiale del regno gotico che era poi quella romana della fine dell’Impero; a questa età, la Liguria, separata, nel 397, dall’Emilia e mutilata, circa il 414, per dar luogo alla provincia delle Alpes Apenninae, si trovava realmente, per la sua massima estensione, sulla riva sinistra del Po e la Tuscia doveva giungere sulla riva sinistra del fiume se in essa era situata Genova, questa città, necessariamente, unita a tutto il territorio di cui era il capoluogo ; in altri termini, il senso delle parole di Procopio è che la provincia da noi conosciuta col nome di Alpes Apenninae e che egli mai ricorda con questo nome, mentre gli sono note tutte le provincie dell’Italia superiore, si trovava unita, nella prima metà del secolo VI, alla Tuscia.

La ragione storica di questi avvenimenti amministrativi è il riaprirsi, dopo molti secoli, della guerra marittima nel Tirreno per opera dei Vandali conquistatori dell’Africa, verso il 440, quando Genserico assalì e depredò la Sicilia, spingendo poi le sue scorrerie navali su tutte le coste dell’Italia inferiore e media e, certo, anche nell’alto Tirreno; in termini generali, una costituzione di Valentiniano II dell’anno anzidetto allude ad una flotta vandalica partita da Cartagine cuius repentina excursus et fortuita depredatio cunctis est litoribus formidanda.
Così come poi, nel secolo IX, la Toscana e la Liguria furono unite nella marca carolingia dalla Tuscia allo scopo di formare, dalla Maremma toscana alla Provenza, un limes marittimo contro i Saraceni, l’eguale necessità, sulla metà del V secolo, portò ad una analoga unione con cui venivano organizzate, sotto un unico comando, le basi navali tosco-liguri; non casualmente, ma per una profonda ragione storica, le due istituzioni politico-militari del V e del IX secolo quasi esattamente coincidono nei loro confini. Così, nelle condizioni create dalla guerra vandalica, divenuta permanente, nonostante varie soste e alternative, fino presso alla riconquista giustinianea dell’Africa, nel 533, noi possiamo registrare, sebbene su scarsi indizi, la nascita della marina da guerra genovese ed insieme la nascita delle altre storiche marine liguri e toscane che dovevano divenire, molti secoli dopo, sue ausiliarie, o rivali.

Genova sulla fine dell’Impero e nei regni romano-barbarici
Dopo l’incursione di Alarico nel 401 ed il passaggio, per certo molesto, ma non deliberatamente ostile, delle orde gotiche condotte da Ataulfo in Gallia, nel 410, la Liguria Marittima rimase pressoché immune dalle invasioni succedutesi nell’Italia Superiore nel secolo V. Infatti, sebbene le nostre storie regionali registrino solitamente molte incursioni su Genova e sulla Riviera, equivocando sul termine Liguria usato dalle fonti nel significato proprio del secolo V e VI, deve ritenersi che, né la grande irruzione di Attila nel 452, né le tante scorrerie che desolarono prima e poi a più riprese la valle padana abbiano mai superato l’Appennino sui confini della Riviera Ligure; prima della spedizione di Rotari nel secolo VII, Genova non subì che un’improvvisa razzìa dei Franchi nel 539.
In questa relativa pace — non turbata neppure dalle guerre civili della fine dell’Impero e dagli scontri fra le forze di Odoacre e Teodorico — nonostante le restrizioni portate al commercio marittimo dalla permanente guerra navale, Genova non perdette la posizione acquistata nel secolo precedente. Scarsissime sono le notizie che abbiamo della sua vita interna. Di un solo vescovo ci è dato il nome, Pascasio assistente con altri vescovi della Liguria alla sinodo milanese del 451 contro i monofisiti; incerta è l’appartenenza a Genova del vescovo Eusebio nel 465. Il questionario inviato fra il 435 e il 438 dai preti genovesi Camillo e Teodoro a Prospero d’Aquitania, il grande propagatore e difensore del pensiero agostiniano, implicando manifestamente un dubbio sulla dottrina della grazia e della predestinazione, induce a pensare che contemporaneamente fosse giunta a Genova, per la vecchia via arelatense, attraverso la propagazione del monachesimo gallico, anche la opposta corrente del pensiero religioso che partiva dai focolai di Marsiglia e di Lérins. A questo riguardo, è da domandarsi quando sia avvenuto lo stabilimento nel suburbium genovese dei Vittorini di Marsiglia, dai più connesso, erroneamente, a mio avviso, con la cessione fatta dal vescovo Giovanni, nel 1008, ai Benedettini della chiesa dei Santi Vittore e Savina anteriormente devastata dai Saraceni; in realtà, i monaci marsigliesi ebbero un proprio cenobio ed una propria chiesa, dedicata al loro santo titolare (diverso, sebbene poi confuso con l’omonimo Martire milanese), in Prè, della quale la prima notizia è del 1095; però, nella demolizione della chiesa stessa, avvenuta durante la costruzione di via Carlo Alberto, fu scoperto e per pochi giorni rimase alla luce un edificio sottostante alla chiesa medioevale, attribuito dagli osservatori, variamente, alla età longobarda, o ai primi secoli della Chiesa. Questi giudizi, sebbene non possano darci una indicazione sicura sull’età della fondazione marsigliese a Prè, non essendo corredati da nessun dato icnografico e stilistico, lasciano adito, tuttavia, alla supposizione che la propagazione del monachesimo gallo-romano sia avvenuta a Genova, come sembra anche nella Riviera di Ponente, nel periodo stesso delle sue origini.
Nel V secolo, furono generalmente concessi ai vescovi dall’autorità imperiale e destinati al culto disusati edifici pagani; si può supporre pertanto che alcune chiese di città le quali presentano, nelle loro ricostruzioni romaniche rimaste a noi visibili, elementi classici di spoglio siano sorte in questa epoca; tali la chiesa concattedrale urbana di S. Maria in Castello, quelle di S. Cosma e di S. Donato che, insieme alla forse più antica basilica di S. Nazario, formarono i cardini dell’officiatura religiosa entro il circuito delle mura, in relazione probabile con l’antica divisione per quartieri della città romana.
La Liguria marittima entrò, nel 475, nel regno barbarico senza subire nessun mutamento nel suo stato amministrativo. Nel nuovo assetto politico, la organizzazione della vita cittadina rimase pressoché intatta; un funzionario appartenente alla comitiva secundi ordinis, apparso già a Torino nel 514, continuò a reggere le curie; l’ufficio fu però di regola affidato a funzionari di nazionalità barbarica. Un profondo sovvertimento avvenne per contro nello stato delle campangne, in conseguenza delle assegnazioni del terzo delle proprietà romane fatte ai federati di Odoacre e poscia agli Ostrogoti. L’insediarsi dei nuovi proprietari in luoghi fortificati, imposto dalla necessità in cui si trovarono i guerrieri goti di porre in condizioni di sicurezza le loro famiglie e i loro beni durante il loro servizio nell’esercito, scompose le forme classiche dello stanziamento agricolo; il castello cominciò a divenire il centro topografico e giuridico dei pagi, acquistando così la campagna la sua caratteristica facies medievale. Non appare però che le distribuzioni di terre abbiano profondamente turbato il contado genovese e la Riviera Ligure dove, ancora nel secolo IX, permangono forme caratteristiche dell’economia rurale romana e preromana; esse invece investirono in pieno la Liguria propriamente detta, l’area padana delle Alpes Apenninae, dove Tortona divenne nel VI secolo una cittadella gotica, le Alpi Cozie, dove, tuttavia, per un singolare destino, l’elemento barbarico stanziato doveva apparire uno strenuo difensore della romanità.
Le condizioni di Genova nel regno di Teodorico ci sono indiziariamente testimoniate dal rifiorimento della vecchia colonia giudaica, indice del rinnovato flusso della moneta nell’emporium ligure; del resto, le fonti indicano in pari tempo un risveglio della vita urbana milanese; mai la capitale fu più popolata, più attiva nei commerci e nel foro, più politicante e gaudente. Alle città dell’Italia Occidentale, ed in modo particolare a Genova fu economicamente favorevole la conquista della Gallia Meridionale compiuta da Teodorico con le sue spedizioni contro i Borgognoni e i Franchi; la prima, nel 508, attraverso la Liguria Marittima su Marsiglia, la seconda, nel 509, attraverso le Alpi Cozie, sboccata vittoriosamente ad Arles e a Narbona. Fu questa una vera riconquista romana della Gallia compiuta dal re goto, sebbene ottenuta contro gli alleati dell’imperatore d’Oriente: conquistata la Narbonese, Teodorico prosegui la sua campagna nella Spagna di cui ottenne l’effettivo governo quale tutore del giovane Amalrico; così, sotto il duplice regno gotico d’Italia e d’Iberia, riebbe una parziale restaurazione l’Impero Romano d’Occidente; in buona fede, il monarca si appropria, ora, il titolo d’augustus e si proclama custos libertatis et propagator romani nominis.
In questa rinnovata unità e relativa pace del mondo occidentale, Genova riacquistò la funzione intermediaria che aveva assunto nel IV secolo; si ristabilivano tutte le comunicazioni de Italia in Gallias e de Italia in Hispanias elencate nell’Itinerario Antoniniano; Procopio, il quale descrive le condizioni d’Italia sulla fine del Regno Gotico, nota la predominante funzione del porto di Genova in rapporto con la Gallia e l’Iberia. Nel 526, l’anno stesso della morte di Teodorico, Genova e le città marittime tosco-liguri furono associate all’ultimo tentativo fatto dal Re per ricostituire la marina da guerra italiana, di fronte ad una nuova minaccia dei Vandali in questa occasione alleati dell’imperatore Giustino.
Dopo la morte di Teodorico, nel declino rapido del regno gotico, si fortificò a Genova il partito bizantino, sostenuto dalla Chiesa Ambrosiana, sollecitante la fine della monarchia eretica e la riunificazione dell’Impero sotto l’Augusto d’Oriente. Il vescovo milanese Dazio, recatosi ambasciatore dei liguri a Belisario, parlò a nome di tutte le città della Liguria, delle Alpes Apenninae, della Tuscia Annonaria che riconoscevano al momento, nell’ordine religioso, la sua supremazia; come liberatore fu accolto a Genova, nella primavera del 538, il piccolo esercito spedito da Belisario.

L’occupazione bizantina della Marittima: Genova nelle Alpes Cottiae
Sulla fine del 536, gli Ostrogoti ritiravano il loro presidio da Roma e Belisario entrava nella città. I politici liguri, alla cui testa stavano uomini che avevano ricoperto grandi cariche nell’amministrazione del regno gotico, acquistarono da questo momento una grande influenza fra i consiglieri del duce bizantino e presero una parte attiva negli avvenimenti diplomatici e militari che seguirono. Il milanese Fidelio Felice, già questore di Atalarico, era stato l’ambasciatore inviato dai Romani a Belisario; ne aveva ricevuto, in ricompensa, la suprema carica di praefectus Italiae con la promessa, forse, che la sede di quest’ufficio sarebbe stata ristabilita nella metropoli ligure. Durante il poderoso assedio posto da Vitige, con tutte le forze del suo popolo, alla Città Eterna, nel 537, il partito imperiale deponeva il papa Silverio, eletto non regolarmente, nel 536, col patrocinio del re Teodato, e perciò sospettato di favorire una resa della città, e poneva in suo luogo Vigilio, appartenente ad una famiglia di grandi funzionari, forse ligure di nascita, comunque legato ai partiti politici dell’Italia superiore. Non appena avvenuta l’elezione del nuovo Papa, infatti, il fratello di questi, Reparato, ed il patritius Bergantino, invano colpiti da una sentenza di morte e ricercati da Vitige, fuggono da Ravenna e riparano a Milano dove promuovono una sollevazione. Il fatto che il movimento si sia potuto svolgere palesemente, con l’intervento della Chiesa e sotto la guida dello stesso metropolita, dimostra che le autorità del regno perdettero immantinente il controllo della città e forse dell’intera Liguria; il che si spiega, tenendo presente che i guerrierigoti erano stati convocati in massa all’assedio di Roma e che la popolazione ligure era unanimemente aderente al partito imperiale; i funzionari e i pochi fra i goti che non erano stati chiamati alle armi si raccolsero affrettatamente, con le loro famiglie ed i loro beni, nella ben munita Pavia. Nel dicembre del 538, il vescovo milanese Dazio, attraverso le linee nemiche, entrò in Roma per invitare Belisario ad occupare ufficialmente, a nome dell’Augusto d’Oriente, la Liguria e le Alpes Apenninae riunitesi per loro propria volontà all’Impero.
Nel marzo, allorché Vitige tolse l’assedio alla capitale ed il centro delle operazioni guerresche si trasferì, sul littorale adriatico, intorno a Rimini, la spedizione nell’Alta Italia potè avviarsi in condizioni favorevoli. Un piccolo corpo di isaurici e traci con un manipolo scelto di truppe palatine, al comando di Mundila, fu mandato per mare a Genova; li accompagnava il prefetto Fidelio Felice per ristabilire il suo ufficio a Milano. Sbarcato a Genova, il corpo di spedizione marciò su Pavia, dopo aver passato il Po su barche trasportate mediante carriaggi da Genova; sotto la città, avvenne uno scontro con forze gotiche uscite dalle mura le quali non ressero all’urto; però, Fidelio, attardatosi in una chiesa suburhana, quando i suoi avevano già ripreso la marcia, fu sorpreso e cadde. Mundila entrò senz’altra opposizione a Milano dove il fratello del Papa, Reparato, assunse l’ufficio di praefectus Italiae.
La riscossa gotica fu favorita dalla improvvisa calata in Italia di 10.000 borgognoni, spediti dal re dei Franchi Teodeberto; unitisi i borgognoni alle schiere raccolte intorno a Pavia da Uraja, nepote e luogotenente del re Vitige, l’orda mosse all’assedio di Milano la cui guarnigione era ridotta a 300 soldati, giacche numerose frazioni del piccolo corpo di spedizione erano state mandate a presidiare diverse città della Liguria.
Dissidi fra Belisario e Narsete, impegnati con le loro forze nel Piceno e nell’Emilia, impedirono all’esercito imperiale di soccorrere la città assediata; due corpi spediti successivamente dall’Emilia raggiunsero le vicinanze di Milano ma non osarono, o non seppero agire. … Conquistata Milano, i Goti rioccuparono tutta la Liguria Transpadana; non però la Cispadana e la Marittima, poiché Belisario, nonostante il momentaneo disordine verificatosi nelle schiere bizantine, sollecitamente provvide a rinviare su Tortona uno dei corpi di spedizione che invano avevano tentato di soccorrere Milano. In collegamento coi presidi delle città dell’Emilia conquistate dalle truppe di Narsete, questo corpo protesse validamente l’accesso principale, dalla valle del Po, alla Liguria Marittima e salvò Genova.

La provincia delle Alpi Cozie s’era forse ingrandita verso i territori contigui della Liguria al tempo della rivolta; dopo la riscossa gotica Sisinnio manteneva il suo stato semiautonomo, col titolo di magister militum, sotto la sovranità dell’imperatore. Dobbiamo credere che Genova e, con essa, gli altri municipi della Riviera minacciati dalla riconquista di Totila si siano spontaneamente riuniti alla provincia di Sisinnio la quale, serbando il titolo ufficiale di provincia imperiale, godeva in proprio la protezione del Regno Franco. Non altrimenti si giustifica la menzione di Genova e di altre città delle Alpes Apenninae nella provincia delle Alpi Cozie, in Paolo Diacono e negli altri cataloghi derivati da una medesima fonte. Possiamo, ora, far punto sulla controversia erudita vertente su questi testi: poiché certamente la provincia Alpes Cottiae fu mantenuta nei suoi nuovi confini dai Bizantini, dopo la totale riconquista dell’Italia compiuta da Narsete, è chiaro che la fonte di Paolo fu un documento ufficiale di questa età.
Il periodo nel quale Genova rimase nelle Alpi Cozie fu dunque assai breve; non più di un quarto di secolo; ma l’avvenimento assume una importanza veramente fondamentale nella storia di Genova, giacché proprio la linea delle Alpi Cozie, saldatasi con un tratto delle Alpi Appennine, presidiata da Goti e Romani, precostituì il primo riparo della Liguria imperiale nell’imminenza dell’invasione longobarda.

L’Arte in Liguria alla fine del mondo antico
La scultura genovese fra il III e il IV secolo, rappresentata dai sarcofagi della necropoli di San Lorenzo, fatta eccezione per i due sarcofagi a colonnette, del tipo di Sidamara, i quali formano evidentemente un gruppo a parte, presenta caratteri uniformi, nella composizione, nei motivi, nell’esecuzione. Sono, i più, semplici sarcofagi strigilati, con una targa, o col ritratto clipeato del defunto accompagnati da pannelli rettangolari recanti figure allegoriche di significato pagano, o cristiano.

sarcofgo santa Maria di Castello
Sarcofago (attuale fonte battesimale) in Santa Maria di Castello

Il sarcofago di Santa Maria di Castello, coi due liberi gruppi simmetrici ai lati accennanti ad una scena a svolgimento continuo, il più antico della serie, a mio avviso, quello di Crisapheus, con un fregio d’impronta pompeiana, infine, il rilievo posto sulla facciata orientale del campanile di San Lorenzo, con l’apoteosi cristiana del defunto, sebbene rappresentino tipi diversi dai comuni, hanno con questi evidenti relazioni iconografiche e stilistiche, tutti mostrando il medesimo sentimento della forma e una tecnica del rilievo intesa a dissolventi effetti di luce.

Nell’insieme, i monumenti genovesi s’accomunano al tipo dei sarcofagi romani che, secondo un’opinione diffusa, ma rimasta pur sempre indimostrata, si ritengono prodotti ed esportati da laboratori della capitale; solo uno studio comparativo dei monumenti disseminati lungo il percorso della strada ab Urbe usque Arelatum (ne abbiamo, infatti, le più ricche collezioni a Pisa, a Genova, ad Arles) potrebbe risolvere in modo persuasivo questo problema. Frattanto, sembrami che una varietà provinciale genovese della scultura funeraria romana sia da ammettersi; non, forse, per la ragione addotta da alcuni che diversi sarcofagi del gruppo di San Lorenzo, recanti cartelle anepigrafe, sono da ritenersi non usati e perciò appartenenti ad un laboratorio e deposito locale, ché, probabilmente, queste targhe portarono iscrizioni dipinte, ma perché la classificazione cronologica dei monumenti mostra chiaramente una continuazione locale dei tipi da ritenersi più antichi e appartenenti artisticamente alla corrente impressionistica del III secolo. Questa prova ci è offerta dal sarcofago di Santo Stefano, uscito da un cimitero seriore rispetto alla vetustissima necropoli laurenziana. Il rilievo, mutilo, forse, ai lati, del duplice gruppo di Amore e Psiche, nella composizione generale è una copia semplificata del sarcofago del campanile di San Lorenzo; ma i due geni simmetrici, in volo orizzontale, anziché reggere il clipeo col ritratto realistico del giacente, sollevano qui i lembi del sudario, rivelando, nell’immagine diademata della defunta in atto di preghiera, l’anima nella beatitudine celeste. Ideogramma espressivo dell’apoteosi cristiana, significata nel modo ancora del tutto ermetico nel sarcofago di San Lorenzo, che l’artista traduce da un altro antico monumento locale, il sarcofago di Lamba d’Oria nella chiesa di San Matteo, dove la visione dell’anima rigenerata, in senso pagano, è espressa nello stesso linguaggio figurato con lo svolgimento del sudario accompagnato dalla rappresentazione di un oscuro rito misterico. La scultura di Santo Stefano attesta dunque una scuola elaborante forme e ideogrammi dell’arte locale in una età relativamente lontana da quella dei primitivi esemplari, giacché, in essa, mentre si fa palese uno scadimento della tecnica, si afferma una nuova veduta formale che porta ad incidere i contorni ed a tradurre in una espressione lineare gli effetti pittoreschi e chiaroscurali dei modelli, procedimento proprio della scultura in una età avanzata del secolo IV.
Come abbiamo notato, non trovasi a Genova alcun sarcofago decorato delle figurazioni e degli emblemi dell’arte trionfale del IV e V secolo, segno che l’arte paleocristiana genovese perdette il contatto con la scuola romana, senza allacciare alcuna relazione col nuovo centro artistico di Ravenna; in realtà, l’impiego dei sarcofagi figurati dovè cessare a Genova sulla fine del secolo IV o nei primi del V, allorché vennero in uso le disadorne arche sbozzate in pietra, sul tipo greco dei sarcofagi a tetto con acroteri angolari, delle quali abbiamo la più antica indicazione nei testi della leggenda di San Romolo, tipi testimoniati da ritrovamenti e scavi nelle due Riviere, così come in Provenza e particolarmente nel grande cimitero di Alyscamps che forse ne fornì il modello alla Liguria.
La mancanza d’ogni esemplare o frammento di sarcofagi scolpiti sia pagani che cristiani a Luni è un fatto sorprendente; ma le rovine della città furono spogliate in tempo molto remoto e forse questi elementi andarono ad arricchire il patrimonio archeologico delle vicine città toscane e specie di Pisa. Comunque, l’arte della tarda romanità è testimoniata a Luni da numerosi frammenti di scultura architettonica e statuaria e dagli avanzi della primitiva cattedrale.
La cattedrale di Luni fu eretta sui ruderi dell’antico edificio della Curia, a due metri di altezza sul piano di questa. La costruzione avvenne in seguito ad una devastazione generale degli edifici e monumenti della città. Infatti, nel riempimento fra il piano antico della Curia e quello della Cattedrale, si sono scavati numerosi e vari elementi indubbiamente estranei all’area del ritrovamento: lapidi e corredi funerari e frammenti fittili appartenenti ai più antichi templi tuscanici del III, o II secolo a. C. situati nella regione eccentrica del forum. La devastazione attestata da questo cumulo di materiali archeologici è da porsi in relazione con la marcia di Alarico, dalla Tuscia, in Liguria, nel 401, o con una probabile scorreria delle bande di Radagaiso nel 406, poiché, se la vita della Curia, secondo le testimonianze databili, sembrerebbe arrestarsi al 306-312 con una iscrizione dedicata a Massenzio, alcuni tronchi di statue denuncianti lo stile del IV secolo inoltrato la prolungano sino alla vigilia delle grandi invasioni. La chiesa è in pianta rettangolare, tricora, con una confessione girata da uno stretto ambulacro semicircolare corrente lungo il conservato muro dell’abside della Curia risalente all’età repubblicana. Il muro esterno dell’abside sopraelevata nel costruire la cattedrale è in opera laterizia, spartito da lesene con semicolonne addossate; struttura di pura tradizione romana nella quale si mostra, forse, il più antico esempio delle articolazioni murarie a pseudo-portico che formarono poi uno dei partiti caratteristici dell’architettura romanica toscana. I copiosi frammenti architettonici e decorativi che si possono assegnare agli avanzi della cattedrale, sceverandoli dal materiale classico proveniente dal medesimo cumulo, documentano la storia della chiesa fino alla sua diserzione e rovina; gli elementi che appartengono alla fine dell’arte romana e all’esordio dell’arte bizantina palesano, piuttosto una evoluzione spontanea delle forme antiche dell’arte locale (con certe sue tradizioni ionizzanti), che un’influsso sensibile delle correnti artistiche irradiate dall’Oriente.
Una testimonianza veramente eccezionale del trapasso fra l’arte imperiale romana e l’arte orientalizzante avremmo in Luni nella collana aurea scavatasi nell’area della basilica cimiteriale e forse prima cattedrale suburbana di San Pietro, se fosse dato assegnare con certezza questo cimelio all’oreficeria locale della cui esistenza non abbiamo che lontani indizi risalenti all’età preromana. La collana, in leggera foglia lavorata a sbalzo, unisce busti cerchiati ad imitazione di monete con motivi araldici, o architettonici d’impronta orientale; nel pendaglio è iscritto il motto: utere felix. Le figure in cerchio mostrano i tipi frontali della monetazione romana dopo la metà del V secolo, ma con un senso plastico, pur nel minuto lavoro, che appartiene alla tradizione dell’arte anteriore; il monito epicureo inscritto nel gioiello spira, direi, in una tomba sicuramente cristiana, l’ultimo anelito del mondo antico.
Una larga influenza dell’arte lunense a Genova e in tutta la Liguria deve supporsi, nell’età imperiale, specie per quanto riguarda la scultura architettonica che ebbe sicuramente a Luni un centro di lavorazione e di esportazione; tuttavia, dalla fine del IV secolo, allorché Genova entrò nel raggio spirituale ambrosiano, mentre Luni rimase politicamente e religiosamente una città dell’Urbicaria, l’arte dei due centri seguì indirizzi sensibilmente diversi. Noi non possiamo restituire idealmente la facies monumentale e artistica di Genova sulla fine dell’Impero, se non sopra gli esemplari di questa età che il caso ci ha serbati nella Riviera di Ponente.
Il battistero d’Albenga in pianta ottagonale all’interno e quello simile di Ventimiglia, in tutti i loro particolari icnografici e decorativi riferibili al costrutto originale, si collegano alla tarda arte imperiale e, con più stretta consonanza, per evidenti richiami simbolici e liturgici (insieme con altri monumenti appartenenti alla Liguria nel più ampio senso ed alla parte della Gallia che fu soggetta all’influenza ambrosiana), all’arte milanese avente i suoi modelli nella basilica di San Lorenzo Maggiore e nei sacelli a questa uniti.
L’età del battistero d’Albenga, con dati storici, a cui non contrasta alcun rilievo stilistico, si può fissare nel periodo intercedente fra la ricostruzione della città per opera di Costanzo, circa il 514, e l’apparizione del primo vescovo albengano, nel 551, al Concilio di Milano contro i Monofisiti; il battistero di Ventimiglia è senza dubbio coevo, similmente coincidente con la prima documentazione storica del vescovado.
All’età della costruzione deve riferirsi anche il paramento musivo di cui restano alcuni tratti nel battistero di Albenga, sebbene il giudizio prevalente ritardi questo alla fine del secolo V, od oltre, attribuendolo ad influssi diretti, o mediati dell’arte orientale. Gli avanzi del musaico, comprendenti le decorazioni dell’archivolto, della volta a botte e della lunetta della parete di fondo d’una delle esedre, presentano vari motivi a girari d’acanto e festoni di lauro, una fascia ricorrente a fiori cruciformi, la croce gemmata del Golgota adorata dai mistici agnelli e, al sommo della volta, in un cielo stellato, il monogramma di Cristo incluso e specchiatesi in un triplice nimbo, a significazione della Trinità, intorno a cui volano dodici colombe simboleggianti gli Apostoli. Questo linguaggio figurato, per quanto ispirato dal simbolismo, orientale, nella sua concreta espressione, è puramente latino: infatti, mentre la stessa struttura dell’edificio riflette il significato teologico e liturgico del Krismon ambrosiano, il componimento musivo, e specie il motivo simbolico delle dodici colombe intorno al monogramma richiama simili figurazioni dettate da S. Paolino da Bordeaux per i musaici, o dipinti della basilica nolana di S. Felice, proviene cioè, in ampio raggio, dal medesimo mondo cristiano-occidentale a cui appartiene il primo segno. Dal punto di vista puramente artistico, i musaici, se pur mostrano talune forme astratte e cristallizzate, già in corso, del resto, nell’arte del secolo IV, non solo per alcuni particolari della tecnica, come le fasce floreali a fondo bianco le quali riflettono, come è stato osservato, procedimenti del musaico parietale dell’era costantiniana derivati dalla pratica del classico musaico pavimentale, ma per gli effetti luministici e spaziali ricercati dall’artefice con la rappresentazione in profondità del triplice alone celeste, nei cui giri concentrici si riflettono prospetticamente le lettere del monogramma divino, appartengono alla tradizione antica. Il musaico d’Albenga, veduto in relazione coi musaici milanesi, completa il quadro dell’arte ligure sulla fine del mondo antico; pura espressione di un’arte teologica e dottrinale (forse non senza un richiamo polemico alla controversia cristologica nel cui ardore si costituì, o risorse l’episcopato albengano), esso precede il musaico di Sant’Aquilino, nel quale si insinua una diversa corrente, umanistica e neonaturalistica, d’origine letteraria, che caratterizza la cultura italiciana sulla fine dell’Impero e nel regno gotico, corrente che vediamo dissolversi nell’aureo splendore dei musaici di S. Vittore, coi quali s’inizia, a Milano, la storia dell’arte medievale dell’Occidente.

 

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GENOVA BIZANTINA

 

Melli P., Cartografia archeologica di Genova, SAGEP, 2014.

 

 

V secolo. I Greci a Genova. Belisario, …, guidò i Greci a Genova e se ne impadronì per qualche tempo. Non risulta che la Liguria venne particolarmente coinvolta nella guerra tra Greci e i Goti. (Donaver, 1913)

451 dC. Paschisius episcopus Ecclesiae Genuensis. Leone Magno riporta le firme e le dichiarazioni di voto dei vescovi partecipanti al sinodo di Milano del 451 d.C., convocato da Eusebio per decretare la condanna degli eutichiani: è registrato fra gli altri anche il nome di Paschasius episcopus Ecclesiae Genuensis, concorde nell’anatema.(Angeli Bertinelli M.G., L’epoca romana imperiale e tardoantica, in Borzani L. Pistarino G. Ragazzi F., Storia illustrata di Genova, Elio Sellino Periodici, 1993)

V secolo fine. Toponimo di Genova. verso la fine del V secolo d.C. Stefano di Bisanzio riporta sotto il toponimo l’etnico di Genoates,(Angeli Bertinelli M.G., L’epoca romana imperiale e tardoantica, in Borzani L. Pistarino G. Ragazzi F., Storia illustrata di Genova, Elio Sellino Periodici, 1993)

V secolo d.C. Giustiniano (482-565). La Liguria fu convertita in Provincia. Genova assunse per la prima volta tale denominazione. (Donaver, 1890)

 [ulteriori immagini saranno inserite appena verranno prodotte]

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GLI OSTROGOTI E LA GUERRA GOTICA (489-566)

Poggi G., Genova preromana, romana e medievale, in Genova, Giovanni Ricci, Libreria Moderna, Galleria Mazzini, 1914

SOMMARIO: Il governo di Teodorico (489-526) —Trent’anni di guerra contro i Goti (536-566) — Fame e peste e guerra — Gli eserciti greci in Genova — Milano distrutta dai Borgognoni alleati dei Goti (538) — Genova saccheggiata dai Franchi (539) — Nel 542 funziona ancora in Genova il presidio greco — Durante la guerra aumentano i fuggiaschi in Genova.

Genova fu soggetta alla dominazione dei Goti? Abbiamo dimostrato nei capitoli precedenti, mettendo a confronto i testi romani coi testi medioevali, che Genova era città autonoma ai tempi dell’impero. Perchè doveva cessare di esserlo di fronte a Teodorico, che venne in Italia per assumerne la difesa d’accordo coll’impero, e si mostrò rispettoso d’ogni istituzione antica? È naturale dunque che Genova abbia continuato «a governarsi colle proprie leggi» ossia con quelle consuetudini che Caffaro rivendicava alla dieta di Roncaglia, come patrimonio antico e intangibile del popolo Genovese. È naturale d’altra parte che Teodorico, assumendo la difesa d’Italia, abbia preso possesso degli impianti militari di Genova, il campo, la fortezza di Castelletto, il portus classis e il palazzo imperiale al molo. Così sarà continuato quell’intreccio di sovranità e di autonomia che era proprio delle città marinare antiche.
Vi sono lettere scritte dal ministro di Teodorico, Cassiodoro, agli Ebrei residenti in Genova per confermare ad essi gli antichi diritti loro accordati dagli imperatori romani (Cassiodoro Lib. II. C. 27. Lib. IV C. 33).
Ma il fatto sta nei limiti dell’ altasovranità, e non pregiudica la tesi dell’autonomia.
Teodorico, facendo ragione agli Ebrei, esercitava quella funzione moderatrice che gli imperatori avevano assunto a riguardo delle questioni religiose, le quali per il loro carattere di universalità non potevano essere abbandonate al giudizio delle singole città, ma dovevano avere, come avevano effettivamente il loro giudice nell’ imperatore o in chi ne faceva le veci.
Teodorico fu rispettoso delle tradizioni romane, restaurò monumenti, e si adoperò in tutti i modi perchè la civiltà romana non perisse soffocata dai barbari. Erano per esempio tenute in esercizio le terme di Acqui, come risulta da una lettera di Cassiodoro che pubblichiamo in nota (La lettera è riferita al n. 29 del lib. X).
Quanto a Genova abbiamo scarse notizie, anche perchè le storie parlano genericamente dei Liguri e della Liguria, in senso lato, e Genova continua ad essere assorbita da Milano. Gli storici della letteratura hanno rivendicato a Genova un letterato di quel tempo, Aratore, che ebbe fortuna con Teodorico, il quale lo mandò ambasciatore a Costantinopoli, e poi col re Atalarico che lo nominò, su proposta di Cassiodoro, conte delle cose private, ossia ministro della real casa. Morì suddiacono della Chiesa romana.
L’epoca di Teodorico (489-526) fu per tutta l’Italia un’epoca di tranquillità relativa, ed anche di buon governo, tanto che poi si ebbe a rimpiangerla. Perchè dopo la morte di Teodorico cominciò subito quella funesta guerra gotica che durò 30 anni (536-566), e diede all’Italia la più grande desolazione che sia stata mai.
L’anno 536 Belisario fu mandato dall’Imperatore di Costantinopoli, Giustiniano, a liberare l’Italia dagli Ostrogoti. Roma, presa da Belisario, (536) fu stretta d’assedio per un anno dai Goti (537), nuovamente assediata da Totila ed espugnata (546), uccisi o dispersi tutti gli abitanti, sì che rimase per quaranta giorni un’immensa e tetra solitudine . Ancona, Milano, Fiesole, Ravenna e Napoli furono vittime di assedi e di saccheggi, durante questi primi dieci anni della guerra gotica. Frattanto altri barbari scendevano a turbe sterminate a depredare per conto loro: Borgognoni e Franchi.
Fu l’epoca delle più grandi stragi, fu l’agonia della povera Italia, perchè alla guerra si accompagnò come sempre la fame e la peste.
Teodorico aveva pensato a stabilire dei magazzeni annonarii per tutta Italia. La Liguria aveva i suoi «horrea publica» a Pavia e a Tortona come risulta da lettera di Cassiodoro (Cass. Lib. X, epist. 22). Ma il prolungarsi della guerra aveva distrutto ogni riserva. Paolo Diacono (In historiae Miscellae, Muratori. Script. Vol. I) ricorda ad ogni poco la fame che «per universum mundum maxime apud Liguriam excreverat, at, sicut vir B. Dacius Mediolanensis antistes retulit, pleraeque matres infelicium natornm comederent membra». Altrove (De Gestis Longob. Lib. Il, osp. IV) descrive la peste «quae, in provincia praecipue Liguriae, exhorta est. Subito enim apparebant quaedam signacula per domos, ostia, vasa, vel vestimenta, quae si quis voluisset abluere, magis magisque apparebant. Post annum vero expletum, coeperunt nasci in inguinibus hominum, vel in aliis delicatioribus locis, glandulae in modum nucis, seu dactyli, quas inox sequebatur febrium into lerabilis aestus, ita ut in triduo homo extingueretur. Sin vero aliquis triduum transegisset, habebat spem vivendi Erant autem ubique luctus, ubique lacrimae. Nam, ut vulgi rumor habebat, fugientes cladein vitare, relinquebantur domus desertae habitatoribus, solis catulis eam servantibus. Peculia sola remanebant in paseuis, nullo adstante pastore. Fugiebant fìlii, cadavera insepulta parentum relinquentes. Parentes oblitis pietatis viscera, natos relinquebant aestuantes. Nulla erant vestigia commeantium, nullus cernebatur percussor, et tamen visura oculorum superabant cadavera mortuorum. Pastoralia loca versa fuerant in sepulturara hominum, et habitacula umana facta fuerant confugia bestiarum».
Come si comprende tutta la terribile verità di quel grido liturgico che usciva dai miseri volghi prosternati a pie’ degli altari: «A peste et fame et bello libera nos domine!».
Che avvenne di Genova? Abbiamo dei cenni frammentarii ma pur troppo eloquenti. Nel 538 i Milanesi chiedevano aiuti a Belisario per scuotere il giogo straniero. Un corpo scelto di Isauri e di Traci fu imbarcato a porto d’Ostia sotto il comando di Mundila e fu mandato a Genova. Mundila lasciò in porto le navi, e le barche fece trascinare per la via dell’Appennino, la Postumia, avvisando di servirsene per il tragitto del Po (Procopio). Ma il debole presidio dei Goti che era in Milano non aspettò la sua venuta, e la città rimase momentaneamente liberata. Se non che Vitige, re dei Goti, che era chiuso in Ravenna, chiese aiuto ai Franchi e s’intese con essi per il riacquisto di Milano. Scesero 10000 Borgognoni dalla Savoia, e riunitisi ai Goti presero Milano e ne fecero strage; trecentomila cittadini furono trucidati, se si deve prestar fede a Procopio, le donne furono condotte schiave dai Burgundii. La città fu uguagliata al suolo (Procopio).
I Greci nulla seppero fare per salvare Milano. Il grosso del loro esercito era accampato sulla Scrivia, appoggiato a Tortona. I Goti tenevano il campo alla distanza di sessanta stadi (Cabotto. Storia dell’Italia Occ. p. 521).
Intanto, allettati dall’odor della preda, scendevano dal Gottardo 100000 Franchi condotti dal loro re Teodoberto. Invasero prima il campo dei Goti, poi si rovesciarono su quello dei Greci, e ne fecero strage (539). Secondo una cronaca anonima, ma contemporanea, Teodeberto avrebbe valicato l’Appennino e saccheggiato Genova («Thoudibertus, Francorum rex, cum magno exercitu adveuiens, Liguriam totamque depredat Aemiliam. Genuam oppidum in litus Thirreni maris adhuc sitam evertit et praedat» Auct. Marcellino 166. È la prima delle tante invasioni francesi in Italia). Tornato in Val di Scrivia, una grande epidemia, descritta da Procopio come gastro-enterite, mandò alla malora quella turba di predoni. Gli scrittori Genovesi non fanno cenno di questo fatto, ma pur troppo esso ha tutti i caratteri di probabilità (Serra. Storia della Liguria – Cabotto. St. dell’It. Occid.), perchè quella gente era scesa coll’unico scopo di far bottino, e Genova, che era rimasta esente da rapina fino allora, era una preda troppo appetitosa perchè non invogliasse quei barbari di arrivare fino ad essa e fare una razzìa in tutta regola. Non fu probabilmente una distruzione come quella di Magone, di Rotari e dei Saraceni, e perciò passò sotto silenzio fra gli scrittori genovesi che la considerarono come un avventura ladresca.
Il Gibbon (Storia della decadenza e rovina dell’impero remano), nel riferire il fatto, scrive che i Franchi rovinarono Genova «non ancora fabbricata di marmi». Non avrebbe detto questo se avesse visto comparire, come avviene ora di giorno in giorno, tante colonne romane, che i Genovesi del medio evo avevano utilizzato nelle costruzioni dell’XI, del XII e XIII secolo. Esse provenivano in gran parte dalla demolizione degli antichi edifizii romani.
Il Gibbon e il Sismondi ricordano pure che i Franchi menarono gran vanto della loro impresa, gloriandosi di aver saccheggiato tre fiorentissime città, Milano, Pavia e Genova. Anche questo ricordo ha il suo valore per mettere in evidenza l’importanza che si dava dai barbari a Genova romana.
L’invasione dei Franchi deve essere presa in considerazione anche per ciò che riflette la rovina di Libarna. I Franchi non la risparmiarono certamente nell’andare e nel venire dall’impresa di Genova.
Ed infine questa invasione ci spiega e rende sempre più verosimile un’antica tradizione che i Genovesi abbiano rotta e resa impraticabile la via di Valle Scrivia. Dopo quanto era avvenuto ed in vista di nuove invasioni il provvedimento poteva apparire opportuno. Come, nel pericolo del naufragio, la nave fa getto delle sue merci, così Genova faceva sacrifizio delle strade, che erano coefficiente prezioso del suo commercio, per opporre qualche ostacolo ai minacciati assalti.
Nel 544 abbiamo da Procopio la notizia che un certo Bono «Genuensi praesidio praerat». La notizia ha un valore grandissimo, perchè ci fa conoscere che la stazione militare di Genova funzionava durante la guerra gotica, e che Genova era stata definitivamente occupata dai Bizantini.
Esistevano però in Italia e specialmente in Liguria, cioè nell’alta Italia Occidentale, due partiti, quello favorevole ai Goti, e quello per i Bizantini. Quando leggiamo in Procopio che verso il 540 il re dei Goti Vitige mandava due preti liguri allo scià di Persia per indurlo ad attaccare l’impero bizantino sulle frontiere della Mesopotamia, abbiamo tutte le ragioni di credere che quei preti liguri parteggianti per i Goti fossero due Genovesi. Soltanto essi potevano concepire l’idea di questo viaggio, perchè da tempi antichi i Genovesi conoscevano le vie che al di là del Mar Nero conducevano in Persia. Probabilmente Aratore, altro genovese che stava a Corte, avrà indicato i due soggetti adatti all’impresa.
Paolo Diacono racconta che quando Totila faceva massacro degli abitanti di Roma e di Ravenna molti fuggirono nella Liguria marittima e si rifugiarono in Genova, ove poco prima nella presa di Napoli s’eran salvati molti cittadini Napoletani (Paolo Diacono in Historia Miscella, Lib. XVI).
È la seconda volta che le cronache ci fanno rilevare questo fatto caratteristico di Genova, che diventa l’asilo dei fuggiaschi di tutta Italia. Presto lo vedremo ripetersi quando i Longobardi invaderanno la valle del Po, poi in proporzioni maggiori quando i nostri littorali saranno invasi dai Saraceni. Ed è bene che il fatto sia messo in tutta evidenza, perchè ci darà ragione dei nuovi atteggiamenti di Genova al principio del medio evo. Intanto un’osservazione ci si presenta molto ovvia. Genova romana doveva essere una città ben conosciuta e in molta riputazione, se da tante parti si pensava ad essa nel momento del pericolo.

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 V – VI secolo

Autori Vari

V secolo. Ebrei genovesi e i Goti di Teodorico. Genova faceva parte del regno dei Goti come altre regioni italiane. E’ noto che gli Ebrei genovesi si siano rivolti a Teodorico, imperatore dei Goti, per mantenere i privilegi avuti in precedenza. Essi ottennero dall’Imperatore, tramite Cassiodoro, la facoltà di radunarsi in Sinagoga e di aver case, come nell’Impero romano. (Cassiodoro in Donaver, 1890)

507-511. Ebrei a Genova. Esisteva anche una sinagoga ebraica, ricordata però soltanto più tardi, in occasione dei restauri all’edificio, consentiti con pesanti limitazioni dal re Teodorico, che fra il 507 ed il 511 d.C. inviò alla comunità giudaica una lettera al riguardo, insieme con un’altra (entrambe trascritte da Cassiodoro nelle Variae), in risposta ad una supplica relativa alla conservazione degli statuti di leggi già in vigore. (Angeli Bertinelli M.G., L’epoca romana imperiale e tardoantica, in Borzani L. Pistarino G. Ragazzi F., Storia illustrata di Genova, Elio Sellino Periodici, 1993)

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GENOVA BIZANTINA (536-641).

Poggi G., Genova preromana, romana e medievale, in Genova, Giovanni Ricci, Libreria Moderna, Galleria Mazzini, 1914

SOMMARIO: Genova soggetta all’impero greco — La riforma Giustinianea; il vescovo a capo della città – I patres – Le donazioni alla Chiesa; il patrimonio delle Alpi Cozie – Importanza di questi fatti per la storia di Genova e della Liguria.

Le città, che non caddero subito sotto il dominio longobardico, e rimasero sotto il governo dell’impero orientale, subirono l’influenza della civiltà bizantina e della legislazione Giustinianea. Così avvenne di Genova, ed il fatto vuol essere studiato perchè contribuisce a dare caratteri speciali alla nostra storia.
Genova diventa fra il 536 e il 641 città bizantina: 1° per la dipendenza e gli stretti rapporti che essa ha coll’impero orientale come intermediaria fra l’alta Italia e Costantinopoli; 2° per l’introduzione delle riforme giustinianee.Giustiniano passò alla storia come il grande ordinatore del diritto, come il compilatore di quel Corpus Iuris, che alla distanza di tanti secoli forma ancora il substrato di tutte le legislazioni moderne. Non fu gloria sua, ma dei grandi giureconsulti, presieduti da Triboniano, che dalle opere dei giuristi Bomani seppero estrarre il succo della mentalità giuridica antica. Appartiene invece più specialmente a Giustiniano la riforma amministrativa, a cui accenniamo, meno studiata, ma interessantissima per chi vuol darsi ragione dei nostri ordinamenti medioevali.
Colla costituzione del 530 (Cod. lib. I tit. IV 26) Giustiniano incarica della amministrazione delle città il Vescovo e tre cittadini di buona fama «qui praestant in civitate». Essi devono invigilare sulle opere pubbliche pertinenti alla città, strade, mura, torri, bagni, acquedotti, per quanto non siano aboliti i magistrati speciali una volta delegati a queste opere. È proibito ai magistrati imperiali di immischiarsi nello spurgo dei rivi e delle cloache, di far demolire le costruzioni addossate ai muri delle città, le baracche addossate agli edilizii, ai portici (i tetti appesi lamentati da Cicerone) di far togliere ruderi e colonne infrante (come risalta lo stato di rovina in cui giacevano le città!) «sed liceat Episcopo et iis qui primi sunt cuiusque urbis» di resistere ai magistrati che si immischiassero di amministrazione interna. A riguardo di tutte queste faccende di edilizia si ripete «Oportet Episcopum et patrem civitatis, et coeteros bonae fidei possessores providere». Più sotto, affidando altre funzioni di vigilanza, dice «Episcopus et patres civitatis».
Tutto questo significa che il Municipio romano coi suoi decurioni e duo viri e quinque viri è finito, ed anche il «defensor civitatis» di cui molto si parla nel secolo V, ha perduto la sua importanza. La vita pubblica è ormai concentrata nella «Coimmunitas fedelium» la chiesa è il parlamento, il Vescovo è ufficialmente il capo, i maggiorenti scelti dal vescovo sono gli amministratori «i padri della comunità».
Notiamo questo fatto perchè avrà la sua importanza nello studio del nostro comune. La comunitas fidelinm governata dal vescovo e dai patres, che funziona in Genova all’epoca del governo bizantino, costituisce una preparazione alla vita comunale, che non ebbero le città che passarono senz’altro sotto la dominazione longobardica.
L’istituzione dei « patres » non cade più. Quando il comane assumerà carattere politico e diventerà « stato » i patres continueranno a funzionare per tutto ciò che concerne l’andamento ordinario dei servizii cittadini e si avrà «il magistrato dei Padri del Comune» in Genova, come si avranno «i patres» nei piccoli comuni. Molti paesi della Liguria conservarono nei loro statuti questa istituzione d’origine bizantina, e per convincersi dell’importanza che si annetteva nei piccoli paesi a questa carica, l’unica a cui si potesse aspirare, si ha il fatto che moltissime famiglie, che avevano un pater a loro capo, presero a titolo di distinzione il nome di Patris o Patri (I Patris sono numerosi in Arquata, a Ronco e in molti altri luoghi, ove gli statuti ricordano il consiglio dei «Patres». Vedi Statuto di Arquata nella Biblioteca civica di Genova), come in Genova nel sec. XI si ambiva chiamarsi Visconte o figlio di Visconte, come i discendenti di un «maro» volevano essere riveriti col nome di Mari e de Mari, Marini e de Marini, Marchi e de Marchi e Marchini.
L’impero bizantino rimase famoso nella storia per la rapacità del fisco e l’introduzione d’ogni sorta di tasse. Il «dacito» fu applicato sotto tutte le forme e sotto diversi nomi di portoria, tractoria ecc. Il «focaticum», che ricompare al giorno d’oggi colla sua virulenza antica, venne da Bisanzio, come sono di origine bizantina tutte le infinite maniere di tasse, di pedaggi, di ripatici, di tasse sul sale, le decime del mare che troveremo in funzioni nel medio evo.
Le tasse erano riscosse per mezzo dei «pubblicani», che le prendevano in appalto. Quest’uso si vedrà ricomparire in Genova medioevale nelle «compere » con cui diversi capitalisti riuniti in consorzio assumeranno la riscossione dei dazii dai Marchesi e di molte altre gabelle del Comune.
Un altro fatto importante dell’epoca giustinianea è quello delle grandi donazioni fatte alla Chiesa. Sappiamo che le donazioni dei beni alla Chiesa cominciarono con Costantino, si accrebbero ai tempi di Teodosio ed Onorio per opera specialmente di S. Ambrogio, divennero amplissime all’ epoca di Giustiniano. Ma per dare a queste donazioni amplissime il loro giusto valore economico e storico, non bisogna dimenticare che gli imperatori donavano i fondi e i latifondi che i proprietari, esauriti dalla rapacità del fisco, abbandonavano. Erano i beni che nessuno più voleva e la Chiesa si incaricava di ripartire un’altra volta, riservando a suo vantaggio la prestazione di un censo, che era meno odioso e meno gravoso dell’ antico tributo. Per ciò che riguarda le donazioni fatte da Giustiniano, non abbiamo notizie dirette, ma abbiamo il fatto capitale del patrimonio così detto «delle Alpi Cozie», che la Chiesa possedeva prima dell’invasione Longobardica, e i Longobardi incamerarono conquistando la Liguria, onde nacque una questione lunga e irreconciliabile fra la Curia romana e i Longobardi (Troia. Codice diplomatico longobardo). Erano vasti possedimenti nelle vallate e sui gioghi dell’Appennino, erano interi paesi che erano stati abbandonati specialmente nel periodo della guerra gotica. Libarna e il suo territorio diede certamente il maggior coefficente al patrimonio delle Alpi Cozie, come si vedrà fra poco, parlando delle proprietà dei monasteri.
Il fatto a cui accenniamo è importante perchè ci spiega tutto quell’intreccio di possedimenti che avevano i Vescovi oltre i confini della loro diocesi. Così il Vescovo di Genova ebbe da tempo antico il possesso della vasta Piève di Caranza al di là del giogo e il possesso di S. Romolo (S. Remo) in quel di Ventimiglia. Da questo fatto molti furono indotti a credere che il popolo genovese, il comitato e il Vescovato poi si estendessero di là dal giogo, e il Belgrano andò nel concetto che la diocesi di Genova abbracciasse un tempo tutta la riviera. Ma chi riflette al carattere delle donazioni Giustinianee si spiega questo e molti altri fenomeni di simil genere. Come il Vescovo di Genova possedeva la pieve di Caranza oltre giogo e S. Romolo in riviera di ponente, così il Vescovo di Lodi pretendeva a Percipiano in Valle Scrivia. Si dirà che la diocesi di Lodi si estendeva a Valle Scrivia? Si rifletta invece che tutte queste donazioni furono fatte alla Chiesa e per essa al papa, il quale molto probabilmente assegnò i beni ai metropoliti delle rispettive regioni, e questi li assegnarono in parte ai vescovati e alle pievi più bisognose. I metropoliti conservarono i possedimenti migliori; così il broglio di Genova, l’antico sepolcreto ridotto ad abitato dai Milanesi, proveniva probabilmente da donazione imperiale, e la stessa provenienza dovevano avere quelle pievi di Rapallo, di Uscio e di Camogli, che i Vescovi di Milano tennero in loro possesso insieme col broglio di Genova fino alla metà del Sec. XIII.
Chi volesse ricostituire idealmente il patrimonio delle Alpi Cozie potrebbe farlo approssimativamente tenendo conto che, usurpato dai re Longobardi quel patrimonio, esso divenne la dote dei grandi monasteri longobardici bobbiesi, di cui si è già parlato. Coll’aiuto delle pergamene si può ricomporre fino a un certo punto il patrimonio delle Alpi Cozie, mettendo insieme tutti gli immensi beni posseduti un tempo dal Monastero di Bobbio, di Percipiano, di Sezè, di Giusvalla, di Borzone, di Brugnato, di S. Stefano in Genova, e di quelli altri da noi già ricordati. Aggiungendo i beni che figurarono in capo al Vescovo di Genova e ai diversi vescovi suffraganei, quelli che dai vescovi furon donati a chiese e monasteri, come per esempio quelli assegnati dal Vescovo di Genova ai monaci di S. Siro, quelli che figurano da tempi antichissimi in capo alle chiese di campagna e specialmente alle pievi, si vedrebbe che gran parte del territorio, che formava la cosidetta provincia delle Alpi Cozie, era proprietà della Chiesa.
Lo studio è importante per capire a quale grado di sfacelo si era giunti nel secolo VI. Ed è importante, perchè ci mette in condizione di comprendere come avviene la liquidazione del mondo romano. Questa liquidazione è completa quando Carlo Magno dona ai vescovi le vere e proprie demanialità, le stazioni militari, le fortezze (Soziglia e Castelletto) ed in genere tutte le aree abbandonate. Studiando i beni della mensa vescovile di Luni, di Albenga, di Tortona ecc. si vede che la Chiesa è subingredita quasi dappertutto nelle proprietà demaniali, fori, teatri, basiliche ecc., per cui diventa in determinati casi un prezioso indizio di romanità l’elenco dei beni della Chiesa. Lo stesso fatto può essere utilizzato per lo studio delle pievi. Generalmente si ritiene che le pievi siano sorte dopo il 1000 perchè solo a quest’ epoca compariscono i documenti. Ma ormai ci andiamo convincendo, specialmente per il carattere dei beni da esse posseduti, che molte di esse esistevano da tempo più antico, che subirono gravi peripezie d’ordine economico per il fatto dei Longobardi, i quali arricchirono i monasteri a danno delle pievi, e subirono gravi jatture materiali nell’ epoca Carolingia, per le devastazioni dei Saraceni. Le antichissime pievi di Libarna, del Leme, di Novi sono fra quelle che maggiormente risentirono di questi danni. Ma esse presentano caratteri antichissimi nei loro ruderi. Nel Sec. XIII erano già antiche ed abbandonate, o quasi. I beni della pieve di Libarna occupano quasi tutta l’area della città distrutta. E tutti questi fatti, insieme coordinati, ci invitano a riportare all’epoca delle donazioni Giustinianee o Carolingie la fondazione delle tre pievi suaccennate.

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 DOMINAZIONI DEI BARBARI

Girolamo Serra, La Storia della Liguria e di Genova scritta dal marchese Girolamo Serra, Torino, presso Pomba, 1834.

 A. 536. Mentre che dunque Visigoti, Allemanni, Unni, Vandali, Eruli e Turcilingi mercenarj recavano in desolazione tante provincie e reami, la Liguria fu salva. Pare altresì verisimile, che lo sterile aspetto dell’Appennino ne tenesse lontani gli Ostrogoti, scesi dall’Alpi sol per godere fertili e vaste campagne. Ciò non di meno il primo loro re Teodorigo ricevè due volte le suppliche degli Ebrei stabiliti in Genova per amor di commercio, e probabilmente mal visti; due volte il senator Cassiodoro rispose loro in suo nome, confermando la facoltà conceduta da’ cristiani imperadori a quella dispersa nazione di poter ragunarsi in sinagoga e riparare i suoi tetti sdruciti (S.A. Cassiodor. Variar. II 26 IV. 33). Ma quantunque l’occasione il portasse, nè le suppliche nè le risposte fanno menzione di alcun regio ufiziale o rappresentante in Liguria, negli atti dei re susseguenti non se ne trova vestigio; laonde crediamo, valendoci di un’antica metafora, chei Liguri non ebbono mai il coltello goto alla gola, e si mantennero in quella pacifica divisione di comuni e distretti, che i Romani lasciavano col nome eziandio di repubbliche alle soggette popolazioni. La memoria degli ordini municipali era ancor viva, e non occorrevano aggiunte. Senza romano senato, senza imperadore, i Duumviri d’ogni comune potevano le cose opportune al suo stato proporre, i decurioni discuterle, i comizj del popolo deliberarle. Serviva il pericolo e la vicinanza de’ Barbari a rintuzzare le dissenzioni.
Il buon Belisario, luogotenente dell’imperador Giustiniano in Italia, non ebbe cagione di alterar queste forme. Le sue navi pigliarono porto in Genova senza contrasto, il suo capitano Mundila vi scese col distaccamento che guidava al Po; un certo Bono ufiziale delle sue guardie vi tenne presidio per qualche tempo. Ma gli Ostrogoti non molestarono però il paese, e senza l’incursione de’ Franchi ch’è molto incerta (Non è riferita da altri che dal continuatore della cronaca di Marcellino (V. I. II. a. 539). Belisario fece il viaggio d’Affrica in tre mesi, e in altrettanti vi spense il sanguinario regno de’ Vandali. Ma gli Ostrogoti d’Italia opposero più resistenza. Ammazzarono Teodato, perchè vilmente abbandonò la Sicilia, Napoli, Roma, crearono re un certo Vitige, il più riputato de’ lor capitani, e raccozzate d’ogn’intorno le forze, non meno di centocinquantamila armati circondarono Belisario. Fu questo il suo maggior trionfo. Perchè chiusosi in Roma dopo un anno e nove giorni d’assedio ne usci vittorioso, inseguì i nemici, e (a. 538) bloccolli egli stesso col re loro in Ravenna. Divolgati questi successi, la Liguria infino allora pacifica entrò in guerra. Non furono i lor decurioni che a’ Milanesi persuasero di scuotere il giogo straniero, ma il pio vescovo Dazio, cui venerano anch’ oggi in sugli altari. Co’ voti de’ suoi diocesani andò a trovar Belisario, e a lui che i mezzi cercava di molestare i nemici alle spalle, indicò il più acconcio. Un corpo scelto d’Isauri e Traci s’imbarcò con Mundila lor capitano nel porto d’ Ostia, e indirizzossi a Genova, città che i Goti avevano abbandonate o non posseduta mai. La storia che trascriviamo (Procopio, De bello Gothico, lib. II) non dice, niun documento chiarisce qual governo ivi fosse. Si sa soltanto, che Mundila vi lasciò le navi, e i palischermi [barconi] di quelle fece strascinare per l’Appennino a’ suoi robusti soldati, avvisando di valersene sul Po, qualora incontrasse maggiori ostacoli nella pianura. Ciò non seguì; perchè il debole presidio de’ Goti non aspettò sua venuta, e i Milanesi gli corsero incontro. Allora Vitige che era bloccato, non chiuso del tutto in Ravenna, fece offerire a’ Franchi le possessioni acquistate da’ suoi predecessori oltremonti, se volevano ajutarlo a ricuperare Milano. L’offerta fu accettala. Sicché diecimila Borgognoni scesero dalla Savoja, si riunirono co’ capitani de’ Goti sotto le mura di Milano, e per tradimento, negligenza, divisioni o carestia la presero a forza. Fatto un bottino e un guasto incredibile, i Borgognoni si ritirarono in Francia. I soccorsi di Belisario troppo tardivi per difendere la metropoli della Liguria piana, e troppo deboli per racquistarla, si posero fra il Tanaro, il Po e la Scrivia a difesa dell’alpestre. I Goti li seguitarono ben volentieri in luogo, dove se i Franchi scendessero nuovamente dall’Alpi, avrebbero meno dì a raggiungerli. Avvenne in effetto, che il re d’Austrasia Teodoberto, uno de’ nipoti di Clodoveo, calò questa volta in persona con un esercito di centomila oltramontani (a. 539). Passato il Tanaro presso a Valenza, ed esplorata la situazion de’ due campi, quello de’ Goti a lui più vicino sopra la Bormida, l’altro de’ Greci alla Scrivia, Teodoberto diè dentro nel primo, mentre i Goti ne uscivano a festeggiarlo. La confusione loro fu tale, che attraversarono senz’avvedersene i greci alloggiamenti, e i Greci credettero che Belisario o una parte del suo esercito fosse giunta in loro soccorso. Ma le spade de’ Franchi li trassero crudelmente d’inganno, facendo indistinta strage d’ognuno. Appresso, se diamo fede ad una cronica anonima ma contemporanea, (Contin. Marcellini Chron. apud Th. Roncallium P. altera col. 327; Muratori tom. III, e il Gibbon tom. VII. c. XLI l’hanno seguito) Teodoberto valicò il ligure Appennino, ove i Borgognoni non avevano avuto tempo o ardir d’innoltrarsi. L’angustia de’ passi e il coraggio degli abitanti nulla giovarono. Genova sostenne un orribile sacco 744 anni dopo quello de’ Cartaginesi; e gli edifizj rifatti dalle romane legioni, gloriose e dolci memorie, ritornarono al nulla. Non fu lenta la pena de’ distruttori. Nera dissenteria, effetto d’insalubri bevande, li costrinse a uscir d’Italia, e un albero rotto alla caccia d’un toro feroce accoppò Teodoberto. Genova e Milano ripararono in breve tempo i danni ricevuti. A Ravenna intanto la disperazione e la fame aprirono le porte a Belisario, il quale procacciò un trattamento umano a’ vinti. Il maggior numero fu menato a lavorare in Calabria, i più gentili entrarono nelle guardie dell’imperadore, e il re de’ Goti diventò patrizio di Costantinopoli. Anzi Fredegario nell’epitomi della storia de’ Franchi e Aimonio ne’ lor gesti ( II. 23. III. 59 ) dicono che Teodeberto non passò a’ confini da’ luoghi marittimi; e il copioso Procopio ufiziale di Belisario nella guerra de’ Goti riferisce che i Franchi non andarono oltre dopo l’acquistata vittoria, ma tocchi dalla micidiale dissenteria, se ne tornarono a casa), queste guerre straniere non l’avrebbero pur danneggiato. Ucciso dopo molte battaglie il re Teja [a. 553, ultimo re dei Goti], e spenta in lui la dominazione degli Ostrogoti, un’ altra generazione di Barbari allagò le contrade italiche, un nuovo giogo le afflisse, e l’aquile imperiali si ristrinsero nell’esarcato di Ravenna.  (Serra, 1835)

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L’ETÀ BIZANTINA:
FORMAZIONE DELLA LIGURIA MARITTIMA
(569-643)

Fiorentini Ubaldo, Genova nel basso impero e nell’alto medioevo, in Storia di Genova dalle origini al nostro tempo, vol. II, Garzanti, Milano, 1941.

Provincia Maritima Italorum
I Longobardi, partiti dalla Pannonia il 2 aprile 568, superarono il limes indifeso delle Alpi Giulie e scesero nel Friuli; mentre le popolazioni romane fuggivano nelle isole dell’estuario veneto, o si chiudevano in città fortificate e presidiate, come Padova, Monselice, Mantova, si insediarono stabilmente nella Venezia. L’anno seguente, entrarono in Liguria, occupando Milano il 3 settembre; posero quindi l’assedio a Pavia tenuta da un forte nerbo di milizie bizantine. Durante il triennale assedio, schiere vaganti invasero la Cispadana. Facile preda furono le città aperte o sguarnite della pianura padana; ma le schiere barbariche dovettero evitare i castelli, i campi trincerati e le « clausurae » delle Alpi Cozie e dell’Appennino, giacchè i militi romano-gotici di Sisinnio, i numeri stanziati a Genova e nelle altre città della riviera ligure-toscana, da Ventimiglia a Pisa, guardavano la vecchia linea di Costanzo probabilmente riorganizzata da Narsete. Senonché, un forte gruppo longobardo si aperse un varco nel limes, in un punto non sicuramente precisabile, ma forse sull’Appennino bolognese-pistoiese; infatti, secondo molti indizi, Pistoia fu la base della conquista longobarda della Tuscia compiutasi con rapide corse su Firenze, Arezzo, Siena, sulle città della Maremma e, di ritorno, su Lucca; rimasta inespugnata Pisa, i longobardi s’avviarono a Luni, ma furono fermati nell’angusto passaggio costiero della Versilia fortemente incastellata. Venne così isolato dall’invasione un brano dell’Italia Superiore e Media rappresentato in massima parte dalla provincia Alpes Cottiae, nella sua più recente configurazione, ma con tratti delle Alpes Apenninae, sui due versanti emiliano e toscano, e con un lembo della Tuscia Annonaria comprendente l’intero circuito del municipio di Luni.
Non sappiamo precisamente su quale linea si sia infranta, al primo urto, l’ondata longobarda nella valle occidentale del Po; secondo una tradizionale locale, Acqui cadde nel 569; Alba, Augusta Bagiennorum, Pollentia, Tortona, Iria, Clastidium e altre città della Cispadana, se non furono occupate nella stessa data, non resistettero ai posteriori assalti di Clefi e alle poderose incursioni avvenute nel periodo dell’interregno ducale, specialmente per opera dei duchi di Asti e di Lodi, i quali intaccarono anche la linea più arretrata dei castelli alpini e appenninici, mentre le ripetute irruzioni longobarde nella Gallia, attraverso le Alpi Marittime e le Cozie, isolavano il castello di Susa tenuto da Sisinnio fino al 577; un poco più tardi, forse al tempo di Autari, i Longobardi rovesciarono anche i castelli e le chiuse del preappennino emiliano, non senza la probabilità che essi si siano attestati nel versante tirrenico, sboccando dalle alte valli della Trebbia e del Taro; in tal modo il limes bizantino della Marittima, salvo qualche bastione avanzato sul versante adriatico, si ridusse ai crinali dell’Appennino, nei limiti divenuti storici della Liguria medievale e moderna. …
Una lettera del novembre 599 diretta da S. Gregorio Magno, a Genova, al vescovo Costanzo nomina Johannes vir magnificus qui Praefecturae illic vices acturus advenit»; nella stessa lettera si accenna al precedente vice-prefetto Vigilio e non è improbabile che il magnificus Liberius, di cui si parla nei Dialoghi dello stesso Pontefice, rivestisse la medesima carica. Genova fu dunque la capitale della nuova circoscrizione; essa fu certamente presidiata da forze imperiali, giacché una lapide funeraria genovese ricorda un numerus di Leti: è questa la lapide già esistente nella chiesa dei Santi Vittore e Savina datata l’anno 591, solitamente riferita, sulla vecchia lezione del Ganduzio, ad un magnus miles nome Elicileto,121 ma inoppugnabilmente corretta dall’Odorico nella forma Magnus miles nume(ri) Felic(ium) Laet(orum) (Atti Società Ligure di Storis Patria, XI, 1875, pg. 148)
I numeri [militari] e i presidi limitanei erano agli ordini di un magister militum la cui presenza è segnalata da un’altra lettera gregoriana del 599 nel territorio di Luni ; il gloriosus Aldio che teneva questo supremo comando, sebbene non sia altrimenti ricordato dal Papa che in relazione alle sue pie cure di convertitore di pagani e istitutore di pievi nel contado lunense, doveva aver fronteggiato, nell’età di Autari e di Agilulfo, gli assalti longobardi sul duplice fronte emiliano e toscano della Marittima, specialmente le incursioni del duca della Tuscia, Cillane, che, anche nel periodo delle tregue, continuava per suo conto le ostilità. La permanenza del magister militum in Lunigiana obbediva poi ad un’altra necessità strategica o politica: quella di garantire con forze adeguate le comunicazioni e i messaggi fra i presidi tirrenici e adriatici dell’Impero, per la via che, da Luni, al Castrum Vetus di Garfagnana, a Castrum Ferronianum, nell’alto Modenese, ai castelli di Samoggia e di Monteveglio, nel Bolognese, portava nell’Esarcato. …
Nessun’eco della lunga lotta sostenuta per oltre settantanni dai limitanei liguri dell’Appennino è giunta a noi, se non il cenno della finale catastrofe registrato nel proemio dell’editto di Rotari; tuttavia è certo che solo una costante vigilia armata e oscure battaglie, che non trovarono, come sui limina orientali, un epico cantore, vietarono ai longobardi l’accesso alla Riviera, fino al 643, e, su alcuni tratti del limes, fino all’età di Liutprando.
L’elemento principale di questa resistenza fu il dominio del mare mantenuto dai Bizantini. Nelle Alpi Marittime e negli Appennini, castelli e chiuse rimasero nella più stretta relazione con le basi navali tenute dall’Impero sulla costa e con la flotta militare ristabilita da Giustiniano nei porti dell’Africa, della Sardegna e della Corsica. Sul litorale ligure i Bizantini, non solo riorganizzarono le antiche stazioni navali, ma certamente istituirono nuovi approdi in relazione con le strade militari del limes, siano o no ricordati da Giorgio Ciprio; la vecchia stazione di Portus Veneris, fra il VI e il VII secolo, divenne una forte base navale frequentata probabilmente dalla divisione della flotta imperiale che stazionava nella Sardegna; furono fondazioni bizantine Portus Mauricii, come dice il nome, e Varigotti ricordata per la prima volta da Fredegario fra le città della Marittima devastate da Rotari. Le notizie pur scarse che noi abbiamo sulla vita di Genova, in questa età, mostrano le sue indisturbate relazioni marittime con Roma, con Ravenna e Costantinopoli, con la Francia e l’Inghilterra. Se già nel V secolo, in occasione della guerra vandalica, abbiamo potuto segnalare l’esordio della libera marina genovese, l’età bizantina fu certamente quella della sua definitiva costituzione e organizzazione; la sua storia continua nel periodo longobardo-franco, nel quale la vedremo già in rapporti di lungo corso con l’impero degli ’Abbàsidi, finché la strenua lotta contro i Saraceni, a partire dagli inizi del secolo IX, non la trasformò in un poderoso strumento di conquista e di dominazione.

La comunità milanese a Genova
All’entrata dei Longobardi in Liguria, nel settembre del 659, il vescovo milanese Onorato dopo aver consigliato ai cittadini d’arrendersi senza resistenza, si rifugiò a Genova, seguito dal clero e dagli ottimati della metropoli. Altri vescovi del territorio invaso calcarono certamente la stessa via ; ma solo sopravvive il ricordo del vescovo d’Acqui, Sodaldo, il quale, secondo una tradizione locale, langobardorum perfidia territus, confugit apud Honoratum archiepiscopum mediolanensem.
La Chiesa e i profughi milanesi presero stanza nel pomerio nordoccidentale della città, certamente per concessione avutane dall’autorità imperiale, sopra un grande spazio cintato, appartenente all’ager publicus suburbanus, col nome Brolium; entro questo recinto che abbracciava la sommità e le falde del colle detto poi di Sant’Andrea, fu eretto il palatium vescovile con l’attinente basilica di Sant’Ambrogio, nel luogo della chiesa attuale; e intorno il vescovo radunò i rifugiati, concedendo ad essi le aree per costruirvi le proprie abitazioni; delle pensiones domorum brolii sancti Ambrosii spettanti alla Chiesa milanese abbiamo il ricordo in un atto dell’anno 700 e in molti documenti posteriori riguardanti le vicende del patrimonio ambrosiano, in Genova, fino al secolo XIII; così si formò il Burgus Sacherius, sede della separata comunità milanese, costruito in gran parte di case di legno le quali, secondo il racconto di Caffaro, andarono distrutte da un incendio nel 1122.

1122 incendio del Brolio -CAFFARO+ GE1923-12… e divampò l’incendio di S. Ambrogio. Proprio l’anno del Signore 1122.
(Annali Genova di Caffaro e suoi continuatori, traduzione di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi e di Giovanni Monleone, a cura del Municipio di Genova, 1923)

Che gli ospiti milanesi appartenessero al ceto più elevato della cittadinanza appare dai Dialoghi e dalle Epistole di S. Gregorio Magno che, in più passi nomina i magnifici, i clarissimi, i nobiles milanesi residenti a Genova; coi nobili, dovevano aver preso la via dell’esilio anche elementi cospicui del Corpus negotiatorum da cui il vescovo traeva gli amministratori del proprio patrimonio ecclesiastico. Non sappiamo se il Burgus Sacherius fosse la sola stanza dei milanesi a Genova, o se questi non si fossero diffusi anche in altre contrade della città e del suburbio; certo essi costituivano una colonia numerosa giacché potevano procedere, nella forma canonica, all’elezione del vescovo.
Senz’altra prova che il nessun ricordo di vescovi genovesi fra il 569 e il 643, riesce difficile consentire alla opinione generalmente accettata dagli studiosi che, con l’insediamento del metropolita a Genova, sia stata soppressa la cattedra locale, nel senso che il primate abbia assunto anche le funzioni del suo suffraganeo. In primo luogo è da osservarsi che, se proprio al momento del rifugio la sede di Genova non fosse stata per caso vacante, il vescovo in carica non avrebbe potuto essere deposto; conoscendosi poi gli atti delle elezioni dei metropoliti Costanzo e Deodato avvenute esclusivamente per designazione e suffragio del clero ambrosiano e dei multi mediolanensium residenti nella città, non è da supporsi che i genovesi fossero stati spogliati del loro diritto elettorale, al quale era annesso un valore mistico d’ispirazione divina, qualora il vescovo milanese fosse stato anche il loro proprio vescovo. Fino alla morte di Deodato, nel 629, l’unione delle due diocesi è pertanto da ritenersi non avvenuta. Nessuna notizia abbiamo poi circa le modalità dell’elezione dei suoi successori; ma il fatto che Asterio sia chiamato episcopus genuensis in un testo contemporaneo può costituire un indizio, se non una prova formale, che, alla sua ascensione, le due Chiese si unirono personalmente in un solo capo: sessantanni dopo l’esodo, le figliazioni degli ospiti milanesi si erano fuse nella comunità indigena e forse era divenuto impossibile separare da questa l‘assemblea particolare a cui spettava l’elezione del metropolita.
Comunque, la Chiesa ambrosiana mantenne la sua costituzione patrimoniale autonoma ed ebbe un proprio territorio giurisdizionale che, in città, dobbiamo ritenere limitato al Brolium, ivi compreso il Burgus Sacherius, e, nel municipio, fu formato dalle quattro circoscrizioni plebane di Recco, Camogli, Uscio e Rapallo concesse al metropolita alla sua venuta. Oltre i proventi del brolium, rappresentati principalmente dalle pensiones domorum, oltre i diritti sulle decime plebane e i redditi fondiari derivanti dalle proprietà che, nel territorio delle quattro pievi ed altrove, il vescovo aveva ricevuto per donazioni pubbliche e private, rimaneva principale sussidio della Chiesa ambrosiana il suo patrimonio in Sicilia; questo, per quanto appare da una lettera di S. Gregorio Magno al vescovo Lorenzo datata l’anno 591, nei primi tempi del rifugio, fu avocato alla Sede Apostolica, ma fu poi indubbiamente restituito al presule milanese; una lettera dello stesso pontefice indirizzata, nel settembre del 600, al clero e al popolo milanese in Genova, incitante questo a resistere alle pressioni di Agilulfo che sollecitava l’elezione a vescovo di un proprio candidato, ricorda che gli alimenti per il clero non erano nelle mani dei nemici, ma in Sicilia e in altre parti della Romana Repubblica.
I vescovi e i clarissimi milanesi ebbero i loro sepolcri nella chiesa eli S. Siro la quale fu certamente designata all’ufficio di cattedrale metropolitica; si può osservare che l’ultimo vescovo milanese residente a Genova, S. Giovanni Bono, potè disporre, al suo ritorno a Milano, di una parte delle reliquie di S. Siro. Ma la cattedra ambrosiana non ebbe altra chiesa propria in Genova oltre quella di Sant’Ambrogio costruita probabilmente dal vescovo Costanzo che vi ebbe eccezionale sepoltura. Come abbiamo dimostrato, le altre supposte fondazioni milanesi di chiese della città e del suburbio intitolate a Santi particolarmente onorati a Milano sono da escludersi.
I segni della lunga comunanza fra le due Chiese milanese e genovese si mantennero nell’obbligo, fissato da S. Giovanni Bono nel momento del ritrasferimento della diocesi e tradotto in un vero atto contrattuale nel 700, pel quale il vescovo e il clero genovese dovevano partecipare processionalmente alle solenni funzioni che la Chiesa di Milano continuò a celebrare in Genova, nella propria basilica di Sant’Ambrogio, nelle feste di questo titolare, di Sant’Andrea e dei S.S. Gervasio e Protasio. Il ricordo della festa di Sant’Andrea porta la nostra attenzione sulla chiesa e sul vecchio monastero sotto il titolo dell’Apostolo esistente nel circuito del brolium sull’eminenza del colle a cui diede il nome. La prima notizia del monastero di Sant’Andrea è del 1109, allorché vi appare la badessa Gisla con un convivio di monache.

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Chiostro di S.Andrea

Salvo il bel chiostro romanico-gotico, tutto è perduto dell’antico edificio e le relazioni sul suo stato prima della demolizione sono, al solito, insufficienti e vaghe. Ma la constatazione fatta dal Podestà che le adiacenti proprietà del monastero continuavano, ancora nel secolo decimoquarto, oltre le mura civiche entro cui il monastero stesso era racchiuso stabilisce un dato importante per riferire la sua esistenza all’età carolingia; altro indizio per risalire ad un’età ancor più remota è il fatto che colonne romane siano venute alla luce nelle demolizioni della chiesa e del fabbricato monastico (Poggi, Genova preromana, romana e medioevale, Ricci editore, Genova, 1914). Non sembra pertanto arbitraria la supposizione che il vescovo Onorato sia stato seguito nel rifugio da uno stuolo di pie vergini conviventi, presso l’episcopo milanese, secondo la regola di Sant’Ambrogio, a cui sia stata data stanza in Genova, nel brolium ambrosiano, in diretta comunicazione col palatium episcopale.
Sebbene, indubbiamente, fino a tutto il secolo VI, la popolazione milanese abbia formato a Genova un corpo separato, anche topograficamente, dal resto della città, è da credersi che le successive generazioni, per acquisti di proprietà, per matrimoni e parentele, per intraprese locali assunte specie dai negotiatores, per l’esercizio di pubbliche cariche e sovrattutto per la partecipazione sicuramente attestata dei milanesi alla milizia cittadina, si siano amalgamate e fuse nel dèmos locale; non si ha notizia di milanesi che siano tornati nella loro città quando Giovanni Bono vi restituì la sede vescovile.
Come abbiamo più sopra ricordato, la Chiesa milanese mantenne i suoi diritti patrimoniali, sia nella città di Genova, che nelle quattro pievi del contado, fino al secolo XIII; questi diritti furono feudalizzati da un ramo della famiglia viscontile che esercitò ereditariamente l’avvocatura della Chiesa stessa in Genova. Certamente, l’ereditarietà di questa carica non potè stabilirsi che in età molto posteriore al ritorno del metropolita a Milano, ma è probabile che una lunga consuetudine avesse mantenuto l’ufficio nella discendenza di alcuno dei più antichi defensores della Chiesa ambrosiana durante la sua residenza genovese. Sarebbe questo un indizio per riferire ad un gentilizio milanese, comunque ad un’origine romano-bizantina, l’ascendenza della grande famiglia a cui appartennero i visconti; per questo, o per altri simili retaggi, forse un vero vincolo di sangue unì l’aristocrazia milanese immigrata nel 569 alla classe consolare protagonista della storia del comune nascente; comunque, è certo che la prima legò a quest’ultima il suo senso politico, le sue ambizioni e il suo orgoglio metropolitano. In forza di questo legato, dal 569 al 643, Genova fu una delle sedi dei grandi negozi politici dell’Impero e della Chiesa, specialmente nei loro rapporti col nuovo mondo latino-germanico.

Genova nei rapporti della Chiesa e dell’Impero con le monarchie barbariche
Gli avvenimenti politici e religiosi nei quali Genova ebbe una parte principale, fra il VI e il VII secolo, sono, da prima, la lotta per Punita dell’Impero nella quale il primate ligure interviene, non solo come animatore della resistenza armata agli invasori, ma come agente diplomatico dell’Impero nelle relazioni col Regno Franco; poscia le vicende della conversione dei Longobardi al cattolicesimo, a cui si connettono le ripercussioni nella Liguria bizantina e longobarda del persistente scisma aquileiese e tutto il nuovo orientamento della politica longobarda sotto il governo di Agilulfo, di Teodolinda e di Adaloaldo. …
In ogni caso, dopo circa un triennio di vescovado scismatico, o di sede vacante, nel 572, salì sulla cattedra di S. Ambrogio il vescovo Lorenzo, secondo di questo nome nella serie dei metropoliti milanesi. Nei suoi diciannove anni di Governo, fra il 572 e il 593, il vescovo sostenne la lotta contro i Longobardi, nel periodo più duro, allorché le schiere di Clefi, le orde sfrenate dei duchi, poscia i disciplinati eserciti di Autari e di Agilulfo, premettero sulla linea dell’imminente Appennino, delle Alpi Marittime, della Tuscia. Il novello vescovo, nel 572, aveva sottoscritto e giurato a Roma, insieme con altri nobilissimi, fra cui il praetor urbanus Gregorio Anicio, il futuro pontefice S. Gregorio Magno, una dichiarazione che proclamava inesistente la controversia dei Tre Capitoli, nell’interesse dell’unità della Chiesa; questa dichiarazione costituiva implicitamente un atto di fedeltà all’Impero e significava la promessa che l’ultimo lembo dell’Italia Occidentale rimasto nei confini della romanità avrebbe resistito. Questa promessa, confermata poi dai rapporti del vescovo con l’esarca di Ravenna, fu mantenuta con la più grande fermezza ; nobiles, preti e monaci, nel suo pontificato, entrano col suo consenso nella milizia. Il vescovo Lorenzo riprende l’autorità primaziale che, all’infuori di ogni confine giurisdizionale ed ordine stabilito, avevano esercitato Ambrogio e i suoi immediati successori nel mondo cristiano occidentale; la forza di questa tradizione, per cui il vescovo milanese riceve ufficialmente in Francia il titolo di patriarca, e il suo personale prestigio gli assicurano il costante favore della corte franca; nel 584, Lorenzo sollecita la spedizione effettivamente compiuta, in quest’anno, da Childerico, in Italia, contro i Longobardi. Anche in mancanza di ogni altra più precisa notizia, questo solo documento rimastoci dell’attività diplomatica di Lorenzo (seguitata poi dal suo successore) ci assicura che egli ebbe una parte primaria nella conclusione di quell’alleanza fra l’imperatore Maurizio e i Merovingi, sollecitata dal cattolico fervore della regina Brunechilde, che soltanto la barbara inesperienza e la incerta fede dei duci franchi spediti in Italia fece fallire al fine prefisso.
Alla morte del patriarca, nel 593, tre anni dopo l’avvento di Agilulfo, quando per l’influenza della regina Teodolinda un regime di tolleranza e poi di aperto favore verso i cattolici si instaurava nel Regno, i rapporti fra le due Ligurie bizantina e longobarda si erano profondamente trasformati ; la maggioranza dei vescovi si era ristabilita nelle diocesi padane; per il primate sedente a Genova questo non era più un territorio vietato; caso singolare, alla sua propria comunione diocesana apparteneva la stessa cattolica regina, data la sua ordinaria residlenza a Monza. Ma i cattolici rimasti, dopo l’invasione, nei confini del Regno avevano subito l’influenza dello scisma aquileiese, continuazione del vecchio scisma veneto-ligure, a cui aderirono alcuni vescovi restituiti nelle loro diocesi. Dal punto di vista dogmatico, lo scisma rappresentava una corrente intrasigente nella difesa della ortodossia cattolica, riaffermante la piena autorità del Concilio di Calcedonia di fronte ai decreti del V Concilio Eucumenico convocato da Giustiniano; ma implicitamente lo scisma significava un’opposizione politica all’Impero nel suo aspetto cesaro-papistico; pertanto, l’agitazione scismatica fu favorita dai sovrani longobardi, pur nella loro nuova politica filocattolica. …
Il pontificato di Deodato a Genova, continuò oltre un quarto di secolo, nel periodo della pacificazione fra i Bizantini e i Longobardi e durante il predominio del partito cattolico nel Regno, senza che sia giunto a noi alcuna particolare notizia dei suoi atti. La regina Teodolinda era rientrata, a questo tempo, nella comunione del primate; sappiamo che essa frequentava la Marittima, come mostra una sua lettera del 603 inviata a S. Gregorio Magno, dalle parti di Genova, nella quale è cenno della nascita del futuro re Adaloaldo. L’effettiva autorità del metropolita milanese rimase circoscritta nei limiti della Liguria bizantina. Non ci stupisce pertanto che il successore di Deodato, eletto nel 629, Asterio, sotto cui, forse, come abbiamo supposto, si unirono le diocesi milanese e genovese, sia chiamato episcopus genuensis come appare da un cenno del venerabile Beda, nel riferire come egli, per delegazione del papa Onorio I, nel 638, consacrasse il vescovo Birino all’evangelizzatore del Wessex.
La notizia di questa insigne missione del vescovo Asterio non è priva d’importanza riguardo alla storia particolare di Genova, giacché c’informa che la città e il porto furono, nel secolo VII, la base itineraria delle relazioni fra Roma e l’Inghilterra già avviatesi nel 596, allorché S. Gregorio Magno spedì presso gli Angli e i Sassoni il monaco Agostino, il futuro vescovo di Canterbury. Nel 680, Cledoal, re dei Sassoni occidentali convertiti da Birino, per varias gentes, per freta, perque vias, cioè attraverso la Francia e per la via marittima da Genova ad Ostia, venne a Roma a ricevervi il battesimo; trentasette anni dopo, il suo successore finì il suo regno e la sua vita in pellegrinaggio alla tomba degli Apostoli; l’esempio dei re fu seguito, dice Beda, dalla nobiltà degli anglosassoni, da chierici e laici, uomini e donne, consuetudine notata poi nel secolo VIII, quasi negli identici termini, da Paolo Diacono; viva corrente di pietà e di cultura percorrente la Marittima, di cui ritroveremo il pieno frutto nel Rinascimento carolingio.
Alla morte di Asterio, nel 640, fu elevato alla cattedra il vescovo Forte che sedette tre anni e sotto il cui governo avvenne, con la corsa vittoriosa di Rotari, l’annessione della Marittima al Regno Longobardo. …

Influenze romano-bizantine sulla costituzione civica genovese
L’influenza dell’elemento greco-orientale sulla cultura, la lingua, il costume genovese nel periodo di oltre un secolo nel quale la città rimase unita all’Impero, non può che essere stata larga e profonda. Durante la ventennale guerra gotica e dopo l’invasione longobarda fino agli inizi del VII secolo, stanziarono nelle città della Liguria e nei castelli del limes corpi regolari di truppe bizantine reclutati in massima parte fra le popolazioni ellenizzate dell’Asia Minore e della Penisola Balcanica; greci, o greco-orientali furono senza dubbio i magistrati civili e gli ufficiali superiori dell’esercito, come appare, a titolo d’esempio, dal nome del comes e tribuno d’Albenga Tzittane. …
In tutta la Liguria marittima, salvo qualche frammento, mancano i monumenti dell’antica arte bizantina; non vi è traccia, fra l’altro, della scultura funeraria bizantino-ravennate i cui tipi ebbero così larga diffusione nell’Italia imperiale del VI secolo. La serie dei sarcofagi genovesi si arresta al IV o agli inizi del V secolo, con sculture, in ogni modo, ripetenti i modelli più antichi di pura ispirazione romana come il sarcofago di Santo Stefano da noi studiato più sopra ed altri che possono attribuirsi alla medesima età di questo. Una simile lacuna si verifica anche nella serie dei monumenti di Albenga e Ventimiglia, fra le opere del V e alcuni gruppi di sculture bizantino-longobarde assegnabili agli inizi dell’VIII secolo; del pari, a Luni, fra i relitti della cattedrale, si hanno copiosi elementi del secolo V e dei secoli VIII e IX, scarsi e difficilmente caratterizzabili elementi intermedi. Se ci fossero stati conservati la basilica e il palazzo di Sant’Ambrogio a Genova, rasi al suolo per dar luogo all’attuale, splendido edificio barocco, la chiesa primitiva di S. Giorgio, i sacelli, nei quali, al tempo del vescovo Costanzo, furono riposte le reliquie di S. Paolo Apostolo e dei SS. Giovanni e Pancrazio, le arche funerarie dei vescovi e dei magnati milanesi sepolti in S. Siro, avremmo certamente delle testimonianze d’arte bizantina; ma bisogna concludere, in generale, che l’attività artistica, nell’età ferrea dell’assedio longobardo, fu assai limitata nella Liguria.
L’influenza romano-bizantina si esplicò sovrattutto nel fondare la tradizione giuridica e costituzionale genovese.
Nel 554 le provincie delle Alpi Cozie e delle Alpi Appennine ricevettero la Prammatica Sanzione pro petitione Vigilii, complesso di costituzioni per le quali i proprietari romani venivano reintegrati nel possesso delle terre cedute ai Goti, salvo alcune limitazioni, e risarciti dei danni e delle perdite subite durante la guerra. Alla data dello sbarco dei bizantini, nel 538, entravano in vigore a Genova il Digesto e il Codice giustinianei ed in seguito vi ebbero applicazione le Novelle. Della continuità del diritto romano-bizantino a Genova per tutto l’alto Medio Evo sono una prova le disposizioni della consuetudine di cui abbiamo un testo datato il 1056, ma che sono già ricordate e confermate, come vigenti da un tempo immemorabile, nella charta civitatis largita dai re Berengario ed Adalberto, nel 958, omnibus habitatoribus in civitate januensi; secondo precise attestazioni delle epistole gregoriane, talune di queste norme appaiono già in vigore nella città sulla fine del secolo VI. In generale le eccezioni fatte dalla consuetudine al diritto longobardo riguardo alla condizione giuridica della donna, allo stato della popolazione servile, all’uso del duello giudiziario, mostrano la tenace resistenza della tradizione romano-bizantina, la quale si manifesta poi vigorosamente anche di fronte agli istituti feudali, nell’età della Marca. Donde la particolare evoluzione dei diritti signorili dei visconti e il fatto eccezionale nella storia dei grandi comuni dell’alta Italia che il vescovo non abbia mai acquistato una vera districtio nella città e nel suo territorio. L’autorità politica del vescovo, prima di radicarsi nella compagna, non ebbe titolo da nessuna concessione imperiale, ma si svolse dalle antiche funzioni amministrative deferite ai vescovi dalla legislazione giustinianea; i diritti fiscali che, all’infuori delle decime ecclesiastiche, gli appartennero in città furono di tutt’altra natura delle regalie possedute dai marchesi e dai visconti: essi si ricollegano alla collecta a cui erano obbligati gli habitatores civitatis già nella seconda metà del secolo VI. …
A Genova, la presenza di milizie cittadine risulta sicuramente provata da una lettera di S. Gregorio Magno al vescovo Costanzo del luglio 594, ma riferentesi all’anteriore periodo del vescovo Lorenzo; la lettera parla d’un ecclesiastico, un grande personaggio della curia milanese, Fortunato, contro cui il vescovo ha istituito un processo disciplinare e del quale, fra l’altro, si dice che, al tempo di Lazzaro, col suo consenso, aveva militato in numeris. Più tardi, nel novembre 597 il papa notificava allo stesso Costanzo e ad altri vescovi dell’Italia bizantina che gli obbligati alla milizia non potevano vestire l’abito ecclesiastico né monacale. I numeri [militari] nei quali militavano i nobili e gli ecclesiastici di Genova, non poterono essere il corpo dei semibarbari Leti da noi conosciuto od altri reggimenti di stipendiati formanti il presidio della città, ma furono corpi locali costituiti sulla base della coscrizione obbligatoria, come dice, del resto, testualmente la seconda epistola gregoriana da noi citata. A stretto rigore, poiché le notizie sopra riferite riguardano persone in rapporto con la curia milanese, potremo intendere che, nel caso, si trattasse di un corpo militare formatosi a Genova fra i rifugiati, così come era sorto a Ravenna un numerus mediolanensis; ma, in ogni modo, questo implica la formazione contemporanea di numeri indigeni.
Il monumento sacro dell’exercitus cittadino a Genova fu la vetusta basilica di S. Giorgio, i cui documenti non sono anteriori al 947, ma la cui fondazione deve attribuirsi all’età bizantina. Fin dal secolo IV, in Oriente, il leggendario cavaliere di Cappadocia, del quale è tanto oscura la vita storica, fu assunto a patrono dell’esercito e defensor dell’Impero nella lotta contro i Barbari; il suo culto fu portato in Liguria dalle schiere greco-orientali venute a combattere nella guerra gotica, od a presidiare il limes contro i Longobardi: del che sembrami aver trovato la traccia, nell’esplorare e studiare il tractus lunese-emiliano, in diverse chiese col titolo del Santo che si associano a castelli limitanei. A Genova, tutte le memorie di S. Giorgio, quale patrono e vessillifero del Comune, più propriamente del populus nella sua organizzazione militare, cioè del Comune nella forma anteriore alla costituzione consolare, si ricollegano, nelle tradizioni più remote, alla chiesa che porta il suo nome. Qui si custodivano il vexillum magnum con l’effigie del Santo, cioè lo stendardo militare della Repubblica, e l’aureo scettro ch’era l’insegna dei comandanti dell’armata; l’offerta fatta alla chiesa nel 1147 sul bottino della vittoria di Almeria indica sicuramente una consuetudine antichissima. La basilica georgiana sorgeva nel luogo del forum della città romana, senza dubbio usato per le convocazioni del populus fino a tutta l’età romano-bizantina; in questo luogo, i numeri, reclutati secondo la divisione topografica della città per contrade, formante, in pari tempo, la base del raduno popolare, dovettero fondare in comune il loro sacrario. Se il tempio ricostruito nel secolo XVII ha conservato dell’antico, sia pure in forme nuove e magnificate, l’icnografia generale, come spesso avviene per esigenze rituali, la demolita chiesa di S. Giorgio doveva presentare le forme tipiche di un edificio bizantino a pianta centrale.
Sotto l’influenza del diritto privato e pubblico romano-bizantino, nel periodo secolare in cui la città rimase unita all’Impero d’Oriente, germogliarono dunque i semi della futura costituzione medievale genovese: la consuetudo, il governo aristocratico-militare, la compagna armata con il suo vexillum, il sentimento stesso della libertas, giacché questa parola, nel suo vero ed originale valore, significa l’appartenenza alla Romana Respublica.

 

 

 

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URBANISTICA DAL VI SECOLO

Barbieri Piero, Forma Genuae, Edizioni del Municipio di Genova, 1938.

La civitas, si è detto, comincia ad espandersi coll’arrivo dei profughi milanesi – per opera loro il Brolio diventa abitato ossia borgo, e presso la cappella da essi dedicata a S. Am­brogio viene eretto un palatium o domus che è la sede degli Arcivescovi milanesi durante la loro permanenza in Genova, 569-644. Le case in legno costruite a loro dimora vengono alzate nu­merose attorno a S. Ambrogio, in risalita sulle pendici meridionali del Colle di S. Andrea; una accosto all’altra si raccolsero a gruppi frammezzo a vicoli poi rimasti a percorrere in più sensi il Colle, i quali vicoli, quando erano ancora semplici sentieri tra i diversi poderi, s’incontravano e proseguivano da una falda all’altra con una continuità che attira la nostra attenzione. Infatti, una volta che le incursioni dei Normanni attraverso il Tirreno (51) e le aggressioni dei Mussul­mani contro Genova stessa ebbero consigliato in modo urgente ad elevare un’altra cinta, più non essendo stata ricostruita quella romana smantellata da Rotari, la nuova muraglia dilata oltre Canneto a racchiudere la città laurenziana e col nuovo tratto viene a interrompere ed arrestare il corso di quei vicoli, tagliando la loro rete e riducendone parecchi a vie cieche.
La cinta del X secolo ci dà a questo modo la misura del primo ingrandimento effettivo al di là della città romana, che per l’anno 80o è definita dal Ganducio satis parva (52); deviando per isbieco dalla Porta Soprana, il muro tagliava in due il Brolio, abbracciava dentro di sé l’area di S. Ambrogio e di S. Lorenzo, difilava ad occidente, e piegando a San Pietro sul mare si ricon­giungeva col vecchio a Canneto.
Due porte subentrano alle antiche: l’una di fronte all’arcivescovado che fu detta di Valle
Serravalle, l’altra di San Pietro che da lungo tempo dette nome alla Chiesa.
La trama cittadina non per questo sembra subire variazioni rispetto al periodo prece­dente: la città laurenziana racchiusa da tale allargamento della cinta prosegue la scompartizione a reticolato della zona di Canneto nella parte piana, e nella parte verso la collina fa convergere le arterie longitudinali al nodo in capo al piano di Sant’Andrea, ad imitazione ed integrazione di quanto era già avvenuto per la regione di Ravecca onde sfociare la rete viaria interna nel Car­rubeo recto di Ponticello, nella via romana orientale. Però nel complesso urbanistico della città si delinea da questo momento un importante fenomeno, cioè una sensibile attrazione del centro politico cittadino esercitata dalla regione attorno al Brolio ai danni di quella di Castello e di Pa­lazzolo: azione dovuta in gran parte al nuovo ordinamento della città, che comincia a svolgersi appresso al trasporto della Cattedrale da San Siro a San Lorenzo, effettuato nell’anno 985.
Posto fine al Municipio romano dalla riforma di Giustiniano, la guida del governo è assunta dalla Comunitas Fidelium retta dal Vescovo e dai patres civitatis: sulle proprietà co­munali si stende l’amministrazione della Curia Vescovile, nel mentre i monasteri e le altre fon­dazioni ecclesiastiche allargano con autoritaria occupazione o per successive concessioni e lasciti il loro possesso su vaste terre. A Genova per esem­pio l’Abbazia di San Siro possedeva fino a tutto il planum di Castelletto che solo nel 112o veniva loro tolto dai Consoli dello Stato a causa della sua importanza strategica, Sant’Ambrogio godeva dell’intero Brolio, il monastero dei Benedettini bobbiesi di Santo Stefano occupava tutta la plaga orientale lungo il rivo Torbido verso il mare, la Curia Arcivescovile fra l’altro amministrava la Domoculta di San Vincenzo alle falde dello Zer­bino oltre quella compresa fra il Brolio e Luculi
e anche terre sul colle di Sarzano, in vetta al quale stando alla narrazione del Federici Re Liut­prando, recatosi in Genova attorno al 726 per ri­cevere le ceneri di S. Agostino, avrebbe costruito la residenza estiva dei Vescovi genovesi, il Palatium de Castro Januensis Archiepiscopi.
Ma a questa opulenza civile non corri­sponde una veramente notevole preponderanza politica dei Vescovi e del clero, che intervenivano nelle solennità civili e nei parlamenti in forza dell’autorità morale loro derivante dall’ufficio re­ligioso quasi per dare la consacrazione della fede cattolica alle cerimonie ed ai patti che venivano stipulati, più che per essere dotati di una vera e propria veste di comando nella gestione dello Stato. Così che fino a quando la cattedrale resta a San Siro, il centro civile cittadino appare rimanere ben accosto al Castrum, al vecchio nucleo ori­ginario; i reggitori civili dovevano verosimilmente avere la loro sede nel Castello o nelle sue im­mediate vicinanze. Ne dà prova lo stabilirsi proprio in questa regione delle prime famiglie no­bili; sono gli Embriaci, i Cattaneo, i Volta, i Castello, che qui costruiscono le case e le torri, e ai quali si aggiungono gli Zaccaria, i Salvaghi e gli altri, mentre tutt’attorno al margine della città dilagano i possessi ecclesiastici.
Quando però la cattedrale da San Siro s’insedia a San Lorenzo e il Vescovo chiama a raccolta nel segno della Fede nobili e cittadini per la comune difesa contro gli aggressori esterni stabilizzando definitivamente il centro religioso della città, questo contribuirà a esercitare sul centro civile quella attrazione che sarà capace di sradicarlo dal vecchissimo cuore di Genova. E prima ancora che con uno spostamento radicale la sede del Comune finisca col trasportarsi nel XIII secolo proprio sull’altura di Serravalle accanto ai palazzi Arcivescovili, già vediamo i Con­soli del Comune a deliberare lontano dal Castrum: ne è prova infatti il lodo del 20 Gennaio 1258 decretato nel Refettorio delle Monache di Sant’Andrea (53).
In quanto ai Consoli dei Placiti questi già dal 1145 avevano preso a radunarsi nel palacio novo S. Laurencii come risulta dal loro decreto del Gennaio 1145 col quale deliberavano il fitto annuo che avrebbero pagato alla Curia si placitaverint nel palazzo stesso, e ciò in considerazione che l’Arcivescovo lo aveva costruito ad honorem et utilitatem Comunis (54).

Note e Bibliografia. (51) Nell’anno 86o i Normanni erano sbarcati alla foce del Magra, avevano distrutto la città di Luni e predato tutta la riviera di levante. (52) Vedi anche presso il Celesia, Della Topografia primitiva di Genova, 1886. (53) Liber Jurium, T. I., col. 1266. (54) Atti S.L.S.P. Vol. II. Parte I. – pag. 74.

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GENOVA SOTTO LA MINACCIA DEI LONGOBARDI

I MILANESI A GENOVA (569-641) 

LA CADUTA DI GENOVA

Poggi G., Genova preromana, romana e medievale, in Genova, Giovanni Ricci, Libreria Moderna, Galleria Mazzini, 1914

SOMMARIO : I Milanesi rifugiati in Genova — Genova centro della resistenza — Il vicarius Italiae a Genova — Il palatium e la Basilica S. Ambrosii — Il brolio abitato dai Milanesi — La massa degli emigrati intorno a S Siro ed allo antiche chiese di S. Pancrazio, S. Marcellino, S. Sabina, S. Fede, S. Vittore, S. Sisto — Le opere di difesa contro i Longobardi — L’assalto di Rotari e la caduta di Genova romana (641).

Lasciando a parte la diceria se sia l’eunuco Narsete che, richiamato dall’Italia, chiamò per vendetta i Longobardi, certo è che nel 568 Alboino, a capo delle sue genti, scese per le Alpi Giulie, prese Aquileia ed Aitino e Treviso, e s’insediò a Verona. Prese nel 569 Milano senza resistenza, perchè il Vescovo Onorato, il clero ed i nobili si ritirarono in Genova. «Alboin igitur, Liguriam introiens indictione ingredienti tertia, tertio nonas septembris, sub temporibus Honorati Archiepiscopi Mediolanum ingressus etc….. Honoratus Archiepiscopus Mediolanum deserens, ad Genuensem civitatem confugit» (Paolo Diacono. De gestis Longobardorum). I Milanesi, come ben si comprende, trascinarono nel loro esodo altre genti della valle
del Po, ed Iacopo da Varagine, completando Paolo Diacono, scrive nella sua cronaca «Multi cliristiani fugientes a facie Longobordorum, Ianuam veniebant ut salvarentur in ea».
Genova assume in questo periodo un’importanza politica eccezionale perchè diventa il centro della resistenza nell’alta Italia. In Genova si stabilì il Vicarius Italiae rappresentante amministrativo dell’impero d’Oriente (Villari). Ma pare che il Vicarius non fosse che una larva e non pensasse che a spillar denaro. Ed è curiosa al riguardo una lettera di S. Gregorio Magno a Costanzo, vescovo milanese sedente in Genova, ove gli dice di ricevere benevolmente il nuovo vicario Giovanni, ma lo ammonisce che tale commendatizia la faceva perchè non poteva esimersi dal farla; si guardasse però dall’imprestar denaro al greco che arrivava, e non si lasciasse turlupinare, come dal vicario precedente, che era andato via (Troia. Codice diplomatico longobardo. I p.).
La resistenza di cui parliamo era organizzata dai nobili e dal Clero in relazione con Roma, perchè gli Italici non potevano rassegnarsi ad uno stato di cose così disastroso, spossessati come erano delle loro città e dei loro beni. La Chiesa era vivamente colpita dall’incameramento del patrimonio delle Alpi Cozie.
Sulla «provincia delle Alpi Cozie» si fecero molte discussioni, per sapere quando questa provincia fu istituita e quale fosse la sua vera entità geografica. Fin dal sec. XVIII ne ragionava con molto acume l’Abate Oderico nelle sue «Lettere ligustiche»; nel secolo scorso il Mommsen, il Fa- vre, il Cipolla, il Barelli. La questione parmi sia stata chiarita dal Caboto nella sua storia dell’ Italia occidentale p. 581.
Colla venuta dei Longobardi, diversi paesi a pie’ dell’Alpi e dell’Appennino, rimasti esenti dall’invasione, furono uniti in una provincia sola, che ebbe il suo centro in Genova. Ciò spiega come in Genova si stabilì il «Vicarius Italiae». La provincia si chiamò delle Alpi Cozie e Apenninae e per brevità Alpi Cozie. Essendo la maggior parte delle terre di questa provincia abbandonate, Giustiniano ne aveva fatto donazione alla Chiesa, di qui il tanto discusso patrimonio delle Alpi Cozie che i Re Longobardi, ritenendosi ornai padroni di tutta Italia, avevano in gran parte occupato intaccando la provincia da ogni parte.
Le lettere di S. Gregorio Magno, e gli altri documenti pubblicati nel «codice diplomatico longobardico» dal Troja, ci rivelano una attiva corrispondenza fra Roma e Genova, un continuo sollecitare di aiuti, che non venivano, da Costantinopoli.
Il vescovo di Milano si era insediato nella cattedrale dei XII Apostoli, che già fin d’allora pare che avesse preso il nome di S. Siro, e siccome il Metropolita, funzionava da Arcivescovo di Milano e Vescovo di Genova ad un tempo.
Ma siccome la cattedrale restava fuori mura, pare che l’Arcivescovo per essere piò al sicuro abbia preso residenza in Castelletto, per sistemarsi poi nel brolio (Per secoli e secoli il brolio fu posseduto dai Milanesi fino al sec. XIII. In seguito i Genovesi chiamarono quello regioni «gli orti di S. Andrea». Notiamo che la parola orto significa in antico semplicemente «recinto». La regione è scomparsa colla demolizione del colle di S. Andrea; o sul luogo dell’antico brolio sorsero i palazzi della Posta, della Borsa e delle Banche, o si allargò la piazza che sta fra-la Borsa e Palazzo Ducale), ossia nel boschetto ove era l’antico sepolcreto. Ivi fu eretta una casa che fu detta «palatium» ed una cappella, che serviva probabilmente alle riunioni politiche e religiose della comunità Milanese. Era la basilica «S. Ambrosii», di cui parla lo Stella, che era al posto della navata sinistra della chiesa attuale verso vico Paglia, come ha dimostrato il Podestà (Podestà. Il colle di S. Andrea). A fianco alla cappella era il palatium che prospettava esso pure sulla piazza. La sua facciata corrispondeva alla facciata odierna della chiesa (navata centrale e navata destra).
Quanti conciliaboli, quante discussioni in quella modesta cappella di S. Ambrogio, che il bel tempio cinquecentesco ha ormai fatto dimenticare. Quante volte la misera folla dei profughi si sarà accalcata sulla piazza ad attendere dai maggiorenti che erano radunati, qualche notizia confortante che mai non veniva.
Quella cappella fu per 70 anni il parlamento degli italiani, anelanti alla riscossa; di là partivano i messi diretti al papa e all’imperatore di Costantinopoli, là si discuteva su quella che fu la più disgraziata di tutte le soluzioni, la chiamata di uno straniero per cacciarne un altro.
I nobili Milanesi abitavano probabilmente in case di legno costrutte nel brolio, alle spalle del palatium e della basilica S. Ambrosii. Erano quindi compresi nella cerchia fortificata. Ma la gran massa di gente venuta da Milano e dagli altri paesi della valle padana, Libarnesi, Lomellini, Pavesi, non poteva capire in quel luogo, e giustamente opinava il Belgrano supponendo che intorno alla Cattedrale, a S. Pancrazio, a S. Marcellino, a S. Fede, a S. Sabina, a S. Vittore, a S. Sisto, dovesse esistere il grosso di quell’esercito di fuggiaschi.
Una difesa della città deve essere stata organizzata in quel tempo perchè, se poteva essere più o meno inerte il vicarius e il presidio greco, vi erano troppe persone interessate ad agire, voglio dire Genovesi e Milanesi, con tutte le altre genti che si erano trascinate in Genova. Un indizio di queste nuove difese è probabilmente quella torre bizantina di cui abbiamo trovato gli avanzi sotto il Monastero di S. Andrea. Essa era destinata a proteggere la città dalla parte di levante contro una possibile invasione, che fosse diretta al valico che era fra il colle di Piccapietra e quello di S. Andrea. I resti di quella torre facevano testimonianza che era stata addossata a un muro. Ciò che farebbe ritenere che, almeno nel momento della estrema difesa, si sia costrutto un muro verso levante, come esisteva dalla parte di ponente.
Oltre le mura e le torri di cinta, erano comuni a quei tempi le torri di guaita (Gueità in genoveso significa: spiare, guardare. È il «guetter» francese) nei punti più elevati fuori città per avvertire in tempo l’approssimarsi del nemico. Una di queste torri doveva essere quella del Faro, come si è già dimostrato al cap. IlI, un’altra quella di Castelletto. Ma una terza deve essere stata eretta a levante, sotto la minaccia dell’invasione longobardica, a S. Stefano. Ce ne fornirono la prova le recenti esplorazioni, dalle quali è risultato che la torre che vediamo attualmente preesisteva alla Chiesa longobardica, il S. Michele, che divenne poi S. Stefano.
Altro documento che ci ricorda la difesa della città contro i Longobardi è quella lapide che esisteva a S. Sabina, a ricordo di un Eliceto «magnus miles» morto in Genova nell’ anno 591 «imperante domino nostro Mauritio Tiberio» (Vedi Corpus I. L).
Questa lapide del 591 vuol essere studiata con quella del 542, che parla di Bono «qui Genuensi praesidio prae- erat ». Abbiamo in esse la prova che all’epoca dei Greci era in Genova una stazione militare, come era del resto in tutti i punti di qualche importanza. Procopio nella sua «guerra gotica» parla ad ogni poco dei presidii che erano sparsi per tutta Italia. Si aggiunga il fatto eloquentissimo che mentre l’Oppidum e la regione di S. Lorenzo avevano le loro chiese, e molte chiese esistevano da S. Siro a Prè, nessuna chiesa ebbe la valle di Soziglia fin verso il 1009, e si avrà una buona conferma che questa doveva essere occupata dagli eserciti.
Sono probabilmente di quel tempo certe difese che troviamo all’imbocco delle valli del nostro Appennino, p. e. quel castro che fu scoperto in vai d’Orba a un chilometro da Silvano nel luogo che io ritengo l’antica Rundinaria. Esso è descritto dal prof. Campora nel Bollettino Storico Subalpino anno XVI. Altre difese proprie di quel tempo sono le rotture delle strade di cui si è già parlato.
Settant’anni durò l’ansia del pericolo, alternata da speranze di pace, cui davano luogo le continue trattative coi Longobardi. Vi fu un periodo, sul principio del 600, in cui si incontrarono in queste trattative due grandi anime, papa Gregorio Magno e la regina Teodolinda. Essi avevano compreso i grandi vantaggi di uno Stato italiano colla fusione dei due elementi latino e barbarico. Quante altre sventure si sarebbero evitate se l’Italia avesse potuto sin d’allora ricostituirsi con programma di unità e di indipendenza! Da molti indizi si ricava che anche questo episodio di altissima importanza ebbe in Liguria il suo svolgimento. Nel settembre del 603 il papa scriveva una gentilissima lettera alla regina longobardica, la quale gli aveva annunziato che stava per diventar madre, e chiedeva forse l’intervento del papa per il battesimo. Il papa manda affettuose benedizioni ed auguri, si duole che la podagra gli impedisca di muoversi, manda alla regina diversi doni. Da questa corrispondenza risulta che la regina dimorava allora « in partibus Januensibus ». Non era dunque a Genova, ma nel suo territorio, probabilmente nella bella riviera.
Sapendo che Rapallo era una pieve dei Vescovi di Milano, ove probabilmente essi trascorrevano l’estate, sapendo che nel colle di S. Margherita era un’ antica «corte» longobardica, e che se la regina Teodolinda era in Liguria, vi era per trovarsi a contatto coi Vescovi milanesi e trattare il tanto desiderato riavvicinamento, parmi non essere fuor di luogo l’ipotesi che sul bel colle di Corte, ove oggi è il palazzo Centurione, potesse essere nel 603 il luogo ove dimorava la regina Teodolinda, dove si decidevano le sorti della politica italiana.
Fu breve sogno, perchè morto il papa e la regina Teodolinda, i propositi di conciliazione svanirono, gli Italici riattivarono le trattative per la discesa dei Franchi, i Longobardi si apprestarono dal canto loro a completare la conquista.
In questo periodo veramente drammatico della storia di Genova la disposizione della città sarebbe, secondo gli studi nostri, la seguente. In Soziglia il presidio, col suo stato maggiore al pretorio (teatro Carlo Felice); a S. Ambrogio l’arcivescovo di Milano e intorno al palazzo arcivescovile il clero e i nobili milanesi, la città dei Genovesi a Castello, la città romana da S. Lorenzo al mare, la cattedrale a S. Siro, e intorno ad essa una turba infinita di esuli.
Finalmente Rotari, re dei Longobardi, ruppe ogni indugio, e nell’anno 641 entrò nella Lunigiana. devastò Luni, salì la Vea, traversò il Bracco, e irruppe in Genova.
Paolo Diacono scrive «Igitur Rothari rex, Romanorum civitates ab urbe Tusciae lunense universas quae in littore maris sitae sunt, usque ad Francorum fines capit». Fredegario, cronista dei Franchi, così narra la conquista di Rotari «Chrotarius cum exercitu Genovam maritimam, Albinganum, Varicottim, Saonam et Lunam civitates litoris maris de imperio auferens, vastat, rumpit, incendio concremans, populum diripit, spoliat et captivitate condemnat, murosque earum usque ad fundamentum destruens, vicos hac civitates nominare praecepit».
Nulla ci dicono le vecchie cronache genovesi del fatale scontro, che segnò la fine di Genova romana. Non hanno cronisti le grandi catastrofi!
Ma tutto il complesso della nostra storia ci fa comprendere che le popolazioni erano avvilite dalla miseria e dall’abbandono, paralizzate dal terrore. Erano abituate a lasciare ai mercenari dell’impero la cura della difesa, ed ora per la prima volta capivano che bisognava fare da sè.
Genova più di tutte lo comprese, e trovò fortunatamente la via che doveva condurla ad una splendida risurrezione, come si vedrà nella II parte di questo libro.
Finito di stampare il dì XXX Marzo MCMXIV nella Tipografia Moderna di Castrocaro

 [ulteriori immagini saranno inserite appena verranno prodotte]

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L’ETÀ LONGOBARDA
PRIME RELAZIONI DELLA LIGURIA COL MONDO ISLAMICO
(643-774)

Fiorentini Ubaldo, Genova nel basso impero e nell’alto medioevo, in Storia di Genova dalle origini al nostro tempo, vol. II, Garzanti, Milano, 1941.

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V – VIII secolo

Autori Vari

A. 568. I Longobardi. Accadde sotto il regno di Giustiniano, che Alboino re de’ Longobardi sostenuto da un corpo di Sassoni, uccise in battaglia il re de’ Gepidi, e sposonne l’unica figlia Rosemunda. Questa vittoria gli accrebbe tanta potenza, che Narsete comperò i suoi ajuti per vincere i Goti, e poi stimolò la sua ambizione per vendicarsi de’ Greci. (A. 568) Veramente non ebbe sì tosto conchiuso il trattato e scoperto i passi, che gliene dolse; ma il pentirsi e morire fu quasi un’ora. Senza indugio e senza contrasto avendo i Longobardi salite l’Alpi Giulie, scopersero per la prima volta quel vasto piano, che doveva per sempre portare il lor nome. Allora il patriarca insieme co’ migliori uomini d’Aquileja fuggì nelle lagune del mare Adriatico; e poco appresso l’arcivescovo Onorato co’ cittadini più riputati di Milano ricoverarono a Genova. (A. 569) Alboino non gl’inseguì; ma prima d’incamminarsi, com’era disposto, a Roma, volle celebrare in Verona un sontuoso convito, sulla fine del quale, quando hanno i licori più forza, si fe’ recare il teschio del re de’ Gepidi, colmollo di vino, ne attinse i primi sorsi, e sforzò la moglie a bere il resto. Giurò Rosemunda sul cranio del padre, che ammazzerebbe il marito, e mentr’ ei dormiva compiè il barbaro voto. Ond’ ella (A. 572) ed Almachilde suo complice, carichi di tesori, fuggirono dalla vendetta de’ Longobardi in Ravenna, le cui fortificazioni accresceva Longino comandante de’ Greci in luogo di Narsete. …
I Longobardi non avevano mai valicato il ligure Appennino, ch’essi confondevano con l’Alpi Cozie. Rotari fu il primo, come vedremo distesamente a suo luogo. Il guasto ch’ ei diede alla città principale della Liguria marittima non fu men terribile e spaventoso di quello, che dato già avevano i Cartaginesi e i Franchi. Nè tardò più di loro a ripassar l’ Appennino. Il Friuli e il Modonese, il vescovo di Oderzo e l’Esarco di Ravenna, i Veneti e i Greci, tutti cederono all’impeto delle sue armi. Poscia si fece legislatore. Il suo editto precedè le leggi pubblicate da Luitprando, come l’editto perpetuo di Adriano il codice di Giustiniano. E come le leggi contemporanee de’ Burgundi e de’ Franchi, il codice di Luitprando non fu altro che una mescolanza delle consuetudini nazionali con le leggi scritte di Roma. Luitprando, nato da un padre cattolico, assunse questo bel titolo (A. 713) nel proemio del suo codice, e mostrossi tale comprando a caro prezzo le ossa del gran dottore della Chiesa latina s. Agostino, (Sigebert. Chron. in Stella lib. I) trasportate dall’Affrica al tempo de’ Vandali in Sardegna. Egli stesso andò a riceverle fino a Genova (A. 722) , ove in cambio delle lacrime e delle rovine che l’empio Rotari aveva causate, la sua pietà , le sue dolci e consolanti maniere destarono in tutti ciò che più vale delle conquiste, venerazione, gratitudine, amore. (Girolamo Serra, La Storia della Liguria e di Genova scritta dal marchese Girolamo Serra, Torino, presso Pomba, 1834.

V secolo (568). I Longobardi a Genova. L’invasione dei Longobardi costrinse il Clero cattolico milanese a rifugiarsi a Genova, dove la religione cristiana era già diffusa. In tutta la Liguria si diffusero i cattolici che aumentarono le ricchezze dei Liguri. (Donaver, 1913)

Il vescovo Onorato si insedierà nella chiesa di S. Ambrogio (ora chiamata del Gesù) posta nel Brolium (bosco o orto) presso la porta di S. Andrea alle pendici della collina del Castello. Dopo di lui saranno vescovi in esilio: Lorenzo Costanzo, Deus Dedit, Asterio, Forte e S. Giovanni Bono e alcuni saranno sepolti nell’attuale chiesa di San Siro fondata all’inizio del V secolo col nome di Chiesa dei santi Dodici Apostoli su un precedente sito funerario cristiano. (Zunino G., www.vegiazena.it)

VI secolo. La regina dei Longobardi, Teodolinda, soggiorna a Genova. (Donaver, 1913)

L’invasione longobarda in Milano costringe il clero a riparare a Genova e vi rimase per 70 anni. Venne eretta la cappella di S.Ambrogio dove nel sec. XVI sorse la chiesa omonima. (Donaver, 1890)

539. Saccheggio di Genova. il saccheggio da parte di Teodeberto, re dei Franchi, nella primavera del 539 d.C. (Angeli Bertinelli M.G., L’epoca romana imperiale e tardoantica, in Borzani L. Pistarino G. Ragazzi F., Storia illustrata di Genova, Elio Sellino Periodici, 1993)

544. Genova, guarnigione bizantina. nel VI secolo d.C. Procopio, narrando la conquista bizantina di Milano e della Liguria occupate dai Goti nel 537-538 d.C., cita Genova come estrema città della Tuscia. Qui, dopo la temporanea riconquista dei Goti nel 538-539 d.C., fu stabilita una guarnigione bizantina almeno nel 544 d.C., mentre in Italia gli Ostrogoti dilagavano sotto la guida del re Totila. (Angeli Bertinelli M.G., L’epoca romana imperiale e tardoantica, in Borzani L. Pistarino G. Ragazzi F., Storia illustrata di Genova, Elio Sellino Periodici, 1993)

VI secolo. Isidoro di Siviglia e Genova. Il toponimo di Genova … Ricomparirà del resto in età tardoantica, bizantina e altomedievale, oltre che nell’Etymologicum di Isidoro nel contesto di un’annotazione geografica, anche nel latercolo di Polemio Silvio, nel catalogo delle province d’Italia, nella Descriptio orbis Romani di Giorgio Ciprio, nella Cosmographia dell’Anonimo Ravennate e, nel XII secolo d.C., nella Geographia di Guidone. (Angeli Bertinelli M.G., L’epoca romana imperiale e tardoantica, in Borzani L. Pistarino G. Ragazzi F., Storia illustrata di Genova, Elio Sellino Periodici, 1993)

569. Inoltre dal catalogo delle province d’Italia, registrante una situazione amministrativa forse immediatamente precedente la conquista longobarda della Pianura padana, nel 569 d.C., risulta che Genua fosse allora inclusa, insieme con Acqui “dalle calde acque”, Tortona, il monastero di Bobbio e Savona, nella provincia delle Alpes Cottiae. (Angeli Bertinelli M.G., L’epoca romana imperiale e tardoantica, in Borzani L. Pistarino G. Ragazzi F., Storia illustrata di Genova, Elio Sellino Periodici, 1993)

VI secolo. San Siro e il basilisco. Gregorio Magno sullo scorcio del secolo VI d.C. accenna all’esistenza nella città della chiesa già intitolata a San Siro: nella leggendaria tradizione agiografica dell’XI secolo, relativa al santo, vescovo di Genova dopo Felice, compare singolarmente l’episodio del miracolo benefico della cacciata del basilisco dal pozzo della chiesa, che rievoca, seppur con distinti referenti culturali e diverse suggestioni religiose, il prodigio funesto, di antica memoria repubblicana, della repentina comparsa di un immane serpente sulla nave ancorata nel porto, quasi in una conclusione a cerchio dell’iter storico-narrativo. (Angeli Bertinelli M.G., L’epoca romana imperiale e tardoantica, in Borzani L. Pistarino G. Ragazzi F., Storia illustrata di Genova, Elio Sellino Periodici, 1993)

VI secolo. Arte paleocristiana. … Fra questi manufatti il sarcofago con intrecci e croci, attualmente presso la chiesa di Santa Marta, dimostra un livello culturale d’eccezione, ascrivibile forse a un ambito bizantino-ravennate, aperto tuttavia alle novità di un linguaggio che si può già definire altomedievale. (Cavallaro L., in Borzani L. Pistarino G. Ragazzi F., Storia illustrata di Genova, Elio Sellino Periodici, 1993) [fare foto]

VII secolo. Capitello nella cripta di San Nazario. Di estremo interesse, inoltre, il piccolo capitello con foglie di acanto, databile agli inizi del VII secolo, che si trova tuttora nella cosiddetta cripta della chiesa di San Nazario, al di sotto di Santa Maria delle Grazie. Benché in cattivo stato di conservazione, il fatto stesso che sia ancora in loco rende più preziosa la sua funzione di documento per quella che con tutta probabilità doveva essere non una reale cripta, ma invece una chiesa autonoma dedicata a San Nazario, presumibilmente fondata dal clero di Milano che si rifugia a Genova – come ho già ricordato – nel 569 in seguito all’occupazione longobarda della città. Le tracce principali di questo soggiorno sono secondo la critica proprio le numerose chiese fondate tra VI e VII secolo che portano dedicazioni di schietta marca milanese, quali Sant’Ambrogio, San Vittore e Santa Sabina, San Pancrazio e appunto San Nazario. Quest’ultima diventa ancora più importante in quanto l’unica tutt’oggi esistente – almeno in parte – nella fase originaria. (Cavallaro L., in Borzani L. Pistarino G. Ragazzi F., Storia illustrata di Genova, Elio Sellino Periodici, 1993) [fare foto]

614. Longobardi a Genova. Se non sembra attestato uno stanziamento cospicuo dei Longobardi in città, la loro presenza sarebbe tuttavia maggiormente documentata nel contado e in specifico nella valle del Bisagno e in quella della Fontanabuona. Inoltre il monastero di San Colombano a Bobbio, fondato con l’intervento della regina Teodolinda convertita al cattolicesimo, costituisce per i Longobardi un punto fermo che irradia la sua influenza anche su Genova tramite i nuclei religiosi cittadini ad esso legati quali San Pietro in Banchi, San Michele presso Santo Stefano e la distrutta chiesa di San Colombano nell’attuale zona di piazza Dante. (Cavallaro L., in Borzani L. Pistarino G. Ragazzi F., Storia illustrata di Genova, Elio Sellino Periodici, 1993)

629. Asterio vescovo di Genova. … Asterio, che dal 629 d.C. unificò le diocesi di Genova e di Milano ... (Angeli Bertinelli M.G., in Borzani L. Pistarino G. Ragazzi F., Storia illustrata di Genova, Elio Sellino Periodici, 1993)

636. Chiesa del san Sepolcro poi san Giovanni di Pre. La chiesa di San Giovanni di Prè si chiamava dal 636 chiesa del San Sepolcro in memoria della città di Gerusalemme che in quell’anno era caduta in mano ai Turchi. Nel 1098 nell’approdo dinnanzi alla chiesa furono sbarcate le ceneri di San Giovanni Battista. Nel 1180 fu eretta la chiesa superiore con il coro rivolto a levante, ma nell’800, per problemi di viabilità, il coro venne portato a ponente. In San Giovanni di Prè furono ospiti: Papa Urbano V, Papa Urbano VI e Sant’Ugo che vi morì. Sant’Ugo, della famiglia Canefri di Alessandria della Paglia (Pelia), fu Cappellano dei cavalieri di Malta e soleva ritirarsi in un punto della valle (Bregara) soprastante dove, si dice, aveva fatta scaturire una fonte d’acqua perenne (nei pressi di salita della Provvidenza). Nel 1746 gli Austriaci, in seguito ai moti del Balilla, avevano occupato la Commenda di Prè, ma furono fatti scendere dal campanile a suon di cannonate sparate dall’Acquaverde. Nel 1848 i genovesi furono assediati sul campanile della truppe del Lamarmora che bombardavano la città. Da quest’ultima insurrezione avranno luogo le costruzioni delle caserme piemontesi sul colle di San Benigno. (Miscosi, 1933)

641. Distruzione delle mura di Genova. Il re dei Longobardi, Rotari, saccheggia Luni, Albenga, Varigotti, Savona e distrugge le mura di Genova. (Donaver, 1890)

643. Genova distrutta da Rotari. … distruzione ad opera di Rotari, re dei Longobardi, nel 643 d.C. Genua, che per disposizione di Rotari, alla pari di altre civitates liguri, non avrebbe dovuto essere più neppure nominata, se non come vicus o piccolo villaggio, continuava invece la sua storia e si inoltrava, nell’incognita prospettiva di maggiori fortune, verso il Medioevo. (Angeli Bertinelli M.G., in Borzani L. Pistarino G. Ragazzi F., Storia illustrata di Genova, Elio Sellino Periodici, 1993)

645. Clero milanese e re Grimoaldo. Giovanni Bono da Camogli, era vescovo della Chiesa milanese, da cui Genova dipendeva. Nel 645, convertito al cattolicesimo il re Grimoaldo, riportò la sede vescovile a Milano. I genovesi cacciati dalla città nel 641 discesero dai monti e ricostruirono la città. (Donaver, 1890)

658 d.C. Ariberto I, re longobardo, fonda a Genova la chiesa di S. Maria di Castello  e la cappella di S. Nazario e Celso presso le Grazie, tra il Mandraccio e il Castello.  (Zunino G., www.vegiazena.it)

725 d.C. Liutprando (690-744), re longobardo, accoglie sulla spiaggia di San Pier D’arena le ceneri di S. Agostino sottratte agli arabi, e fonda una cappella presso la chiesa di S. Maria della Cella [attualmente in vico Ferrante Aporti a Sampierdarena] ed il Palatium Castri presso Sarzano dove pone un suo incaricato di governo. (Zunino G., www.vegiazena.it)

726. Reliquie di sant’Agostino nella chiesa di san Tomaso al capo d’Arena. Nel 726 dC, all’epoca di re Liutprando, furono depositate le reliquie di Sant’Agostino provenienti dalla Sardegna e dirette a Pavia. (Miscosi, 1933)

VIII secolo. Arte.  il pluteo con albero della vita in Santa Maria di Castello, oggi inserito in un tabernacolo rinascimentale, ascritto dalla critica all’VIII secolo. Il pezzo costituisce un’utilissima “fonte di pietra” per attestare l’esistenza della chiesa in epoca altomedievale: fonte ulteriore quindi – e tanto più preziosa in attesa di altri dati di tipo archeologico – che si affianca ai notissimi documenti forse negli Archivi Vaticani, i quali ascriverebbero la fondazione stessa a1 658 ad opera del re longobardo Ariperto (653-661), nipote di Teodolinda. (Cavallaro L., in Borzani L. Pistarino G. Ragazzi F., Storia illustrata di Genova, Elio Sellino Periodici, 1993)

[ulteriori immagini saranno inserite appena verranno prodotte]

 

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I POSSEDIMENTI A GENOVA

DEL MONASTERO DI SANTA GIULIA IN BRESCIA

VIII-X secolo

I possedimenti a Genova del monastero di Santa Giulia in Brescia nell’VIII-X secolo.
Da Giunta F., Misinta, n. 44, 2015.

Il monastero di Santa Giulia
Il complesso architettonico del monastero di Santa Giulia in Brescia viene descritto per la prima volta da Jacopo Malvezzi nel suo Chronicon intorno al 1412. Le origini del monastero di San Salvatore in Brescia risalgono al 753 (la data si ricava da un documento non molto antico, cioè dal Rituale del 1438: “In Christi nomine amen. Anno ab incarnatione Domini CCCCCCCLIII inchoatum fuit monasterium nostrum Domine Sancte Julie virginis et martiris, et similiter dotatum per excellentissimam dominam Ansam reginam uxorem Desiderii regis Lombardie. Postea consecratum fuit per dominum papam cum suis cardinalibus, prout invenitur in cronicis satis autenticis in dicto nostro monasterio.” (Brescia, Biblioteca Queriniana, Ms.H.VI.11)
La data 753 trova conferma poi nel praeceptum del gennaio 759 con il quale re Desiderio e la regina Ansa donano al monastero [di S. Salvatore ?], di S. Michele e S. Pietro, da essi edificato, le costruzioni del medesimo sull’area loro donata dal predecessore Astolfo, che regnò dal 749 al 757.
Che agli inizi vi sia stato un solo monastero dedicato a San Michele e a San Pietro cui sarebbe succeduto, con l’aggiunta o meno di altre strutture monasteriali, quello di San Salvatore è controverso. Rimane il fatto che in un diploma del gennaio del 759 il monastero risulta dedicato a San Salvatore. Infatti un diploma pervenutoci in forma apocrifa nel XII secolo, fortemente lacunoso ci impedisce di conoscere la realtà (Brühl, 1973), ma che i monasteri fossero nel 759 tutt’uno è convincente il fatto che la badessa fu sempre Anselperga, figlia di Desiderio e di Ansa.
Inoltre trova altra conferma dal documento del 26 ottobre 762 con il quale il papa Paolo I concede privilegi alla badessa Anselperga ed esonera il “venerabile monasterium Domini Salvatoris quod noviter fondare visa est Ansa excellentissima regina”, da qualsiasi giurisdizione del vescovo di Brescia, prendendolo sotto la sua diretta protezione.
Nel 759 il monastero risultava costituito dalle strutture precedenti con i suoi “claustra”, “cum ecclesiis et reliquis edificiis a nobis ibidem constitutis, atque area vel omnia coherentia ibidem pertinentia” [insieme alle chiese e ai restanti (tutti gli altri) edifici da noi fatti costruire in quello stesso luogo, e l’aia o tutti i fabbricati ad essa confinanti in quello stesso luogo] su terreni demaniali “qualiter iam dudum a predecessore nostro domno Astulfo rege nobis concessa fuit” [come già in passato furono a noi concessi dal nostro predecessore re Astolfo].
Il 4 ottobre 760 da Pavia Desiderio e Adelchi, ambedue re, e la regina Ansa confermano al monastero bresciano di S. Salvatore (in questo diploma non vi è cenno alla dedicazione a S. Michele e a S. Pietro) e alla sua badessa Anselperga i possessi già goduti dal monastero e pongono quest’ultimo sotto la loro protezione. In tale documento ritorna l’espressione vista nel precedente diploma: “Monasterio Domini Salvatoris quod nos Deo auxiliante intra civitatem nostram Brixianam a fundamentis ereximus et superna subveniente misericordia hedificavimus.” [al monastero di San Salvatore, che noi con l’aiuto di Dio abbiamo fatto erigere entro la città di Brescia e abbiamo fatto completare con l’aiuto della misericordia divina].

Possedimenti del monastero di San Salvatore – Santa Giulia a Genova
L’inventario o polittico di Santa Giulia datato al 905-906, ma che potrebbe anche essere stato redatto nel 879, è conservato in originale o in copia coeva presso l’Archivio di Stato di Milano, Museo diplomatico, capsa V, n. 225 (Pasquali, 1978). In esso sono inventariati i possedimenti del monastero bresciano. Verso la fine della pergamena si leggono questi paragrafi:


In eclesia s(an)c(t)i P(et)ri pupplica sunt (et)ia(m) in eadem altarii III, panni sirici III, linei VIII, coporturii III, calices stagneos III, patenas III, alba I, | corona argentea I, turibulum I, codices VI, campana I; casas XI, caminatas II, terra arabilis ad semi(nan)d(um) mod(ia) L, vinea ad anf(oras) XL, prata ad c(arradas) XX, | silva ad sagin(and)u(m) porcos LX; de frum(ento) mod(ia) XL, de seg(a)l(e) mod(ia) XXX, ordeo mod(ia) X, alaga mod(ia) II, de leg(umi)n(is) mod(ia) VIII; caballi II, boves VI, vacca I, | ircos III, porcos XXIIII, aucas X, pull(os) XX; et sunt sortes IIII, sup(er) quas sedent man(en)t(es) VI, qui redd(unt) de grano mod(ium) terciu(m), vinu(m) med(ium), pull(os) XVI, ova LXX, | et den(arios) XVI, et faciunt in ebd(omada) dies VI.
(Nella chiesa parrocchiale di San Pietro ci sono anche 3 altari, 3 panni di seta, 8 panni di lino, 3 copertorii [vestimenti] 3 calici di stagno, 3 patene [piatti], 1 patena bianca, 1 corona d’argento, 1 turibolo [incensiere] 6 libri, 1 campana, 11 case, 2 case con camino, 50 moggi di terra adatta alla semina, una vigna che rende 40 anfore, prati che producono 20 carri di foraggio, boschi per ingrassare 60 maiali, 40 moggi di frumento, 30 moggi di segale, 10 moggi di orzo, 2 moggi di melga […], 8 moggi di legumi, 2 cavalli, 6 buoi, 1 mucca, 3 cinghiali, 24 maiali, 10 oche, 20 polli, ci sono inoltre 3 proprietà fondiarie sulle quali lavorano 6 coloni che rendono 3 moggi di grano, mezzo [moggio?] di vino, 16 polli, 70 uova, 16 denari e lavorano 6 giorni la settimana.)

Sunt etiam in Genua homines liberi V, qui reddent de caseo libras CCXL.
(Ci sono anche in Genova cinque uomini liberi [di condizione diversa dai servi della gleba] che devono rendere formaggio per 240 libbre.)

Et sunt (et)iam in Eboregia homines liberi XX, qui red|dent de mel libras L.
(E ci sono anche in Eboregia uomini liberi che devono rendere di miele libbre 50.)

I tre paragrafi consecutivi contengono ciascuno un “etiam” (anche) che ci aiutano ad interpretare meglio la sede dei tre beni inventariati, ma soprattutto ad attribuire la localizzazione geografica alla “eclesia s(an)c(t)i P(et)ri pupplica …” che nella pergamena non è scritto dove si trova.

Nella sua trattazione de La distribuzione geografica delle cappelle e delle aziende rurali descritte nell’inventario altomedievale del monastero di S. Giulia di Brescia il Pasquali (Pasquali, 1978) così la interpreta nei tre paragrafi riportati sotto e da lui contrassegnati con i numeri 86, 87, 88:
«86. (Ibid.). Sancti Petri, forse presso Barbata (Bergamo); oppure S. Pietro Viminario (Padova).
Anche se sono documentate moltissime altre chiese intitolate a S. Pietro, l’identificazione del Mazzi con quella di S. Pietro di Barbata ci sembra suggestiva, anche se non è certo che essa fosse pertinenza di questa corte: non è infatti del tutto da escludere che la chiesa di S. Pietro si trovasse a Genova, località che viene subito dopo nell’inventario (n. 87). Ma un’altra ipotesi può essere convenientemente fatta. Sappiamo infatti che il monastero possedeva, almeno nel 1005, delle terre con una cappella intitolata a S. Pietro in loco et fundo que dicitur Vimenario, da identificarsi con S. Pietro Viminario (Padova). È vero che nel polittico si parla di ecclesia “pupplica”, “una chiesa cioè con diritti parrocchiali” e non di una semplice capella, ma può essere possibile che nel corso di un secolo il monastero abbia ceduto la chiesa pupplica alla comunità parrocchiale per costruirne una “privata” nella stessa località.» (Pasquali, 1978)
«87. (Ibid.). Genua, Genova.Anche se l’identificazione con Genova sembra del tutto piana, non è da escludere che si tratti di una località minore omonima. Va notato tuttavia che da questo punto in avanti l’elencazione delle proprietà e dei redditi del monastero abbandona del tutto il criterio di prossimità geografica che precedentemente la caratterizzava, essendo ormai tutte le località citate molto distanti da Brescia.»
«88. (Ibid.). Eboregia, Ivrea (Torino).
Il Bognetti, esaminando il diploma di Lotario dell’837, sottolinea il fatto che il monastero possedeva terre nel territorio di Ivrea».

Non viene riportata, nel 1978, la trascrizione originale del testo in latino come si legge nel polittico di Santa Giulia riportato in una sua pubblicazione successiva (Pasquali, 1979).

Ma ciò che a noi interessa è come inizia il secondo paragrafo: quel “Sunt etiam in Genua …” che tradotto alla lettera significa “Ci sono anche a Genova …” quell’ “anche” a cosa si riferisce? La sintassi vuole che si riferisca al paragrafo precedente che parla di una chiesa di San Pietro (in Genova?).
Un altro “anche” si trova nel terzo paragrafo, successivo a quello che si riferisce a Genova. Una considerazione del tutto plausibile in merito al ricorrere di congiunzioni (“etiam”, “et”) ci convince che il primo “etiam” leghi la registrazione dei beni di San Pietro con l’indicazione dei “liberi” di Genova in senso geografico (chiesa e uomini liberi collocati a Genova). Il secondo “etiam” lega l’indicazione dei due gruppi di “uomini liberi”, uno a Genova l’altro a Ivrea, e la congiunzione è giustificata dalla analoga condizione sociale di “liberi”, pur geograficamente collocati in città diverse.

In questo caso l’ “anche” preceduta dalla congiunzione “e” indica la ripresa dell’elencazione dei beni, specificando inoltre che essa va avanti coll’indicare una nuova località: “in Eboregia”. Quindi ci sono buone ragioni per considerare quel San Pietro “pubblico” cioè “parrocchiale” come si direbbe oggi è verosimilmente l’attuale chiesa di San Pietro in Banchi. Il nome in Banchi trae origine dal fatto che nella piazza antistante si trovavano in antico i banchi di un antico mercato vicino al Mandraccio l’antica insenatura-porto di Genova.

La chiesa di San Pietro in Genova.
L’antica chiesa detta anche di San Pietro alla Porta (per essere sorta vicino ad una porta della cinta difensiva carolingia), innalzata alla foce del torrente detto rivo Soziglia secondo alcune fonti sarebbe stata costruita nel IX secolo sul sito di un antico tempio pagano.
L’Alizeri (1847) scrive: “Da certi avanzi di antichi idoli trovati nello scavarsi le fondamenta dell’attual chiesa non mancò chi traesse l’origine di quella prima infin da’ tempi pagani”.
“Era una piccola chiesa subito fuori dalle mura della città, nota col nome di San Pietro della Porta, dalla vicina Porta di Banchi che si apriva all’incirca dove oggi è piazza Cinque Lampadi; si ergeva sopra un porticato di botteghe con ingresso alla Marina.” Si legge nel recente libro di Poleggi e Croce (2008).
Inoltre per la sua posizione era la più vicina al Mandraccio, l’antica insenatura dove sbocca il rivo Soziglia, che diede origine all’attuale porto di Genova. Questo significa che le merci arrivate via mare potevano essere facilmente e comodamente immagazzinate vicino o nel territorio su cui è stata eretta la chiesa.

Che la chiesa di San Pietro avesse una importante posizione strategica nel secolo IX per le vie commerciali (via Polcevera e il passo della Bocchetta seguendo la via romana Postumia) che portavano alle città della pianura padana i prodotti oltremarini lo dimostra una pergamena del 862 [tre anni dopo la possibile data del polittico bresciano di Santa Giulia intitolata Abbreviatio de rebus omnibus Eboniensi monasterio pertinentibus (Inventario di tutte le cose di pertinenza del monastero di Bobbio). L’originale si trova nell’Archivio di stato di Torino, Abbazia di Bobbio, busta I. In essa si legge:
In Genua eccl(esi)a in honore s(an)c(t)i P(et)ri, pot(est) colligere p(er) annum castaneis m(o)d(ia) X, vin(um) p(er) bonu(m) te(m)pus anf(oras) VIlI, oleo lib(ras) XL ; | emun[tur] inde p(er) annu(m) ad op(us) fr(atru)m reste ficarum C, cedri CC, sal m(o)d(ia) IIII, garo co(n)g(ii) II, pice lib(rae) C, hab(et) mass(arios) VI, qui faciunt | vinea(m) et iam dictu(m) censum portant ad monasterium. |
(In Genova la chiesa dedicata a San Pietro può raccogliere 10 moggi di castagne all’anno [1 moggio = litri 5,2], 8 anfore di vino per i tempi buoni, 40 libbre di olio; si acquistano inoltre ogni anno per i bisogni dei monaci 100 reste di fichi, 200 cedri, 4 moggi di sale, 2 conci di “garo”, 100 libbre di pece, hanno 6 massari che coltivano la vigna e portano le dette rendite al monastero.)

Ross Balzaretti (Balzaretti, 2013) così interpreta l’inventario bobbiese:
“Queste proprietà non erano nell’inventario precedente fatto in 833-835 dal cugino di Carlo Magno, Wala, esiliato a Bobbio come suo abate, né si ha conferma delle proprietà ricevute da Luigi II nel 860 (Wanner, 1994), il che suggerisce che la proprietà genovese è stata acquisita dai monaci tra il 860 e il 862, una scoperta interessante, anche se non è chiaro chi l’ha venduta. La chiesa è stata probabilmente di proprietà della chiesa genovese, anche se avrebbe potuto essere in mani private. Michael McCormick (2001) ha sottolineato che ciò che i monaci hanno ottenuto poteva essere ricevuto solo via mare nel caso dei limoni (o altri agrumi) e, probabilmente, la salsa di pesce. Gli agrumi presumibilmente arrivavano attraverso i contatti con gli arabi, data la storia dei trasporti trans-mediterranei fin dall’antichità, forse non è poi tanto sorprendente quanto propone McCormick. Le castagne, il vino e l’olio d’oliva sono indicati chiaramente come il tris più comune dei prodotti liguri, almeno per quanto riguarda la produzione costiera. Erano tutti prodotti stoccabili, ma solo le castagne possono essere facilmente raccolte vicino a Bobbio; il vino era di migliore qualità nei pressi della costa, come lo è ancora, e l’olio poteva essere prodotto solo qui in quanto la maggior parte delle terre di Bobbio erano troppo elevate (e quindi troppo fredde a questa latitudine) per la produzione di olive. Tuttavia, poiché le proprietà in altri luoghi della Liguria orientale sono state registrate prima di quelle di Genova, può essere che l’operazione genovese fosse il punto cruciale per le loro proprietà.
Nel primo diploma di Carlo Magno, 5 giugno 774, ad un destinatario italiano concesse a Bobbio l’Alpe Adra, un grande sito che ora si pensa sia nell’entroterra di Moneglia con terre nelle vicinanze di Castiglione Chiavarese in val Petronio. Questo è stato confermato successivamente in molti altri diplomi reali, ed è descritto nell’inventario dell’862 che registra anche le proprietà di montagna nelle valli d’Aveto e di Taro ed intorno a Caregli (nei pressi di Borzonasca), Comorga (San Colombano Certenoli), Ascona (Santo Stefano d’Aveto), Castiglione Chiavarese (presumibilmente), e Borgotaro. È anche probabile che i monaci di Bobbio abbiano scambiato i loro prodotti a Genova, così pure la città avrebbe potuto fornire uno sbocco sul Mediterraneo per i prodotti delle loro proprietà. E’ significativo che la chiesa su cui Bobbio aveva dei diritti fosse San Pietro alla Porta (ora San Pietro in Banchi), quasi in acqua accanto al porto [San Pietro in Banchi è l’unica chiesa sopraelevata di un piano sulla piazza antistante e con dei locali commerciali al disotto, magazzini?] Inoltre si trova nella stessa piazza (piazza Banchi) dove in seguito verrà costruita alla fine del ‘500 la Loggia della Mercanzia o Borsa delle Merci]. Nelle vicinanze (in zona Scuole Pie) sono stati trovati i resti di molti dei primi edifici medievali di tipo commerciale, piccole strutture in pietra a secco e in muratura che avrebbero potuto essere dei magazzini (Gardini e Murialdo, 1994). Presumibilmente la primitiva chiesa di San Pietro ebbe uno o più sacerdoti in loco che fornivano dei servizi ad una popolazione di residenti locali. Tutte le proprietà segnate nel 862 furono confermate da Luigi II il 2 febbraio 865, su richiesta di sua moglie Angilberga, compresa Ianua (Wanner 1994. Doc 42), e appaiono ancora nell’inventario del 882 e in liste successive, la più lunga e ultima delle quali datata circa 1000 ed elenca molte proprietà aggiuntive in una sezione finale dedicata alla Terra que in Maritima esse videntur.
Sapere come le attività di Bobbio in Genova siano si siano relazionate con la chiesa istituzionale genovese è piuttosto intrigante in quanto Bobbio non era l’unico monastero con proprietà nella zona del porto: il potente, convento reale di Santa Giulia a Brescia era anch’esso registrato nel territorio genovese (homines liberi V, qui reddent de caseo libras CCXL) in un inventario dell’inizio del X secolo (Castagnetti et al 1979: 92; Polonio 1997: 90-1). In effetti, se fosse corretto ciò che dice il Pavoni, che le istituzioni milanesi avevano terre nel Levante in questo periodo, anche loro avrebbero avuto una rappresentanza a Genova (Pavoni, 1992). Ci si chiede che cosa i vescovi successivi facessero riguardo alle attività di Bobbio in particolare la proprietà di una chiesa a due passi dalla propria cattedrale di San Lorenzo. Con l’860 i vescovi genovesi cominciano di nuovo ad essere documentati, dopo anni di silenzio e, mentre non vi è alcuna prova diretta sul loro atteggiamento verso il monastero di Bobbio è chiaro che i vescovi del IX secolo erano uomini molto attivi, il cui sguardo era rivolto all’entroterra verso Milano, la loro metropolitana. Già nel maggio 825, il capitolare di Olona rilasciato da Lothar I per riformare la chiesa italiana del Nord aveva richiesto al clero genovese di studiare con l’irlandese Dungal a Pavia, mentre quelli di Albenga, Vado e Ventimiglia dovevano andare invece a Torino, molto più vicino. Dungal stesso probabilmente si ritirò a Bobbio e lasciò i suoi libri alla comunità. Qui potenzialmente vi era un precedente legame Bobbio / Genova in quanto se il clero vescovile in realtà doveva andare a Bobbio per studiare, e così era, forse la possibilità che il monastero avesse uno sbocco sul Mediterraneo a Genova è fuori discussione.”

La fondazione liutprandea di S. Agostino è la sola che accerti in data sicura l’espansione del monachesimo longobardo a Genova. È però probabile che alla stessa età, se non ad una data anteriore, risalga anche lo stabilimento in città dei monaci di Bobbio. A parte la vecchia chiesa col titolo di S. Colombano di cui non conosciamo l’origine, si pone generalmente la sede primaria dei cenobiti bobbiesi nel monastero di S. Stefano, ritenendosi che, circa il 960, il suo fondatore, il vescovo Teodolfo, vi abbia chiamato una famiglia bobbiese; senonché tutti gli atti del monastero da noi conosciuto dimostrano che questo, fino ad una data inoltrata del secolo XI, non fu mai vincolato ad altra obbedienza che a quella dell’ordinario diocesano. È vero invece che, in una data non precisabile, vi si trasferirono i monaci colombaniani di S. Pietro di Porta, rimanendo questa chiesa una dipendenza della nuova sede, finché non le fu restituita la sua autonomia, l’anno 1129. Il primo stabilimento figliato da Bobbio a Genova fu, dunque, la chiesa di S. Pietro, le cui notizie risalgono ai più antichi inventari dell’abbazia del secolo IX, nei quali è elencata, fra le dipendenze del monastero, una cella sancti Petri in genua, godente, alle porte della città, presso la ripa una piccola tenuta agricola a castagneto e vigneto. I citati inventari appartengono agli anni 862 e 883, ma essi registrano uno stato di fatto molto anteriore alla loro data che possiamo far risalire all’età longobarda, tenendo presente che, per la stessa missione politica e religiosa affidata dai monarchi longobardi all’abbazia di S. Colombano, la espansione di questa nella Riviera deve essere stata promossa e favorita non appena fu compiuta la conquista militare del territorio. (Formentini U., 1941)
Si aggiunge infine un’ulteriore conferma della presenza dei longobardi nei monasteri e chiese in Cavallaro, 1993. Se non sembra attestato uno stanziamento cospicuo dei Longobardi in città, la loro presenza sarebbe tuttavia maggiormente documentata nel contado e in specifico nella valle del Bisagno e in quella della Fontanabuona. Inoltre il monastero di San Colombano a Bobbio, fondato con l’intervento della regina Teodolinda convertita al cattolicesimo, costituisce per i Longobardi un punto fermo che irradia la sua influenza anche su Genova tramite i nuclei religiosi cittadini ad esso legati quali San Pietro in Banchi, San Michele presso Santo Stefano e la distrutta chiesa di San Colombano nell’attuale zona di piazza Dante.

Bibliografia
Acta Sanctorum dei Bollandisti, Maii, V, Paris, 1866; 168, p 171.
Alizeri F., Guida artistica per la città di Genova, Genova, 1847.
Balzaretti Ross, Dark Age in Liguria, Regional Identity and Local Power, c. 400-1020, Bloomsbury, Londra, 2013.
Brühl C., Codice Diplomatico Longobardo, III, 1, Roma, 1973 (Istituto Storico Italiano per il Medioevo, Fonti per la Storia d’Italia.
Cavallaro L., Da Genua a Ianua, in Borzani L. Pistarino G. Ragazzi F., Storia illustrata di Genova, Elio Sellino Periodici, 1993
Formentini U., Genova nel basso impero e nell’alto medioevo, in Storia di Genova dalle origini al nostro tempo, vol. II, Garzanti, Milano, 1941.
Gardini A., Murialdo G., La Liguria in Francovich e Noyé, 1994.
Grossi Bianchi L., Poleggi E., Una città portuale nel medioevo. Genova nei secoli X-XVI. SAGEP, 2008.
McCormick M., Origins of european economy, communication and commerce, AD 300-900, Cambridge Univ, Press, 2001.
Pasquali G., La distribuzione geografica delle cappelle e delle aziende rurali descritte nell’inventario altomedievale del monastero di S. Giulia di Brescia, in San Salvatore di Brescia, Materiali per un museo, I, pg. 141-185, 1978.
Pasquali G., S. Giulia di Brescia, “Breviaria de Curtibus monasterii”, Brescia, anni 879-906, in Inventari altomedievali di terre, coloni e redditi, a cura di A. Castagnetti, M. Luzzatti, G. Paquali e A. Vasina, Roma, 1979.
Pavoni R., Liguria medievale, da provincia romana a stato regionale, ECIG, 1992.
Poleggi E., Croce I., Ritratto di Genova nel ‘400, veduta d’invenzione, SAGEP, 2008.
Wanner K., Ludovici II diplomata, Istituto storico italiano per il medioevo, Roma, 1994.

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