02.2. Genova pre-romana. VII-III secolo a.C.

 GENOVA PRE-ROMANA

Dal VII al III secolo a. C.

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GENOVA LIGURE

Barbieri Piero, Forma Genuae, Edizioni del Municipio di Genova, 1938.

GENOVA LIGURE
La storia di Genova comincia alla fine del V sec. a.C. per quanto ci è dato conoscere dal sepolcreto arcaico scoperto tra S. Lorenzo e S. Andrea (1), e da quando le sue genti entrarono a contatto con Roma per quanto ci è tramandato dagli scrittori. Ma già prima i Liguri avevano lasciato ricordo di sè. Questa grande razza sembra ad un certo momento aver esercitato la supremazia su una buona parte dell’Europa meridionale (2); ad ogni modo Ligures furono le genti che estese fin dal neolitico per larga parte della penisola italiana, prime ebbero in Italia un nome: gli antichi stessi ne avevano conservato il ricordo (3).
Ad una data che fino adesso ignoriamo la potenza dei Liguri si offuscò, forse quando il ferro si sostituì al bronzo : il territorio da loro occupato si restrinse allora ad una parte dell’Alta Italia. La Liguria attuale, la romana Liguria Maritima, presenta ancor oggi una larga sopravvivenza dell’antica stirpe per tutta la costa e in parte anche sulle soprastanti Alpi e Appennini (4).
Dove cominciarono a raggrupparsi questi primitivi abitanti? Nel descrivere il lido Strabone dice che dal porto di Monaco sino alla Toscana era esso tutto quanto nudo di porti, eccetto che aveansi alcune piccole stazioni che offrivano qualche comodità per gettarvi le ancore: del resto abitavan le genti la più gran parte in villaggi Ligures dispersi per pagos habitant, ed avevano per emporio Genova dove si portavano a vendere legnami, bestiame, miele, tonache e sajoni che si dicevano ligustini.
Questo affermarsi di Genova come approdo è diretta conseguenza delle condizioni geografiche della Liguria, caratterizzate dalla catena montuosa che ripida si eleva sul mare, e dall’arco secondo il quale si incurva a contenere il golfo.
La vicinanza della cresta montana alla riva, che in linea d’aria è anche inferiore a 5 km. dal mare, fa sì che il versante marittimo sia molto ristretto e senza grandi anfrattuosità costiere a compenso del versante continentale che risulta molto più ampio, a contrafforti estesi sezionati da valli relativamente lunghe. Questa particolarità si accentua nella riviera di levante che è più scoscesa, più dirupata e meno articolata; invece la riviera di ponente offre maggior respiro rispetto alla montagna dando sedi umane capaci di migliori condizioni e di maggior popolamento e predisponendo due vie di penetrazione relativamente comode per l’entroterra, quali la via di Savona per la depressione di Carcare, e la via di Genova per la valle del Polcevera.
Sul mare l’andamento della costa profondamente incavata fa sì che le acque siano relativamente tranquille e tanto più dove la costa s’interna, cioè tra Genova e Voltri. Lo stesso andamento delle correnti non vi ostacola navigazione alcuna per quanto possano essere influenzate in forza e in direzione dai venti (5).
Ne risulta che mentre il golfo ligure é in generale accessibile ed offre campo ad una navigazione relativamente sicura, la costa nel suo andamento trasversale e longitudinale si direbbe intransitabile e ciò specialmente per la riviera di levante quasi interamente isolata dal suo retroterra e di difficile comunicazione anche tra le varie località terrestri del litorale stesso. Anche qui il passo più facile fa capo a Genova e sta nel valico di Torriglia tra la valle del Bisagno e la valle del Trebbia.
Il porto di Genova è situato proprio in quel bacino semicircolare di 1500 metri di diametro che è il più internato nella costa tra le valli esterne del Polcevera e del Bisagno, il più ampio fra le insenature circostanti, aperto verso mezzogiorno a ridosso dell’anfiteatro di monti, protetto ai due lati di levante e di ponente dai due promontori rocciosi del Faro e di Murteto. Si aggiunga che la insenatura risulta la più riparata dai venti e dalle correnti, al di fuori di ogni impedimento molesto, accessibilissima, e naturalmente portuosa anche prima della costruzione dei moli per la presenza di scogli subacquei sul fronte.
La tradizione popolare, per concorde accettazione, pone la prima culla di Genova sul Colle di Sarzano. Anche Francesco Podestà così si esprime: «Sarzano! l’arx Jani secondo alcuni,
la villa di Sergiano secondo altri … – ben possiamo dire però che il Colle di Sarzano fu la culla, anzi l’embrione di Genova, poichè ivi sorse senza dubbio il primo abitato, prestandosi opportunissimo il luogo e per l’ottima positura e per la naturale sicurezza» (6).
Questa unanime credenza potrebbe essere integralmente accettata se all’origine del raggruppamento si trovasse dominante in modo certo la preoccupazione della difesa. Per parte mia invece il primo nucleo si è raggruppato anzitutto attorno a un mercato.
Il processo di formazione può essere così ricostruito: a un’epoca nella quale le genti Liguri, passate dalla vita cavernicola alla pastorale e alla agricola, non sembrano ancora esperte nell’arte marinara (7), sono già vivi nel Mediterraneo gli scambi commerciali per via di mare, esercitati soprattutto da Fenici e da Cartaginesi ai quali forse si uniscono correnti Galliche che fanno da ponte tra i commerci delle genti celtiche del mare del Nord e quelle meridionali. Le imbarcazioni trovano una facile navigabilità nella parte alta del golfo Ligure, e costeggiano l’insenatura naturale che nel più profondo del golfo offre una rada di approdo e di sosta tranquilla e ampia. Colla maggior frequentazione si attiva il rifornimento e le popolazioni sparse sui pagi d’attorno mandano viveri e altre merci al luogo di più facile approdo in cui sorge un mercato e per la comodità delle navi si installano le prime attrezzature portuali.
La sede logica di questo impianto iniziale è in qualche punto del porto, facilmente accessibile, piano, provvisto d’acqua, immediatamente vicino al lido, dove l’accosto delle navi e lo sbarco è il più comodo.
Tali requisiti sono pienamente soddisfatti dalla zona a spiaggia dolce ed ampia che va dal Mandraccio alla foce del rivo di Susilia: di più, in essa convergono le due direttrici principali di movimento in terraferma: a) la pista che dalla val Bisagno aggira le falde orientali del Murteto e attraverso Vico Dritto di Ponticello, la forcella alla Porta Superana, la via del Prione, arriva al porto percorrendo la linea di minima pendenza; b) l’altra, la via lungo la riva, la primitiva via della Ripa poi raddrizzata, nella quale si innestano come tanti affluenti le arrampicatoie che scendono da Promontorio, da Granarolo, da Montegalletto, da Castelletto. Per altre ragioni che vedremo appresso si può localizzare più esattamente il primitivo mercato all’incirca dove è ora la piazza San Giorgio.
Ma questo mercato non poteva a lungo andare rimaner indifeso in un tempo in cui il commercio era anche pirateria e sorge perciò l’acropoli, l’oppidum, per il quale si sceglie la posizione più opportuna, relativamente vicina al luogo di mercato, ma più naturalmente difesa: è questa senza dubbio la parte alta del colle di Sarzano. Si ha così la doppia struttura di Genova: l’emporium e l’oppidum, quali elementi distinti e separati, in uno colle rispettive funzioni e necessità così nettamente diverse.

Tito Livio, narrando le guerriglie e le vittorie romane sui Ligures, nomina ripetutamente gli oppida, ossia quei recinti fortificati di grosse muraglie di pietre a secco che oggi si denominano castellieri, e dei quali finora nessuno è noto per vestigia archeoligiche nella Liguria marittima. E’ però verosimilmente ai Liguri che bisogna riportare le cinte galliche dell’età del bronzo, particolarmente quelle ritrovate nella regione mediterranea: per esse un contorno frequente è quello della semiellisse, é la fortificazione appare spesso costituita da due linee di mura concentriche (8). Ed appunto queste cinte dell’età del bronzo non erano altro che luoghi di rifugio temporaneo; a fianco di questi oppida dovevano esistere delle città permanenti (9)•
La stessa separazione si ripeteva in alcuni esempi dell’età del ferro. Si è qui potuto stabilire che molte cinte fortificate costituivano vere città, di cui almeno una parte era occupata in modo stabile: tali i grandi oppida di Bibracte [oppidum gallico], Gergobia, ecc. Ma accanto a questi villaggi residenziali cintati si ha pure memoria di altre cinte che hanno semplicemente servito da riparo temporaneo nei momenti di pericolo: Giulio Cesare racconta che gli agricoltori Biturigi furono sorpresi nel loro campo dalla sua cavalleria, priusquam confugere in oppida possent (10).
Per Genova si faticherebbe a non ammettere una eguale zonizzazione: non solo vi. si adatta bene l’ipotesi meglio concepibile per il sistema politico amministrativo del nucleo primitivo, ma è anche dimostrata di fatto dalla legge della permanenza planimetrica.
La sentenza data l’anno 117 a.C. da Q. e M. Minucio, arbitri ex senatus consulto nella controversia fra i Genuati e i finitimi Langenses-Viturii, abitanti della Val Polcevera (11), è un testo di diritto Ligure interpretato dalla giurisprudenza romana. La sentenza determinava l’ager privatus e l’ager publicus dei Langenses; su quest’ultimo gravava l’obbligo di un canone annuo da pagare in publicum Genuam. L’ager compascuus era condominio pari dei Genuates, dei Langenses e di altri castella della regione. L’ordinamento genuate pertanto appare sorto con carattere federale; verosimilmente da coloni mandati da un gruppo di castella, collegati fra loro in qualche modo, a difendere il mercato aperto all’offesa del mare. Questo concetto delle forze e degli enti confederati a difendere, a rappresentare gli interessi collettivi della città, sarà poi alla base della costituzione stessa del Comune nel Medioevo attraverso le Compagne rionali.
Planimetricamente è già criterio generale dell’archeologia contemporanea di dare sempre più importanza ai fattori economici, diminuendola di altrettanto alle considerazioni militari. In molte stazioni primitive specialmente greche si vede l’uomo ricercare le pianure fertili, risiedere nei luoghi particolarmente favorevoli dal punto di vista dell’agricoltura e del commercio. In altre sui colli, la mancanza d’acqua toglie molte volte assai d’importanza all’ipotesi di una installazione prevalentemente difensiva (12) e spinge piuttosto a far conchiudere che realmente i recinti isolati sulle alture non sarebbero stati in definitiva che luoghi di ritirata occasionale per una popolazione la cui abitazione normale risiedeva alla pianura (13).

planimetria di Genova pre-romana

Nella figura a è stata ridisegnata sul rilievo topografico odierno con tutta la precisione possibile la trama dei quartieri attorno a Sarzano come risulta dalla prima pianta di Genova, dell’anno 1656, conservata a Palazzo Rosso. Questa parte della città seicentesca è pressocchè identica, per quanto riguarda la rete viaria, alla città del primo medioevo, variandone solo per alcuni tratti del giro delle mura e per la più intensa fabbricazione all’interno dei lotti delimitati dalle arterie antiche. Per meglio isolare i nuclei a carattere differente, le arterie sono state calcate in nero solo parzialmente. Si distinguono subito :
1) le piste tracciate dalla natura:
a) la via Giustiniani colla salita del Prione, lungo il fossato sulla linea di massima depressione fra i terreni a monte e a valle, ancor oggi le quote stradali per sezioni corrispondenti sono qui le più basse;
b) la salita Embriaci colla via di S. Maria di Castello e la via del Colle, congiungenti la torre Embriaci e la Porta Superana alla piana di Sarzano lungo la linea di vetta dominante il colle;
c) la via parallela alla riva, la Ripa, che qui accenna ad aver seguito fedelmente il contorno del lido.
2) le piste a tracciato irregolare per sottomissione a una dominante naturale: il gruppo di arterie che si aprono a ventaglio attorno alla Porta Superana. E’ questa sul punto di valico che era il meno elevato fra l’interno del porto e la Piana del Bisagno.
3) le vie a schema geometrico regolare:
a) il raggruppamento organizzato al Molo con allineamenti paralleli fra loro secondo due direzioni, però non con perfetta ortogonalità dell’una rispetto all’altra;
b) il raggruppamento nella regione attorno a Canneto, questo con allineamenti paralleli a due direzioni esattamente perpendicolari fra loro.
4) le Piste a tracciato irregolare per sottomissione a una dominante architettonica:
a) il gruppo di arterie, a tratti monche e contorte, che nell’insieme convergono verso il piede di S. Maria di Castello, cioè piegano verso la porta o l’accesso al recinto dell’oppidum: fra esse la via di San Giorgio sembra tendere alla Salita a Santa Maria di Castello quasi ne fosse la prosecuzione, poi interrotta dal sovrapporsi del tracciato reticolare;
b) l’anello stradale assai caratteristico che circonda la rocca di Sarzano, costituito dalla via di Mascherona a nord, dalla salita di S. Maria di Castello a ponente, dalla via di Santa Croce a sud, dalla piazza Sarzano o meglio dall’antica via che contornava il Castello a levante.
Questo anello racchiude un’area dalla forma grossolamente ellittica, con un asse maggiore di m. 25o ed uno minore di m. 105 circa: è senza dubbio il castelliere, l’oppidum primitivo.

All’intorno si rinvengono le tracce di un’altra ellisse che circondava la centrale con un anello più ampio, di cui e riconoscibile la parte lambita dalla via Mura delle Grazie, da un giro più largo attorno a S. Silvestro, dal vico Vegetti.
L’asse maggiore dell’ellisse centrale corrisponde alla linea di vetta, percorsa dalla via di Santa Maria di Castello, sulla quale si apre quasi esattamente al centro la piazza di Santa Maria in Passione, a sua volta attraversata trasversalmente da una salita che attacca ripida da via Mascherona e ridiscende precipitosa dalla parte opposta verso il mare.
Questo recinto ellittico, che tocca il culmine della collina di Sarzano e segue il contorno del colle secondo le falde che si affacciano sulle vie e sul lido sottostante colla maggior declività, ben corrisponde allo schema di oppidum Ligure-gallico: l’idea dell’impianto difensivo è accentuata dalla croce formata dalla via di S. Maria di Castello con la trasversale su piazza Santa Maria in Passione, costituenti il centro sul quale convergono tutte le arterie che hanno comunicazione con le uscite periferiche. Questo sistema di arterie radiali che collegano il centro ai punti sensibili della periferia per mezzo di vie dirette, che permettono ai difensori di trasportarcisi nei casi d’urgenza il più rapidamente possibile, è da ritenersi senz’altro come il dispositivo il più favorevole e quindi il più rappresentativo per la difesa.
Nel punto d’attacco della discesa a Mascherona sono scoperti sopra il suolo stradale gli avanzi finora non individuati se di una porta o di una torre, costruita di grandi conci di pietra a bugnato come si ritrovano per es. alla Torre Embriaci, nel rudere in piazza lnvrea, nella Torre Spinola di San Luca, ma qui nelle dimensioni dei conci più grandi: allo sbocco verso la piazza Embriaci si alza la Torre famosa, e le vie interne attestano verso levante alla zona più alta, culminante, sulla quale doveva impostarsi la fortezza maggiore, l’antichissimo Castello dei Liguri Genoati. Tali avanzi testimoniano di una tradizione fortificatoria lungo questo recinto, conservatasi vivissima ancora nella bassa latinità e agli albori del Medioevo.
Insieme al rado numero delle uscite tutte strettissime è da rilevare come l’oppidum sia indipendente, anzi interrompa la trama stradale dei quartieri che lo accostano. Sprovvisto d’acqua, è facile che la discesa oggi detta di San Silvestro fosse proprio diretta verso la Fontana nella rocca di Sarzano citata in un atto del 25 Maggio 1314 (14): qui era ancora nel medioevo una porta della città additata da un rogito del 2 Luglio 1261, extra murum civitatis in roche Sarzani ante portam civitatis. L’accesso alle sorgenti era dunque sorvegliato dall’interno della cinta, com’era costume a quei tempi.
Le abitazioni poi han tardato ad occupare l’interno del castelliere anche quando i Romani vi condussero l’acqua. A parte il fatto che la trama delle vie si palesa tutt’altro che rispondente a quanto sarebbe richiesto da un quartiere di abitazione, nel seguito delle vicende storiche il terreno all’intorno si dimostra di proprietà pubblica e quindi ecclesiastica, non di proprietà privata, ancor oggi le abitazioni sono rarissime e la stragrande maggior parte dell’area è coperta dal convento di Santa Maria di Castello e di Santa Maria in Passione, e dagli ex conventi di N. S. delle Grazie e di San Silvestro, tutti amplissimi. Sulla testimonianza del Ganduccio, il Celesia, nell’opera citata, riferisce di un cimitero romano che esisteva nei dintorni di Santa Maria di Castello, ove presso la casa di un Simon Vallebona si rinvennero giarre anfore e urne, in una delle quali leggevasi: Caio Nemesio. Nel 1441 sommavano ancora a non meno di 500 le tombe di quel cimitero, che deve esser posto a tergo della chiesa anzidetta, nella salita che mette a San Silvestro.
Dal perimetro, nel lato a monte, si staccano in direzione radiale divergente il vico Guarchi, la salita Mascherona, il vico Alabardieri, il vico Amandorla, ed un altro ce n’era in antico, poi sostituito dal vicino vicolo della Carità: nessuna di queste vie aveva ed ha ancor oggi una prosecuzione diretta nell’interno dell’oppidum, l’unico passaggio che forava la cinta era da questo lato la discesa della piazza di Santa Maria in Passione già menzionata. Queste vie a ventaglio, per direzione e schema compongono un sistema ben distinto da quello a reticolato nella piana di Canneto. Esse vengono raccolte dal vico Vegetti, che ora termina nella piazza San Bernardo, nella quale convergeva la corrente di traffico che veniva dal vico Mongiardino. Qui doveva esservi un passaggio importante, forse protetto da una porta secondo le notizie raccolte da vari autori: certo è che in direzione di questo vicolo vi era un ponte che soprapassava al rivo del Prione, sentiero che si prolungava per l’attuale vico Valoria verso il lucus di San Lorenzo, e che questa linea di transito dovesse avere importanza lo attestano gli avanzi medioevali di torri e palazzi che segnano l’intero percorso, specie al quadrivio su Canneto reso ampio da quattro logge (15) guardate da alte torri. Il vico Vegetti, risalito da San Bernardo, si prolungava con un ramo nell’attuale vico dei Tre Re Magi, per innestarsi alla via di Ravecca e raggiungere la porta di S. Andrea e con un altro ramo si staccava a destra per valicare Sarzano e quindi scendere a oriente alla Marina di Rivo Torbido: stabiliva cioè la comunicazione tra il Mercato di S. Giorgio e queste zone periferiche col tracciato a pendenza più dolce.
Attorno all’anello centrale fortificato i primi raggruppamenti si possono immaginare casi distribuiti :
– uno vivo, fitto, denso di case e di lavoro tra le Grazie e San Cosimo, dove la rete delle vie è la più intricata e l’area libera così scarsa che le chiese cristiane non trovano terreno più grande di quanto è concesso alla cripta dei Santi Nazaro e Celso o alla chiesa dei SS. Cosma e Damiano;
– uno a maglie più rade, sulle pendici che scendono da Sarzano e da Ravecca verso San Donato e il Prione, quartiere meno speculativo, dove dovevano prevalere le piccole abitazioni fatte di case di legno allineate sulle vie, una accosto all’altra, con ampio terreno chiuso all’interno, ripartito fra le famiglie ad uso di giardino e di orto;
– uno nella regione alta di Ravecca, verso la Colla, presso la piazza di Sarzano, ad abitazioni isolate, forse per la parte ricca della popolazione, o condividendo l’ipotesi del Poggi, per quella colonia greca stabilitasi autonoma accanto ai gruppi indigeni e che proprio verso la Porta Soprana, nel lucus da Sant’Andrea, ha lasciato cimeli e sepolcreto.
Questo principio di zonizzazione, lo spiazzo libero cintato in vetta a Sarzano, e il porto che si va formando nell’insenatura più profonda del lido al Mandraccio, compongono dal punto di vista urbanistico gli elementi costitutivi della città ligure che, integrata a un certo momento da una palizzata tutto attorno quale prima difesa delle abitazioni e dei quartieri ormai stabili e accresciuti, ci rappresenta Genova all’epoca della discesa di Annibale in Italia. I Genuates sono ormai prodi sul mare e arricchiscono nel commercio marittimo: la floridezza economica già forte a quel tempo ci viene rivelata dall’entità del bottino preso dai Cartaginesi nel saccheggio dell’anno 205 a.C., che deve essere stato almeno tale da giustificare la cura avuta da Magone di porlo al sicuro nella piazzaforte di Savona, distraendosi per questo dal sostenere il fratello.

1) Gli avanzi di quello scoperto a San Lorenzo nel 1843 vennero dispersi; le parti di sarcofagi poi murati nelle pareti del Duomo provengono da ritrovamenti più antichi, di gran lunga più importante è la documentazione offerta dal Sepolcreto di S. Andrea i cui avanzi, accuratamente raccolti, hanno formato oggetto di dotti studi e vennero conservati al Museo di Palazzo Bianco.)
2) M. Jullian, Histoire de la Gaule, I- pag. 110 e seg.
3) Strabone, IV. 6.2 – Diodoro V. 39.
4) Piero Barocelli, Preistoria Ligure.
5) Goffredo Jaja, Il Porto di Genova, 1937.
6) Francesco Podestà, Il Colle di S. Andrea, 1901, pag. 264.
7) Vedi la scarsità di nuciei sulla, costa ancora ai tempi di Strabone.
8) Tale sistema lo ritroviamo anche nell’Italia meridionale: a Manduria esistono avanzi delle due cinte concentriche di opera greca, che appaiono di età contemporanea.
9) M. Jullian, op. cit., I. 175 n. 6.
10) Bellum Gallicum, VIII, 3.
11) Cifra, fra gli altri; G. Poggi, Genoati e Veturi, Atti Soc. Lig. St. P., 1900.
12) De La Noe, Principes de fortification antique, 1888.
13) Schuchardt, Neue Jahrbücher, XXI (1908) 312.

14) Poch, Miscellanee Storiche.
15) Piero Barbieri, Le piazze urbanistiche di Genova, Rivista GENOVA, Settembre 1937.

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GENOVA PREROMANA

Estratto da Piera Melli, Genova Pre-romana, Una città portuale del Mediterraneo,tra il VII ed il III secolo a. C., Fratelli Frilli Editori,  2008;

Fin dalle sue origini Genova appare legata alle vicende del porto, creato in uno degli approdi più favorevoli e protetti dell’arco costiero ligure, lungo le rotte battute dalle navi mercantili, etrusche e greche, in direzione dei mercati della Francia meridionale. Le rotte sottocosta, già utilizzate fin dal Neolitico, come dimostrano i rinvenimenti di ossidiana da Lipari nelle grotte del Finalese e, con maggiore frequenza a partire dal VII secolo a.C., co­me documentano i materiali di importazione marittima rinvenuti negli scavi dei centri della Liguria orientale, offrivano protezione dai violenti venti di scirocco e libeccio che tuttora, in alcuni periodi dell’anno, rendono pericoloso alle piccole imbarcazioni il tratto di mare aperto fra la Corsica e la costa ligure.
Le alture dell’entroterra di Genova risultano già frequentate nella Preistoria. Scoper­te casuali nell’Ottocento e indagini archeologiche recenti hanno permesso di raccogliere sui monti fra Apparizione e Bogliasco e lungo il percorso del metanodotto tra Recco e Genova materiali sporadici, prevalentemente manufatti di pietra scheggiata e levigata, databili al Mesolitico, al Neolitico e all’età del Rame. Al Bronzo medio risale un pugna­letto di bronzo rinvenuto in un insediamento agricolo di epoca romana a Costa Bottuin (Trensasco).
Tali presenze dimostrano la vitalità di percorsi di crinale intensamente frequentati, sia per la caccia, sia, più tardi, per lo sfruttamento delle risorse dei boschi, la pastorizia e l’agricoltura. Gli insediamenti di quei periodi dovevano essere ubicati a mezzacosta o nei fondovalle, ma la loro identificazione è difficile a causa dell’intensa trasformazione dei luoghi nel corso dei secoli.
Nell’area ora occupata dalla città, in occasione dei lavori per la realizzazione di un par­cheggio sotterraneo in piazza della Vittoria è stato individuato mediante carotaggi, a cir­ca 12,5 metri sotto il piano stradale, un livello di frequentazione che conteneva un fram­mento di legno lavorato, datato, con analisi radiocarboniche, al Neolitico. La scoperta ha suggerito l’ipotesi dell’esistenza di una palafitta presso la foce del torrente Bisagno.
Maggiori informazioni restituisce un insediamento, in corso di scavo al momento in cui si scrive, individuato nel cantiere della metropolitana in piazza Brignole, dove sono stati raccolti materiali che risagono ad un periodo tra 3000 e 2000 anni prima di Cristo (età del Rame/Bronzo Antico) e alla prima età del Ferro. E stata sinora messa in luce una podero­sa struttura muraria in pietre a secco, della lunghezza di circa 12 metri, preliminarmente interpretata come muro d’argine o di confine, costruita in un’area prossima al corso del Bi­sagno. La struttura delimita un ampio spazio con copiose tracce di antropizzazione, fo­colari e un canale. La sua sco­perta dimostra, ancora un volta, come sia imprudente trarre conclusioni definitive sulle caratteristiche del popo­lamento nelle epoche più an­tiche, per la natura spesso oc­casionale dei rinvenimenti.
Alla fine dell’età del Bron­zo e nella prima età del Ferro lungo l’arco costiero fra il ca­po del Promontorio e la penisola del Molo sorgevano piccoli nuclei abitati, di cui restano solo pochi frammenti di ceramica e di intonaco cotto, raccolti nel cantiere della metropolitana di Principe – Bor­go S. Tommaso e nell’area del Portofranco. In quest’ultimo scavo, dove è stato messo in a luce un deposito di livelli sabbiosi di circa tre metri di spessore formatosi al di sotto del livello del mare, di cui si dirà oltre, lo strato antropizzato più basso ha restituito solo un frammento di cranio umano [ima] e frammenti lignei, datati con metodo radiocarbonico al X/IX secolo a.C. Nello strato che seguiva sono stati raccolti minuscoli frammenti di ceramica di impasto della fine dell’età del Bronzo o della prima età del Ferro.
Sopra lo strato, al centro dello scavo, poggiava un ammasso di tronchi e rami di albero accumula­ti naturalmente sul fondale. In maggioranza si tratta di rami o schegge, con fratture accidentali, riferibili a varie specie, probabilmente trascinati a mare dai torrenti che confluivano nell’area e caduti sul fondo dopo essersi impregnati di ac­qua. Alcuni frammenti, invece, conservano tracce di lavorazione, anche se, per il precario stato di conservazione al momento del rinvenimento, non possono essere precisamente identificati come attrezzi o oggetti d’uso.

Tra la fine del VII e la fine del VI secolo a.C.
Le prime consistenti tracce archeologiche di frequentazione dei luoghi sono state identificate in un’area protetta dell’arco portuale, posta allo sfocio di due rivi, interrata nel Seicento per costruire il Portofranco della Repubblica. Nel corso dei lavori di realiz­zazione del tracciato della metropolitana in via Turati è stata messa in luce un potente deposito di fondali marini sabbiosi, sedimentati nel corso dei secoli e rimescolati dalle correnti e da eventi repentini come mareggiate. Alla base del deposito, sopra alcuni li­velli ancora risalenti alla Preistoria, giaceva uno strato che conteneva materiali databili tra la fine del VII e la fine del VI secolo a.C., che costituiscono la prova dell’utilizzo co­me approdo, da parte di mercanti stranieri, del tratto di costa che divenne più tardi il porto medievale.
I materiali più antichi, ancora della fine del VII secolo, sono frammenti di anfore vi­narie etrusche e di una coppa, che rappresentano i segni tangibili dei primi contatti ami­chevoli fra gli stranieri di passaggio e gli indigeni. Anche altri oggetti, distribuiti nell’arco di un secolo, sembrano marcare le tappe di ripetuti sbarchi, nell’accogliente ansa del Mandraccio, di mercanti impegnati nella navigazione lungo le coste tirreniche.
Situato al centro dell’arco ligure, all’inizio l’approdo svolgeva probabilmente funzioni di scalo tecnico, per l’abbondanza di acqua potabile e combustibile, le spiagge su cui tira­re in secca le imbarcazioni (che a quel tempo, per le ridotte dimensioni, navigavano solo di giorno sfruttando le correnti marine e la propulsione a vela) e la protezione – allora probabilmente sufficiente – della peniso­letta del Molo in caso di burrasca. …
Non conosciamo il luogo dove abitava­no i primi genovesi, ma è plausibile imma­ginare che non si trovasse molto lontano dall’approdo. Tra i materiali raccolti nello scavo del Portofranco vi sono infatti anche oggetti di abbigliamento, come una fibula, o di uso quotidiano, come rocchetti per la lana, frammenti di recipienti da dispensa e da cucina, pesi da rete e rifiuti di pasto (os­sa animali con tracce di macellazione). Il vasellame da cucina, che presenta in alta percentuale tracce di anneri­mento da fuoco, e quindi di uso, può essere riferito alle dotazioni di bordo delle imbarcazioni che approdavano nell’insenatura, ma poiché molti frammenti sono combusti anche sulle parti frantumate, sembra preferibile interpretarli come rifiuti domestici, rimasti dimenticati su un focolare dopo la rottura dei vasi.
Il complesso dei materiali dei livelli della fine del VII e VI secolo di Portofranco mostra una notevole varietà di provenienze, come è lecito aspettarsi in un approdo toccato dalle rotte che costeggiava­no, nei due sensi, la costa ligure, e trova confronto con l’assortimen­to dei contemporanei insediamenti della bassa valle dell’Arno e del­la Versilia a levante, del Midi francese a ponente e con i carichi dei relitti mercantili rinvenuti lungo il litorale della Gallia meridionale.
La percentuale maggiore di presenze, rappresentate da vasellame in bucchero, recipienti da cucina e da dispensa e anfore vinarie, è ascri­vibile a produzioni di Pisa o di manifatture del suo territorio ed in­dica un attivo coinvolgimento della città etrusca nei traffici mercan­tili del Tirreno settentrionale, già documentato da rinvenimenti di analoghi materiali a Chiavari (buccheri) e sulle coste della Provenza.
Un numero consistente di materiali proveniva anche dall’Etruria meridionale e special- mente da Caere (Cerveteri), importante città etrusca, vicina al Tevere e al territorio dei La­tini, che dalla fine del VII secolo aveva ampliato i suoi interessi commerciali indirizzando le eccedenze della sua ricca agricoltura verso i mercati del mar Ligure e del golfo del Leo­ne, come dimostra la diffusione, anche nei carichi delle navi affondate, delle anfore vina­rie e delle caratteristiche ollette ovoidali, utilizzate come recipienti da cucina e per la con­servazione e il trasporto di alimenti.
Notevole, per uno scavo di limitate dimensioni, è la varietà di anfore, provenienti da vari centri dell’Etruria, da Marsiglia, dalle coste puniche, dall’area egeo-anatolica. Tra le ceramiche fini alcuni dei vasi più rari, rappresentati da esemplari singoli o da poche uni­tà, come una coppa corinzia, possono rappresentare, come più tardi i monumentali crateri figurati prodotti ad Atene, testimonianze di scambi occasionali o doni, nell’ambito di una pratica mercantile che af­fonda le radici nella cultura mediterranea del VII se­colo e trova eco nei poemi omerici. Nell’Iliade (VII, 580 ss.) si racconta ad esempio che Euneo aveva spe­dito per nave in dono agli Atridi, capi della spedizio­ne di Troia, vino di Lemno e che il resto del carico era stato acquistato dagli altri Greci in cambio di spa­de, pelli, bovini o schiavi.
Probabilmente fin dalle origini erano attivi i percor­si in direzione della Liguria interna, lungo la Val Polcevera attraverso il valico della Bocchetta, in seguito ricalcati dal tracciato della via Postumia, segnalati anche dal rinvenimen­to di vasi tipici della cultura di Golasecca, databili tra la fine del VI e l’inizio del V secolo, a Tortona, Guardamonte e nelle tombe liguri di Savignone e Serravalle Scrivia. Sembra di po­ter ravvisare movimenti di merci e di persone verso i merca­ti fluviali sorti sulle rive del Tanaro, come Villa del Foro, presso Alessandria, che ha restituito ceramiche di importa­zione tirrenica e nel Piemonte meridionale fino all’area di Golasecca, dove si erano insediati piccoli gruppi di Etruschi.
Una scoperta recente ha fornito, invece, una prova cer­ta dell’ubicazione del sepolcreto più antico della città, da­tabile al periodo in cui l’approdo del Portofranco iniziò ad essere utilizzato.

Il tumulo dell’Acquasola
Nel corso dei lavori di scavo per la realizzazione di un pozzo per la metropolitana di Genova nella Spianata dell’Acquasola è stata messa in luce, a 14 me­tri di profondità dal piano di calpestio, parte della ba­se di un tumulo sepolcrale, corrispondente a circa un quarto del totale.
Il tumulo, che misurava in origine circa 15 metri di diametro, era circondato da un muro di sostegno in pietre accuratamente scelte per ottenere una forma perfettamente cir­colare. Purtroppo in epoca romana il monumento era stato completamente spianato, per facilitare un utilizzo dell’area per l’agricoltura, e il muro distrutto, ad eccezione dell’ulti­mo filare di pietre.
All’interno del tumulo sono stati rinvenuti i resti di alcune tombe a incinerazione, co­stituite da quattro lastrine di pietra infisse verticalmente per delimitare uno spazio qua­drangolare entro cui doveva essere deposto il corredo. Questo tipo di sepoltura, definito “a cassetta”, è caratteristico della cultura ligure e trova precisi confronti in altre necropoli della prima età del Ferro, come ad esempio in quella di Albenga, recentemente scoperta, mentre a Chiavari il vasto sepolcreto, messo in luce negli anni Cinquanta del secolo scor­so, con tombe a cassa formate da grandi lastre di ardesia raggruppate entro recinti, costi­tuisce l’esempio più esteso ed evoluto di tale tipologia, che perdurò immutata in tutto il territorio occupato dai Liguri fino alla romanizzazione ed oltre.
A causa dei radicali interventi di sistemazione dell’area, le sepolture erano gravemente danneggiate e i corredi dispersi. E stato possibile recuperare, in una di esse, solo alcuni frammenti di ceramica di impasto, riferibili al cinerario, ad una ciotola probabilmente uti­lizzata come coperchio dell’urna e ad altri vasi, nonché due fibule, di cui una in ferro, che, in base a confronti con altri esemplari datati, sono preliminarmente inquadrabili fra la metà del VII e la prima metà del VI secolo a.C.
All’esterno del monumento sono stati raccolti, nei livelli più recenti, frammenti di ce­ramiche del V e IV secolo a.C., che testimoniano come l’area fu frequentata per lungo tem­po, forse per deposizioni successive, quando probabilmente il tumulo era ancora visibile.
La struttura monumentale della tomba e le sue dimensioni suggeriscono che fosse de­stinata ad un personaggio di rango, la cui sepoltura doveva trovarsi in posizione centrale, attorniata da altre, forse di fa­miliari, ma l’esiguità della por­zione che è stato possibile inda­gare e le successive manomis­sioni inducono alla cautela nel formulare ipotesi definitive, an­che perché i dati dello scavo so­no ancora in corso di studio.
Il tumulo dell’Acquasola se­gnala l’esistenza di un’area se­polcrale più antica, anteriore al­la fondazione dell’abitato sulla collina di Castello e riferibile, con tutta probabilità, al gruppo umano insediato presso l’approdo portuale.

VI secolo
Nascita dell’oppidum. La (ri)fondazione di Genova, “città nuova”.
Alla fine del VI secolo a.C. risalgono le pri­me tracce di frequentazione del colle di Ca­stello, uno sperone roccioso in posizione do­minante sul crinale che si prolunga nella peni­sola del Molo, con una buona visibilità sull’ar­co costiero, da Portofino a levante fino a Ca­po Mele a ponente, e sull’approdo portuale.
Le prime costruzioni, identificate nel­l’area del convento di San Silvestro, doveva­no essere prevalentemente capanne e ripari in legno, probabilmente con copertura di paglia o stoppie, documentate archeologicamente da buche per palo e focolari posti direttamente sul suolo.
Anche due edifici in pietra sono attribuibili a questa prima fase di vita dell’oppidum, come il sito fu più tardi definito dagli storici di età ro­mana: il primo era un recinto monumentale, con un’apertura delimitata da pilastri, costruito accuratamente in blocchetti di pietra somma­riamente sbozzata, disposti in filari regolari. Della seconda struttura, presto distrutta per far posto alla cinta muraria, resta solo un breve tratto in pietrame non lavorato, disposto in ma­niera irregolare.
Nonostante l’apparente povertà dell’abitato, il repertorio dei ma­teriali domestici riferibili ai pri­mi anni di vita dell’insediamento è caratterizzato da una grande varietà di provenienze e di produzioni, che dimostrano come il gruppo umano insediato sulla collina di Castello avesse già in­staurato stabili relazioni commerciali a largo raggio. Il vasellame, entro la metà del V sec. a.C., era in netta maggioranza importato, in percentuali oscillanti tra il 70 e l’80% nelle diver­se aree sottoposte a indagini archeologiche appro­fondite. Si tratta prevalentemente di recipienti da cucina in impasto grezzo da vari centri deU’Etruria, mentre fra le ceramiche fini da mensa sono attestati vasi di fabbricazione attica a figure nere e figure rosse, coppe e scodelle dall’Etruria pa­dana, bucchero e più rare stoviglie da Golasecca. Da centri produttivi ubicati in Francia meridionale provenivano ceramiche definite “greche d’occidente”, acrome o decora­te a fasce brune e aran­cio ad imitazione di prototipi attici, e coppe di impasto depurato di colore grigio con decorazioni a zigzag o a onda incise sul lab­bro (“grigia focese”).
Tra le anfore, che costitui­vano i contenitori da trasporto per vino e olio stivati sulle navi, in netta maggioranza etrusche, compaiono più limitati quantitativi da Corinto, greco orientali (da Samo e Chio) e da Marsiglia.

Lo scenario internazionale
Il quadro storico nel quale si svolsero le vicende che videro la fondazione e il popola­mento dell’insediamento sul colle di Castello appare il risultato di un più sistematico rias­setto degli equilibri di forze nel settore del Tirreno settentrionale, determinato dal dispie­garsi di interessi contrastanti di varie potenze in crescita.
Fin dall’VIII secolo a.C. Greci e Fenici avevano iniziato a fondare colonie (la prima fu Pythekoussai nell’isola di Ischia ad opera di Eubei) sulle coste del mar Tirreno, in Italia me­ridionale e in Sicilia.
Nel 600 a.C. un gruppo di coloni di Focea, città della Ionia, in Asia Minore, aveva fon­dato, con il consenso delle popolazioni liguri locali, Massalia (Marsiglia), alle bocche del Rodano. In poco tempo Marsiglia aveva assunto il controllo dei traffici marittimi del Me­diterraneo nord occidentale, svolgendo anche un fondamentale ruolo di mediazione con le popolazioni celtiche che gestivano lo smercio del prezioso stagno delle isole Cassiteridi, in Cornovaglia, rarissimo altrove (ne esistevano solo limitati giacimenti in Etruria) ed in­dispensabile per realizzare la lega di bronzo.
Altre colonie focesi erano state ben presto fondate da Marsiglia ad Emporion (odierna Ampurias) in Spagna e da coloni provenienti dalla madrepatria a Kyrnos, in Corsica, nel luogo dove più tardi sorse la romana Aleria, verso il 565 a.C.
Il porto di Marsiglia era un importante scalo commerciale frequentato anche dagli Etruschi, che, dalla fine del VII secolo a.C., raggiungevano con le loro imbarcazioni le coste della Francia per smerciare i loro prodotti, in particolare vino, che era molto apprez­zato dai Celti e dai Liguri, e ceramiche. Anche i Greci scambiavano vino, olio, profumi e ceramiche decorate con lo stagno, l’ambra e schiavi.
La conquista delle città greche della Ionia da parte dei Persiani verso il 546 a.C. co­strinse alla fuga gli abitanti. Nel 545 a.C. un gruppo di Focei, corrispondente a circa la metà della popolazione, lasciò la città occupata dai Persiani comandati da Arpago, gene­rale di Ciro, per fondare altrove una nuova patria. Dopo alcuni tentativi falliti, gli esuli ri­solsero di raggiungere i compatrioti in Corsica.
L’intraprendenza commerciale dimostrata dai nuovi venuti, accusati anche di pirateria nei confronti dei vicini, turbò la stabilità politica che aveva consentito fino a quel momen­to il pacifico sviluppo dei commerci marittimi ed ebbe come conseguenza la battaglia del Mar Sardo (circa 540 a.C.) ricordata da Erodoto (I, 166), che fu combattuta fra Etruschi e Cartaginesi alleati contro i Focei, forse con la partecipazione di Marsiglia. I Focei risulta­rono vittoriosi nello scontro, ma con perdite così elevate che i superstiti abbandonarono Kyrnos facendo vela verso la Calabria ed in seguito fondarono Elea (Velia) sulle coste della Campania, mentre gli Etruschi rioccuparono la Corsica.

La battaglia del Mar Sardo ebbe come conseguenza la spartizione del Tirreno in sfere di influenza tra le grandi po­tenze che avevano partecipato al conflitto, con la definizione dei rispettivi confini politici e commerciali ed il consolida­mento del sistema di porti e approdi a cui faceva capo la na­vigazione lungo le rotte setten­trionali, perfezionato, dalla fi­ne del VI secolo, anche me­diante accordi e trattati com­merciali, come il primo tratta­to stipulato nel 509 a.C., con giuramento, tra Roma e Carta­gine. Nel testo, tramandato da Polibio (3,22 e 3,26), che ave­va avuto occasione di leggerlo personalmente molti secoli do­po, sono spartiti gli spazi del Mediterraneo, introducendo il concetto di “acque territoriali”.
Le ricerche archeologiche dimostrano che ogni potenza marittima si attivò per con­solidare la propria autorità commerciale e politica: Marsiglia riorganizzò il settore fra Antibes e Nizza e iniziò a fabbricare anfore per commerciare il proprio vino, Cartagine operò un radicale riassetto delle colonie fondate dai fenici in Sardegna e nella Spagna meridionale. Gli Etruschi, non più soli padroni del Tirreno, diversificarono le loro at­tività, creando fondaci all’interno di insediamenti indigeni in Linguadoca, come a Lat­tarci (odierna Lattes) e dando vita ad una rete di controllo e gestione delle più impor­tanti vie di penetrazione commerciale marittima, fluviale e terrestre, mediante la fonda­zione o il potenziamento di centri ubicati in punti strategici, sia costieri, sul Tirreno, a Genova e ad Aleria in Corsica, sull’Adriatico a Spina, sia nell’entroterra padano, dove massicci spostamenti di coloni ripopolarono il fiorente centro di Felsina (Bologna) e edificarono nuove città a Marzabotto e al Forcello di Bagnolo San Vito a pochi chilo­metri da Mantova. Questo fenomeno di riorganizzazione, ad opera di Etruschi e Um­bri, accompagnato da una capillare occupazione delle fertili campagne con fattorie e in­sediamenti produttivi, si protrasse a lungo, imprimendo un nuovo impulso ai commer­ci nell’area padana.
Attraverso le comode vie d’acqua dell’asse Po-Mincio le barche cariche di merci pregia­te, anfore di vino e olio, raffinate ceramiche dipinte e profumi dalla Grecia, vasellame da simposio, figurine di bronzo e gioielli dall’Etruria, ambre intagliate, incenso dall’Arabia, raggiungevano l’abitato del Forcello, vero caposaldo commerciale per il tragitto verso i ter­ritori della cultura di Golasecca, le cui popolazioni esercitavano il controllo dei valichi al­pini e degli itinerari verso le regioni dell’Europa centrale abitate dai Celti.
Altre vie di terra mantenevano in contatto l’Etruria padana con il Tirreno, garantendo l’approvvigionamento dei metalli attraverso i valichi appenninici che congiungevano la Romagna con la Garfagnana in direzione di Populonia e collegavano i mercati golasecchiani con la Liguria centrale lungo il percorso della Val Polcevera, poi ricalcato dalla via Postumia, che raggiungeva il porto di Genova attraversando i territori del Piemonte occu­pati dai Liguri dellinterno.
Come testimonia Scilace (Ps.Skil. 5), nel VI secolo a.C. la costa ligure era posta sotto l’influenza etrusca, con un limite ad Antion (Antibes).
La realizzazione di un centro stabile a Genova sembra rispondere, come diremmo in linguaggio moderno, ad un’esigenza di mercato. La convergenza sul porto di una rete di percorsi di crinale e di fondovalle in corrispondenza di valichi, che collegavano, con il tra­gitto più breve in Liguria, la città ai territori padani, e la posizione costiera in un punto di tappa quasi obbligato, giustificano la nascita di un santuario emporico e la fortuna del centro, posto in una zona di cerniera tra Etruschi, Greci di Marsiglia, Celti e le popola­zioni della Padana occidentale, Liguri dell’interno e Golasecchiani, che da tempo si affac­ciavano sulla costa ligure per i loro scambi.
Come dimostrano le scoperte del Portofranco, al momento della fondazione dell’abi­tato sulla sommità della collina di Castello esisteva già a Genova una comunità attiva, che gestiva lo scalo e praticava scambi con merci di importazione, e i nuovi arrivati si indiriz­zarono perciò verso un luogo sicuro e ospitale, già noto per precedenti frequentazioni commerciali.

L’abitato tra il V e il III secolo a.C.
Nel corso della prima metà del V secolo l’abitato sulla collina di Castello fu sottopo­sto a ristrutturazioni e ingrandimenti, con la trasformazione delle strutture esistenti in edi­fici di abitazione, dove si svolgevano anche attività artigianali. Le case, di forma quadran­golare, erano costituite da muri di fondazione in corsi di pietra (calcare marnoso locale) sbozzata, legati da argilla, disposti in filari con andamento regolare e alzato in canniccio intonacato. Gli spazi interni erano talvolta articolati con muri in mattoni crudi, che sono stati identificati, nel corso degli scavi, già in fase di crollo. I pavimenti erano realizzati in argilla pura ben pressata, più raramente in ciottoli. Nelle prime fasi di vita dell’abitato i tetti avevano probabilmente coperture in materiali deperibili, paglia o legno, perché non sono state rinvenute tegole o coppi anteriori al IV secolo.
Le case erano dotate di focolari accesi direttamente sul suolo con carboni, a volte deli­mitati da pietre.
Nell’oppidum trovavano posto anche le officine per la lavorazione dei metalli, princi­palmente del ferro, come dimostrano le abbondanti scorie di lavorazione e un resto di forno fusorio e certamente anche ovili, pollai e recinti per animali. Lo studio delle ossa animali documenta che erano presenti, ol­tre agli animali allevati per l’alimentazione, anche cani e cavalli.
Circa alla metà del V secolo fu realiz­zata una poderosa cinta muraria, intercet­tata in vari punti della sommità collinare, costruita a doppia cortina con riempi­mento incoerente. Per la sua edificazione fu utilizzato sia il materiale stesso cavato dal monte, la cui abbondanza favorì an­che la realizzazione di massicciate o strati di pietrame costipati e livellati, sia mate­riale di recupero.
Le mura circondavano la sommità della collina, seguendo l’andamento di una cur­va di livello: le distruzioni operate nei secoli dal succedersi di edificazioni non han­no consentito di seguirne l’intero svilup­po lineare e non è escluso che alcuni pun­ti dove il pendio scendeva a strapiombo, già naturalmente protetti, fossero privi di installazioni di difesa.
Nel tratto occupato nel medioevo dal palazzo del Vescovo si addossava alle mu­ra una torre quadrangolare, formata da due camere riempite di terra. La torre oc­cupava il punto di maggiore visibilità ver­so nord, consentendo il controllo dell’intero arco portuale e di un vasto braccio di mare a Ponente fino a Capo Noli. Non sembra perciò un caso che, nel Medioevo, fosse stata parzialmente spianata per far posto ad una torre pentagonale addossata al palazzo del Vescovo.
All’estremità nord, nell’area ora occu­pata dalla chiesa di Santa Maria delle Grazie la nuova, si apriva nella cinta, del­lo spessore di circa due metri, una porta che costituiva l’accesso all’oppidum per chi proveniva dal porto. L’apertura era dotata di una soglia e delimitata da un masso (il secondo stipite non è stato rinvenuto) di notevoli dimensioni, inglobato nella tessitura muraria e sommariamente sboz­zato per ottenere una parete rettilinea.
Lo spazio interno era pavimentato in ciottoli, mentre all’esterno del muro una rampa gradinata di pietre sovrapposte, in discesa verso l’attuale via di Mascherona (confine na­turale della collina), è stata interpretata come la strada antica che saliva dalle pendici.
La superficie circondata da mura raggiungeva i 3000 mq, ed anche nel IV secolo a.C. l’estensione dell’abitato non raggiungeva un ettaro.

In concomitanza con l’erezione delle mura, nella parte centrale dell’abitato il rilievo, ori­ginariamente a schiena d’asino, fu spianato e rimodellato con terrazzamenti per regolarizza­re la conformazione del terreno, in forte pendenza da ovest verso est, ed aumentare la super­ficie edificabile. Tali impegnativi lavori causarono la distruzione degli edifici più antichi.
La realizzazione della fortificazione sembra rispecchiare una pressante esigenza di dife­sa, forse in relazione alla situazione di insicurezza determinata dalle incursioni dei Siracu­sani nell’alto Tirreno nel 453 a.C. contro l’isola d’Elba e la Corsica.
Nel corso della seconda metà del secolo furono operate altre trasformazioni e restauri motivati da fattori contingenti, come il crollo di un muro di terrazzamento nell’area nord.
Nel IV secolo, forse anche a seguito dei traumatici eventi che seguirono l’invasione gal­lica della pianura padana, motivando l’esodo dei Liguri dell’interno, l’abitato fu sottopo­sto ad una radicale trasformazione urbanistica, che causò la parziale demolizione di tratti della cinta, con la ristrutturazione di alcune abitazioni, la costruzione di nuovi edifici do­tati di copertura in tegole, con diverso orientamento rispetto ai precedenti, e la creazione di poderosi terrazzamenti formati da massicciate in pietra, anche nei versanti della collina esterni alle mura.
Lungo le pendici e ai piedi della collina, in direzione del porto, sorgevano altri edifici, di cui sono stati occasionalmente identificati alcuni resti nella cripta della chiesa di San Nazario e Celso, che insieme a materiali sparsi, raccolti prevalentemente in giacitura se­condaria, nell’area più vicina all’approdo, dimostrano una capillare occupazione dei luo­ghi. E probabile che la ricerca di nuovi spazi abitativi documenti un aumento di popola­zione, che sembra di poter associare, in base all’analisi dei dati archeologici, a un momen­to di intensa attività del porto e ad una maggiore presenza di Liguri.
Tra la fine del IV e il III secolo a.C. prese avvio un processo irreversibile di decadenza dell’abitato, con fenomeni di distruzione e crolli, seguiti da abbandono, in concomitanza con la dismissione di un settore della necropoli.

[ulteriori immagini saranno inserite appena verranno pronte]

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 Genova tra il VII e il IV secolo a.C.

Estratto da Piera Melli, Genova tra il VII e il IV secolo a.C., in Melli P., Genova dalle origini all’anno mille, SAGEP, 2014.

I primi indizi di frequentazione dell’insenatura portuale nell’età del Ferro sono offerti, nell’area del Portofranco, da un ammasso di legni, frammisti a pochi frammenti di ceramica, adagiati su uno stato sabbioso che aveva sigillato i livelli di X – IX secolo. L’insieme era formato da legni con tracce di lavorazione, pali appuntiti e qualche tavola e da tronchi e rami non lavorati. La posizione di caduta, che descriveva una sorta di trapezio (fig. 1 ) ha suggerito che potesse trattarsi di un rudimentale pontile collassato, benché non siano stati individuati incastri o legature, dato anche il precario stato di conservazione dei legni.
Materiali riconducibili alla presenza umana nel territorio di Genova nell’VIII – VII secolo a.C. sono stati anche raccolti, insieme a ceramiche preistoriche, nello scavo della stazione Metropolitana di Principe, in livelli di colluvio depositati alla base dell’altura a seguito del dilavamento ed erosione del pendio. Si tratta di frammenti di vasi di impasto, confrontabili con le produzioni liguri coeve, di un coperchio con ansa a bastoncello di tradizione villanoviana e di un certo numero di rocchetti da tessitura (fig. 2), che suggeriscono l’esistenza di un insediamento posto sulla dorsale alle spalle di Principe, Costa di Comigianello. Specialmente i rocchetti, connessi ad attività domestiche praticate dalle donne, costituiscono indizi di una frequentazione stabile dei luoghi.
Rocchetti analoghi sono stati rinvenuti nei fondali marini del Portofranco e nel cantiere di piazza Brignole, all’interno di una estesa frana precipitata dal versante nord della collina, che ricoprì le strutture preistoriche da tempo abbandonate. Anche nel caso di Brignole si è supposto che i materiali trascinati dalla frana facessero parte di un deposito stratigrafico ubicato più a monte, sul colle dello Zerbino. Al passaggio fra Bronzo Finale e primo Ferro sono attribuibili anche frammenti di vasi di impasto raccolti in giacitura secondaria alle pendici dell’Acquasola.
Benché in numero limitato questi oggetti costituiscono indizi dell’esistenza nel territorio di Genova, nella prima età del Ferro, di alcuni nuclei abitati liguri situati sulle alture che dominavano l’arco portuale e il tratto terminale del Bisagno.
Una importante scoperta avvenuta nel 2006 nell’area dei giardini dell’Acquasola, ha offerto nuovi, insperati dati sull’evoluzione culturale e sociopolitica dei gruppi umani che popolarono Genova sullo scorcio del VII secolo a.C. Nel corso delle indagini archeologiche preventive alla costruzione di un pozzo di areazione della linea Metropolitana sono stati infatti messi in luce, a 12 metri di profondità, i resti di un tumulo funerario, smantellato in epoca romana.
Della struttura, che è stata intercettata soltanto per una porzione pari a circa un quarto della sua estensione, nello spazio delimitato dalla cortina in cemento armato del pozzo (fig. 3), si conservava solo il primo filare del perimetro di base, costituito da un anello in pietre calcaree raccolte sul posto, che descrive un cerchio regolare all’incirca di 14-15 metri di diametro.
Nello spazio interno si trovavano una piccola tomba a cassetta, delimitata in origine da quattro lastrine verticali, di cui solo due restate in posto. La sepoltura, che era stata violata in antico, perché intercettata in età romana nel corso di lavori agricoli che causarono anche lo spianamento del tumulo, conservava sul fondo poche ossa umane combuste e alcuni frammenti di ceramica e metallo inquadrabili nell’ultimo quarto/fine del VII secolo. Ad una seconda sepoltura distrutta è stata dubitativamente attribuita una piccola struttura ad est della precedente, mentre non si sono potuti raccogliere dati sulla deposizione principale, che doveva trovarsi al centro del tumulo, nella porzione al di fuori dell’area di scavo.
Il terreno che aveva riempito il fondo della tomba secondaria, prelevato interamente e sottoposto a microscavo in laboratorio, ha restituito alcuni frammenti di bucchero di produzione etrusco meridionale, di un cinerario in impasto e di alcune coppette, due piccoli perni in bronzo attribuibili ad un gancio di cinturone e due fibule in bronzo (fig. 5), che trovano confronto con esemplari tipici del Piceno e di area campano laziale, provenienti da siti aperti ai contatti con il mondo etrusco.
L’analisi antropologica delle ossa, che identifica un soggetto adulto, di età presumibile fra i 20 e i 35 anni, di corporatura gracile, e la foggia delle fibule suggeriscono che la persona sepolta fosse una donna. Gli oggetti di ornamento personale, che, come parte del costume sono normalmente considerati indicatori di provenienza etnica, indicano l’origine da area campano laziale della defunta, nel cui corredo sono associati vasi di produzione locale e di importazione dall’Etruria meridionale e fanno ritenere che fosse già in atto a Genova una politica di scambi e allearze suggellate da vincoli matrimoniali.
Benché non si possano escludere contaminazioni culturali, la tipologia del monumento, di cui resta ben poco, non pare direttamente confrontabile con le imponenti tombe a tumulo delle necropoli etrusche, ma sembra rientrare nella grande famiglia delle sepolture costituite, con differenti modalità di realizzazione, da una struttura perimetrale litica che sosteneva e conteneva un tumulo, o meglio un accumulo di pietre o una calotta terrosa, più diffusa in arca centro italica. Le tombe a tumulo sono peraltro rare nell’Italia nord occidentale: per l’età del ferro tale tipologia è sinora nota nell’attuale Liguria solo ad Apricale (IM), dove un tumulo di circa 14 m di diametro, con anello esterno in lastre e blocchi posti di piatto, è circondato da altre strutture più piccole, non indagate. I migliori confronti per la tecnica di costruzione della crepidine del monumento genovese si ravvisano con quelle di sepolcri simili diffusi già nell’età del Bronzo nella vicina Provenza e nel Gard, nella parte orientale della Linguadoca, tra l’Herault e il Rodano.
La forma della tomba secondaria messa in luce, a cassetta litica, è caratteristica invece della cultura ligure e trova precisi confronti in altre necropoli della prima età del Ferro, cronologicamente prossime, ad esempio ad Albenga mentre a Chiavari il vasto sepolcreto, messo in luce negli anni Cinquanta del secolo scorso, con tombe a cassa formate da grandi lastre di ardesia raggruppate entro recinti, costituisce l’esempio più esteso ed evoluto di tale tipologia, che perdurò con poche variazioni in tutto il territorio occupato dai Liguri, fino alla romanizzazione ed oltre.
La struttura monumentale del sepolcro e le sue dimensioni suggeriscono che fosse destinato ad un esponente locale di rango, la cui tomba doveva trovarsi in posizione centrale, attorniata da altre, forse di familiari, e testimoniano dell’esistenza di una gerarchia sociale all’interno della comunità di appartenenza. La posizione sopraelevata del tumulo, su una piccola altura rocciosa, a circa 30 metri s.l.m., che dominava la piana del Bisagno, dove all’epoca correva un meandro del torrente, con probabili funzioni di approdo, una sorta di porto-canale (fig. 4) sembra sottolineare, come constatato in altri contesti, l’intenzione di marcare il paesaggio con la tomba di un personaggio eminente della comunità e segnalare il possesso della terra. La scelta del luogo, in corrispondenza di una sella naturale fra i rilievi dello Zerbino e del- l’Acquasola, che coincideva con un percorso pedemontano (attuale via Serra) può essere stata inoltre condizionata dalla vicinanza di un asse di comunicazione che collegava l’approdo fluviale e segnalare quindi anche il coinvolgimento del titolare della tomba o della sua famiglia in attività di tipo mercantile.
La compresenza di modelli architettonici e materiali di diversa provenienza costituisce infine un indizio di evoluzione verso una società più complessa e l’avvio di un processo di acculturazione con caratteri “misti”, in coincidenza con l’avvio sistematico dei traffici tirrenici lungo la costa ligure.

Nascita di un porto
La ricostruzione dei percorsi marittimi del Tirreno settentrionale è stata oggetto di numerosi studi ed il tema di un recente Convegno: la rotta di cabotaggio lungo le coste della Toscana e della Liguria in direzione dei mercati della Linguadoca e della Provenza, definita come la più antica e documentata già nella Preistoria18, fu attivata alla fine delI’VIII secolo dalla marineria greca ed etrusco meridionale.
Come stanno confermando recenti scoperte, nel pieno VII e nei primi decenni del VI secolo a.C. la costa ligure era disseminata di centri, come Chiavari, Rapallo, Albisola, Pietra Ligure, Albenga, di cui conosciamo solo le necropoli, aperti allo scambio ed in contatto con le popolazioni liguri dell’interno e la civiltà di Golasecca, una popolazione insediata nel bacino del Ticino, che traeva la sua prosperità da attività artigianali e principalmente dal controllo dei commerci per via fluviale e attra verso i valichi alpini.
Tra la fine del VII e i primi decenni del VI secolo a.C. ebbe inizio un commercio regolare e continuato con la Gallia, dove nel 600 a.C. era stata fondata in territorio ligure la colonia greca di Marsiglia, appoggiato a una rete di porti etruschi con funzione di emporia potenziati in quegli anni, come Pyrgi, collegata a Caere (odierna Cerveteri) e Gravisca. L’interesse degli Etruschi e dei Greci per le aree alle foci del Rodano si spiega con la ricerca di metalli, principalmente lo stagno, indispensabile per realizzare la lega di bronzo, che proveniva dalle miniere delle isole Cassiteridi, in Cornovaglia ed era distribuito lungo la via del Rodano sotto il controllo di popolazioni celtiche; erano richiesti anche ambra e schiavi. In cambio gli Etruschi fornivano soprattutto il vino prodotto nelle loro fertili campagne, accompagnato dallo strumentario per il suo consumo, vasi in bucchero, ceramiche dipinte e recipienti in metallo, che gli indigeni avevano dimostrato di apprezzare.
Allo stesso periodo risale a Genova l’inizio vero e proprio delle attività dello scalo portuale del Portofranco, dove un piccolo nucleo di materiali accumulati sui fondali marini, distribuiti nell’arco di un secolo tra la fine del VII e la fine del VI secolo a.C., con qualche più raro oggetto ancora inquadrabile nel pieno VII secolo a.C., costituisce una sorta di repertorio delle merci commerciate lungo le coste tirreniche, con una netta maggioranza di importazioni dall’Etruria meridionale e settentrionale costiera, che trova confronto con l’assortimento dei contemporanei insediamenti della bassa valle dell’Arno e della Versilia a levan¬te, del Midi francese a ponente e con i carichi dei relitti mercantili rinvenuti lungo il litorale della Gallia meridionale. Si tratta di vasellame fine da mensa, in bucchero o dipinto, recipienti da cucina o per il trasporto di alimenti dall’Etruria meridionale come le tipiche ollette (fig. 6), che si ritiene avessero anche un impiego rituale ed una notevole varietà di anfore da vino, provenienti da vari centri dell’Etruria, da Marsiglia, dalle coste puniche, dall’area egeo-anatolica. La percentuale maggiore di presenze, rappresentate da vasellame in bucchero, ceramica comune e anfore vinarie è ascrivibile a produzioni di Pisa o di manifatture del suo territorio ed indica un attivo coinvolgimento della città etrusca nei traffici mercantili del Tirreno settentrionale, già documentato da rinvenimenti di analoghi materiali a Chiavari (buccheri) e sulle coste della Provenza.
Tra le ceramiche fini alcuni dei vasi più rari, costituiti da esemplari isolati, come una coppa corinzia, possono rappresentare, come più tardi i monumentali crateri figurati prodotti ad Atene, la testimonianza della pratica del “dono”, ricorrente nelle società orientalizzanti mediterranee, anche in ambito mercantile, di cui l’epica omerica ha tramandato il ricordo: sotto l’ampia accezione del vocabolo “dono” erano compresi omaggi ai capi indigeni, apprezzati per il loro carattere esotico, “campioni” di prodotti da introdurre sul mercato, beni portati in dote da spose di altri paesi o tributi per diritti portuali sotto forma di parte dei beni trasportati.
Già da allora erano attivi i percorsi in direzione della Liguria interna, lungo la Val Polcevera attraverso il valico della Bocchetta, in seguito ricalcati dal tracciato della via Postumia; movimenti di merci e di persone sono ipotizzabili verso i mercati fluviali sorti sulle rive del Tanaro, come Villa del Foro, presso Alessandria, che ha restituito ceramiche di importazione tirrenica e più in generale nel Piemonte meridionale fino all’area di Golasecca, dove si erano insediati piccoli gruppi di Etruschi.
All’abitato corrispondente, probabilmente situato nelle vicinanze dell’approdo, sono riferibili, tra i materiali raccolti nei fondali, oggetti di abbigliamento, come una fibula, o di uso domestico (rocchetti da tessitura), frammenti di recipienti da dispensa e da cucina con tracce di uso, pesi da rete e rifiuti di pasto (ossa animali con incisioni di macellazione e gusci di molluschi).

L’oppidum di Castello
La frequentazione della piccola altura di Castello (fig. 7), sul cri¬nale che si prolunga nella penisola del Molo, si può far risalire alla prima metà del VI secolo a.C., come dimostra lo studio di alcune ceramiche orientalizzanti con decorazioni impresse di tradizione villanoviana (fig. 8) rinvenute in strati rimaneggiati. Esse possono costituire testimonianza di fasi insediative non altrimenti documentate o di “sopralluoghi” esplorativi per verificare la situazione topografica e ambientale del sito. Nella piazza di Santa Maria in Passione alcuni livelli a contatto della roccia sterile conservavano materiali della seconda metà-fine del VI secolo a.C.
Solo alla fine del secolo è possibile far risalire l’occupazione della sommità della collina a scopo abitativo con capanne e ripari in legno, documentati archeologicamente, nell’area del convento di San Silvestro, da buche per palo e focolari posti diretta mente sul suolo.
Anche due edifici in pietra sono attribuibili a questa fase di vita dell’oppidum: del primo, in pietrame non lavorato resta solo un breve tratto sotto la chiesa di Santa Maria delle Grazie la nuova; il secondo, nell’area del convento di Santa Maria in Passione, era un recinto monumentale, con un’apertura delimitata da pilastri (fig. 9), costruito accuratamente in blocchetti di pietra sommariamente sbozzata, disposti in filari regolari; lo spazio interno era pavimentato con un ciottolato irregolare. L’accuratezza della costruzione dimostra una perizia tecnica matura, che trova confronto in ambito etrusco.
La fondazione di un abitato stabile sulla collina di Castello si inquadra in un più vasto processo di trasformazione che investì le popolazioni affacciate sul Mediterraneo occidentale a seguito della battaglia navale di Alalia (Aleria) o del Mar Sardonio, come fu ricordata per lungo tempo dagli storici antichi, combattuta, circa nel 540 a.C., da Etruschi e Cartaginesi alleati contro gli esuli Focei che si erano insediati in Corsica, come conseguenza della rottura di un equilibrio politico che aveva sino ad allora consentito il pacifico svolgimento dei commerci marittimi. L’esito dello scontro, che costrinse i Focei, pur vittoriosi, ad abbandonare l’isola per le gravi perdite subite (una vittoria “cadmea”, come commenta Erodoto) determinò un riassetto dei rapporti di fona ed una spartizione delle sfere di influenza delle grandi potenze che avevano partecipato al conflitto, con la definizione dei rispettivi confini politici e commerciali ed il potenziamento della rete di porti e approdi a cui faceva capo la navigazione lungo le rotte settentrionali, perfezionato dalla fine del secolo, anche con la stipula di accordi e trattati commerciali. Pure Roma, che andava allargando le sue mire espansionistiche, partecipò alla spartizione degli spazi del Mediterraneo, come dimostra il testo del primo trattato sottoscritto con Cartagine nel 509 a.C., tramandatoci da Polibio (3,22 e 3,26), dove è introdotto il concetto di “acque territoriali”.
Ogni potenza marittima si attivò per consolidare la propria autorità nei territori di competenza: Marsiglia riorganizzò il settore fra Antibes e Nizza e iniziò a fabbricare anfore per commerciare il proprio vino, Cartagine operò una radicale ristrutturazione delle colonie fondate dai Fenici in Sardegna e nella Spagna meridionale. Gli Etruschi, non più soli padroni del Tirreno, diversificarono le loro attività, creando fondaci all’interno di insediamenti indigeni in Linguadoca, come a Lattava (odierna Lattes) e in Liguria a Genova e dando vita ad una rete di controllo e gestione delle più importanti vie di penetrazione commerciale marittima, fluviale e terrestre, mediante la fondazione o il potenziamento di centri ubicati in punti strategici, sia costieri, sul Tirreno ad Aleria in Corsica e sull’Adriatico a Spina, sia nell’entroterra padano, dove massicci spostamenti di coloni ripopolarono il fiorente centro di Felsina (Bologna) e rifondarono nuove città a Marzabotto e al Forcello di Bagnolo San Vito a pochi chilometn da Mantova. Questo fenomeno di riorganizzazione, ad opera di Etruschi e Umbri, accompagnato da una capillare occupazione delle fertili campagne con fattorie e insediamenti produttivi protrasse a lungo, imprimendo un nuovo impulso ai commerci nell’area padana.
Una testimonianza del nuovo quadro storico venutosi a creare è offerta per la Liguria dal più antico portolano noto del Mediterraneo, che va sotto il nome di Scilace di Karyanda, navigatore al servizio del re persiano Dario I, databile entro il VI secolo a.C. e pervenuto sino a noi con interpolazioni più tarde. In un passo, che autorevoli studi ritengono pertinente alla stesura più antica, il geografo greco, riferendosi evidentemente ad una competenza in materia di commerci, non già ad una dominazione politica, afferma che, navigando da ovest, la costa dal Rodano fino ad Antion (Antipolis) [attuale Antibes] apparteneva ai Liguri e da Antion fino alla polis di Roma esclusa apparteneva ai Tyrrhenoi, gli Etruschi.
Il repertorio dei materiali domestici riferibili ai primi anni di vita dell’insediamento genuate è caratterizzato da una grande varietà di provenienze e di produzioni, che dimostrano come il gruppo umano insediato sulla collina di Castello avesse già instaurato stabili relazioni commerciali a largo raggio. Nelle aree sottoposte ad indagini archeologiche approfondite si è constatato che il vasellame, entro la metà del V secolo a.C., era in netta maggioranza importato, in percentuali oscillanti tra il 70 e l’80%. Si tratta prevalentemente di recipienti da cucina in impasto grezzo da vari centri dell’Etruria, mentre fra le ceramiche fini da mensa sono attestati vasi di fabbricazione attica a figure nere e figure rosse, coppe e scodelle dall’Etruria padana (fig. 10), bucchero e più rare stoviglie da Golasecca. Da centri produttivi ubicati in Francia meridionale provenivano ceramiche di argilla figulina cosiddette “greche d’occidente” e coppe della classe definita “grigia focose”. Tra le anfore, in netta maggioranza etrusche, compaiono più limitati quantitativi da Corinto, greco orientali (da Samo e Chio) e da Marsiglia.
Nel corso della prima metà del V secolo l’abitato fu sottoposto a modifiche e ingrandimenti, con la trasformazione delle strutture esistenti in edifici di abitazione stabili, dove si svolgevano anche attività artigianali. Le case, di forma quadrangolare, erano costituite da muri di fondazione in corsi di calcare marnoso sbozzato, cavato direttamente dal monte, legati da argilla e disposti in filari con andamento regolare e alzato in canniccio intonacato. Gli spazi interni erano talvolta articolati con muri in mattoni crudi, mentre i pavimenti erano realizzati in argilla pura ben pressata, in un caso in ciottoli. I focolari erano accesi direttamente sul suolo, a volte delimitati da pietre (fig. 11). Edifici con le stesse caratteristiche edilizie sono diffusi in Etruria, ad esempio a Pisa.
Nell’oppidum trovavano posto anche le officine per la lavorazione dei metalli e certamente anche ovili, pollai e recinti per animali. Lo studio delle ossa animali documenta che erano presenti, oltre agli animali allevati per l’alimentazione, anche cani e cavalli.
Circa alla metà del V secolo a.C. la sommità della collina fu spianata e rimodellata con terrazzamenti e massicciate di pietrame livellato per regolarizzare la conformazione del terreno, in forte pendenza, ed aumentare lo spazio edificabile. Contestualmente fu realizzata una poderosa cinta muraria, di spessore variabile, fino a due metri, di cui sono noti vari tratti, costruita a doppia cortina con riempimento incoerente. Nel tratto poi occupato nel medioevo dal palazzo del Vescovo si addossava alle mura una torre quadrangolale, formata da due camere riempite di terra, che sorgeva nel punto di maggiore visibilità verso nord, consentendo il controllo dell’intero arco portuale e di un vasto braccio di mare a Ponente fino a Capo Noli. All’estremità nord, nell’area della chiesa di Santa Maria delle Grazie la nuova, si apriva nella cinta (fig. 12) una porta, delimitata da un masso di notevoli dimensioni, collegata ad una rampa gradinata di pietre sovrapposte, in discesa verso l’attuale via di Mascherona (confine naturale della collina), che costituiva l’accesso all’oppidum per chi proveniva dal porto.
Nel V secolo Genova era un prospero e vivace centro portuale (fig. 13), che riceveva derrate alimentari e prodotti artigianali da tutto il Mediterraneo, in parte utilizzandoli direttamente, in parte smistandoli verso il Piemonte meridionale e i siti costieri della Liguria centrale.
Non possediamo prove sul nome del centro abitato in quell’epoca: le più antiche menzioni dirette nella forma latina, Genua, compaiono su un miliario della via Postumia dalle vicinanze di Verona (148 a.C.) e ricorrono più volte nel testo della Sententia Minuciorum, inciso sulla Tavola di Polcevera (117 a.C.). Gli scrittori di lingua greca la citano come Genua. Mentre nel Medioevo fu introdotto per qualche tempo il nome Ianua, collegato ad ascendenze mitiche di fantasia e strumentalizzato in chiave simbolica, in età moderna molti appassionati di storia locale si cimentarono in ricostruzioni esegetiche forzate, prive di fondamento scientifico.
Gli studi di glottologia fanno derivare l’appellativo dall’indoeuropeo *g(h)enu- “bocca”, acquisito nella lingua celto-ligure parlata nella Liguria dell’età del ferro, con riferimento alla posizione geografica, così come per Ginevra (Genaua), sorta sul lago omonimo allo sbocco del Rodano (nel celtico antico gen(a)ua ha significato di “imboccatura”). Il nome fu in seguito probabilmente fatto proprio dagli Etruschi insediati sulla collina di Castello e reso in etrusco con il vocabolo kainua, con significato di “[città] nuova”, che rientra in un gruppo di nomi etruschi di città (es. Mantua), come sembra dimostrare l’occorrenza del termine nel nome etrusco di Marzabotto, in Emilia, graffito su un frammento di ceramica.
Benché la regione sia conosciuta solo in modo episodico per l’età del ferro media e tarda, gli abitati liguri coevi della fascia centrale della Liguria, noti prevalentemente da sepolture (fig. 14) e da materiali provenienti da raccolte di superficie, non mostrano un livello economico di sviluppo paragonabile, anche se sono documentati imprestiti dalle aree celtiche padane, come elementi di costume e ceramiche con decorazioni a reticolo derivate da modelli della cultura di Golasecca. Solo qualche frammento di ceramica attica, che notoriamente costituisce un buon indicatore, anche di orientamento culturale ed è presente in abbondanza a Genova sia nelle versioni figurate, sia con numerose forme a vernice nera, anche nell’abitato, è stato rinvenuto sporadicamente in pochi siti della regione, tra cui, significativamente, castellare di Sestri Ponente (fig. 16), e l’insediamento di Isola del Cantone, posti a controllo dei percorsi tra il porto di Genova e la Liguria interna, rispettivamente attraverso la Val Polcevera, lungo il tragitto che sarà poi ricalcato dalla via romana Postumia, e tramite la Valle Scrivia che collegava la Val Bisagno e la pianura Padana, con diramazioni verso la Val Trebbia e i territori dell’Emilia.
Il territorio montano era articolato in piccole comunità di villaggio sparse, prevalentemente concentrate su sommità o a mezza costa e caratterizzate da un’economia fondata sull’agricoltura, la pastorizia e lo sfruttamento dei boschi, cui sono da ricollegare anche siti a frequentazione stagionale, stazioni di transumanza e postazioni di vedetta.
La chiave di lettura della prosperità di Genova e della sua lunga sopravvivenza, nonché della sua sostanziale lontananza dalla cultura e dai costumi liguri, così come li conosciamo dagli scavi nel resto della Liguria, è offerta da Strabone, vissuto in età augustea, che definisce a più riprese (IV 6, 1-2; V 1, 3) il centro portuale “emporio dei Liguri”, dove i Liguri scambiavano prodotti locali, prevalentemente derivati dell’allevamento ovino, dell’apicoltura e del taglio del legname, con merci importate, vino e olio. Si ritiene che lo storico greco, rifacendosi a fonti anteriori, si riferisse ad una realtà di lunga tradizione, come è dimostrato dalle scoperte archeologiche qui illustrate. La precisazione “dei Liguri”, come per altri empori collegati a nomi di popoli, sottolinea il ruolo interregionale svolto dal mercato di Genova, crocevia dei traffici tirrenici e delle vie terrestri verso la pianura Padana e fulcro del sistema di redistribuzione delle merci locali.
Gli studi sull’occorrenza del termine nella letteratura antica e l’incrocio dei dati archeologici dimostrano che gli emporia erano luoghi, situati sul mare, alla foce di fiumi o in zone esterne agli abitati, dove si praticava lo scambio di prodotti locali con merci provenienti dall’esterno e dove comunità diverse si incontravano e convivevano, disponendo ciascuna di propri spazi, sotto il controllo del potere locale. Una caratteristica fondamentale degli emporia, che li distingueva da altri luoghi di commercio, era – come insegnano i casi di Pyrgi e Gravisca, importanti empori etruschi connessi, rispettivamente, alle città di Caere e Tarquinia – la presenza di santuari, oggetto di devozione anche da parte di stranieri di passaggio, che garantivano la protezione della divinità sulle transazioni commerciali e il diritto di asilo. Numerose menzioni degli autori antichi, riferite principalmente al mondo greco. e rari reperti epigrafici ci informano dell’istituzione di funzionari e magistrati che vigilavano sul corretto svolgimento dei traffici, talvolta della presenza stanziale di contingenti di militari e dell’imposizione di dazi e tasse doganali.
L’esistenza sulla collina di Castello di uno o più luoghi di culto è suggerita da alcuni graffiti, valorizzati da Giovanni Colonna, con iscrizioni, come le parole ais, “dio”, e al, “dono”, documentate in santuari e da un’iscrizione incisa su un ciottolone in serpentino lavorato per essere infisso verticalmente in un supporto (fig. 15), che riporta il nome dell’autore della dedica, un Nemetie di origine celto-ligure. È stato proposto di identificare la divinità venerata con il dio Sur(i)/Soranus, dai connotati inferi, oggetto di culto in Etruria e nel Lazio, con un importante santuario nell’emporio di Pyrgi. Come offerta votiva è stata anche interpretata la figurina di discobolo (fig. 17), datata intorno al 470 a.C., che in origine sormontava un candelabro, oggetto di particolare lusso, di produzione volterrana. Anche alcuni graffiti che riportano le prime lettere o la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto (“alfabetari abbreviati”) sono considerati possibili indizi di dediche in santuari, come documentato in altri siti e sembrano voler esibire, da parte degli offerenti, la capacità di padroneggiare il bene prezioso della scrittura, che conferiva prestigio e distinzione.
La scrittura fu introdotta a Genova nei primi anni dell’impianto dell’abitato, alla fine del VI secolo a.C., non oltre il 525 a.C., dagli Etruschi che si insediarono nell’oppidum, insieme alla loro lingua, come dimostrano le iscrizioni rinvenute negli scavi, redatte infatti in lingua e caratteri etruschi. L’ortografia (fig. 19) segue le norme dell’Etruria settentrionale, con qualche limitato apporto meridionale e non pare aver accolto successivamente variazioni o innovazioni, come invece è accaduto in Etruria, dove si sono verificate, dopo quella data, diverse fasi di adattamento delle norme grafiche alle esigenze fonetiche. Pur tenendo conto della casualità dei rinvenimenti, che impone cautela nelle conclusioni, questo conservatorismo pare rispecchiare un relativo isolamento del gruppo di etruscofoni che popolò originariamente la collina di Castello, indizio di una comunità chiusa, che non ha accolto ulteriori trasfusioni dalla madrepatria nel corso del tempo.
Benché i dati in nostro possesso indichino che la compagine sociale di Genova non aveva una composizione etnica omogenea, ma arricchita dal confluire di genti provenienti da aree diverse, portatrici quindi di differenti culture, appare chiaro che sono all’inizio gli Etruschi, in possesso di un bagaglio culturale maggiormente strutturato e di una tecnologia molto avanzata, specialmente nell’ambito della metallurgia, a controllare l’emporio genuate, introducendo appunto la lingua e la scrittura, i culti e i rituali funerari, la cerimonialità collettiva, le tecniche artigianali e i modi del costruire.
I nomi di persona documentati a Genova, talvolta abbreviati o suggeriti dalle sole iniziali, graffiti con uno strumento appuntito sulle pareti o sul fondo di vasi di uso quotidiano per segnalarne il possessore, sono in maggioranza etruschi, di origine italica, con attestazioni nell’Etruria interna e nell’Umbria, tra Chiusi e Orvieto, ma anche nel Lazio e nell’Etruria padana. Accanto a nomi maschili, come Laris (fig. 18), Vel, Uize, Afuria compare anche quello di una donna di origine umbra, Aia, femminile del nome Aie, che è presente nella più antica iscrizione di Bologna; alcuni, che ricorrono più volte su vasi di diversa cronologia, dimostrano l’esistenza di gruppi famigliari vissuti a Genova per più generazioni.
Varie persone di diversa origine si integrarono nel tempo nella comunità, a dimostrazione della struttura sociale aperta che costituisce una caratteristica degli emporia: un oriundo greco, Krulu, forse ateniese, che ha “etruschizzato” il suo nome e il Nemetie sopra ricordato, di origine celto-ligure, quindi locale, mentre dall’area di Golasecca proveniva l’ignota donna di alto rango sepolta in una delle tombe della necropoli con un ricco apparato di gioielli (fig. 22) fra cui spiccano una elaborata collana di ambra con pendenti intagliati a forma di stivaletto o vaso (fig. 21 ) e un pendaglio da toilette in argento con applicazioni d’oro che trova un solo puntuale confronto in un esemplare da cerimonia da Como (fig. 20). La presenza di una donna straniera sepolta a Genova secondo il rituale in uso nella comunità ospitante costituisce una delle tante testimonianze delle strategie matrimoniali messe in atto da alcune popolazioni ed in particolare dai golasecchiani, nell’ambito di relazioni diplomatiche volte ad assicurare alleanze politiche e diritto al commercio, con vantaggi reciproci, non ultima la trasmissione di saperi. I preziosi elementi del costume della defunta, estranei al contesto genuate, indicano anche connessioni con i centri dell’Etruria padana dove operavano botteghe orafe che producevano fibule in metalli preziosi e raffinate collane e pendagli intagliati nell’ambra importata dal Mar Baltico attraverso la mediazione di gruppi celtici.
Molti altri elementi di collana in ambra sono stati rinvenuti nella necropoli e nell’abitato, insieme ad altri oggetti di importazione come alcune raffinate fusaiole in pasta di vetro (fig. 23), prodotte principalmente fra Veneto e Slovenia e diffuse specialmente in sepolture nel Veneto, in Etruria padana e nel Piceno.
Tali indubbie somiglianze, che testimoniano un diffuso benessere, sono anche espressione di un più vasto quadro di mobilità e permeabilità delle culture dell’Italia settentrionale tra il V e la metà del IV secolo, motivate da comuni interessi commerciali e culturali, di cui anche Genova era partecipe.
Indicatori di identità etnica sono costituiti da elementi di costume che forniscono indizi per risalire all’origine dei loro possessori e segnalare movimenti di persone, come numerose fibule caratteristiche della culture celtiche occidentali, un pendaglio in lamina di bronzo a forma di stivaletto dall’area alpina orientale e una rara fibula in osso a forma di cavalluccio marino, che trova confronto con esemplari diffusi in un ristretto areale magno greco, fra Taranto e Locri (fig. 24). Ulteriori modifiche e restauri alle strutture dell’abitato furono praticati nel tempo, ma una nuova, radicale trasformazione urbanistica ebbe luogo solo nel IV secolo, con la demolizione di tratti della cortina muraria, la costruzione di nuovi edifici con tetti di tegole, diversamente orientati rispetto all’impianto precedente e la creazione di poderosi terrazzamenti formati da massicciate in pietra, anche nei versanti della collina esterni alle mura. Questo ampliamento degli spazi abitativi, che sembra riflettere un aumento di popolazione, può essere messo in relazione con lo spopolamento di molti insediamenti della Liguria interna, con conseguenti massicci spostamenti di persone, a causa della pressione esercitata dalle ondate dell’invasione gallica della pianura padana.
Lungo le pendici della collina sorgevano altri edifici, di cui sono stati occasionalmente identificati alcuni resti nel primo chiostro di Santa Maria di Castello, in via di Santa Croce e nella cripta della chiesa dei SS. Nazario e Celso mentre materiali sparsi, in giacitura secondaria, sono stati raccolti in vari luoghi della città, sia nelle vicinanze dell’approdo (Scuole Pie, via San Giorgio, piazza Cavour), sia nelle aree agricole all’intorno (palazzo Ducale, piazzale Mazzini, via XII Ottobre), a dimostrazione di una più estesa occupazione dei luoghi.
Il mercato genovese non subì contraccolpi per la mutata situazione politica dopo la battaglia di Cuma (474 a.C.) e i ripetuti attacchi siracusani nel Tirreno settentrionale, che limitarono ulteriormente i traffici etruschi, ma mantenne un rapporto privilegiato con gli scali marittimi del distretto minerario, Populonia, Pisa, Aleria e l’isola d’Elba ed il mondo greco coloniale controllato da Marsiglia, continuando a ricevere fino alla fine del IV secolo, a differenza delle grandi città dell’Etruria meridionale costiera, la ceramica attica distribuita lungo il circuito marittimo che raggiungeva le coste iberiche, come dimostrano i confronti con i carichi dei relitti. I flussi commerciali che toccavano la città comprendevano ormai in misura preponderante prodotti vinicoli e ceramiche da Marsiglia, ma anche vasellame dalla costa catalana, vasi dipinti, ceramiche e oggetti d’artigianato dall’Etruria centrale e meridionale costiera (specialmente da Caere) (fig. 26), da area laziale e magno greca. Un boccale decorato a pettine (fig. 25), ispirato a contenitori per il miele tipici della Corsica ed attestati solo a Populonia e all’isola d’Elba conferma le relazioni con l’isola. È del resto noto che la Corsica è raggiungibile dalla Liguria con una giornata di navigazione ed è visibile da Genova nelle giornate di bel tempo.
Una maggiore circolazione si registra anche per i prodotti delle tribù liguri, in parte probabilmente confezionati e trasportati in vasi di ceramica, come le caratteristiche olle decorate con impressioni “ad unghiate” dal genovesato occidentale (fig. 27); dolia in argille gabbriche dal Tigullio (fig. 28) e sono anche presenti laterizi e pesi da telaio dal bacino del Polcevera.
Tra la fine del IV e il III secolo a.C. prese avvio un processo irreversibile di decadenza dell’abitato di Castello, con fenomeni di distruzione e crolli, seguiti da abbandono, in concomitanza con la dismissione di un settore della necropoli.

La necropoli
La necropoli preromana (fig. 29) si estendeva sulle colline di Santo Stefano e Sant’Andrea, separate dal corso del torrente Rivotorbido e collegate probabilmente da un percorso di fondovalle, in seguito ricalcato dalla strada romana. Frammenti di ceramica attica del V e IV secolo a.C. sono stati rinvenuti anche nell’area del tumulo dell’Acquasola a testimonianza della continuità d’uso dell’area cimiteriale più antica, quando probabilmente il tumulo era ancora visibile, e negli scavi di piazza Dante.
La notevole estensione spaziale dei ritrovamenti, l’addensamento delle sepolture in alcune zone e la scoperta di numerosi materiali sparsi, provenienti da tombe danneggiate in antico, inducono a ritenere che il numero complessivo delle tombe fosse molto maggiore delle 122 riconosciute, che comprende anche alcune sepolture di epoca romana. Gli oggetti di corredo più antichi risalgono al primo quarto del V secolo a.C., cioè a circa due generazioni dopo la fondazione dell’oppidum, ma nel corso dei lavori in piazza Dante, nel 1910, furono raccolti anche alcuni frammenti di vasi etruschi a figure nere del VI secolo a.C. che fanno supporre che le tombe più antiche siano andate distrutte nel corso dei secoli.
Le tombe, con rito esclusivo della cremazione, erano costituite, ad eccezione di una a cassetta di lastre da un pozzo circolare scavato nella marna (fig. 30), profondo fino a due metri, chiuso a circa due terzi dell’altezza da un lastrone di pietra, in un caso da un tavolato ligneo, che proteggeva uno spazio inferiore dove erano deposti il cinerario ed alcuni oggetti del corredo. Altri materiali furono rinvenuti in più occasioni anche sopra il lastrone, ponendo il problema della contemporaneità della loro deposizione (fig. 31). La forma delle sepolture, radicalmente differente da quella a cassa in lastre di pietra, adottata invariabilmente presso le popolazioni Liguri dall’VIII secolo a.C., trova antecedenti e confronti nell’Etruria settentrionale interna e padana, che dimostrano come questo tipo di sepolcro sia stato introdotto a Genova dagli immigrati Etruschi.
Non sono state rintracciate sicure evidenze sull’eventuale esistenza di segnacoli all’esterno, né delimitazioni confinarie, tuttavia in uno scavo in via XII Ottobre, sulle pendici della collina dell’Acquasola, a circa cento metri dal tumulo, è stato recuperato in giacitura secondaria un grosso ciottolone in serpentino con tracce di lisciatura (fig. 32), che per le caratteristiche formali e l’estraneità al materiale litologico presente in loco, è stato dubitativamente interpretato come cippo funerario: ciottoli analoghi erano infatti utilizzati per questo scopo specialmente in area volsiniese e vulcente.
La maggior parte delle tombe era stata già saccheggiata in antico o mutilata dalle intense trasformazioni urbanistiche di età medievale e moderna ed un’ulteriore grave perdita è stata determinata dal furto di 19 vasi intatti, perpetrato nel 1973 ai danni del Museo di Archeologia Ligure.
Benché il simbolismo che sta alla base di un complesso rito di passaggio come la cerimonia funebre, destinata ad introdurre il defunto nell’aldilà, sia difficilmente interpretabile solo con l’analisi del corredo, che costituisce il risultato finale di una articolata sequenza di operazioni codificate nell’ambito di ciascuna comunità, dalla vestizione del morto, al compianto, alla disposizione degli oggetti sul rogo funebre, alle offerte alimentari, lo studio delle associazioni di oggetti deposte nelle tombe della necropoli di Genova ha permesso una serie di considerazioni che gettano luce su alcuni aspetti della cultura e delle credenze religiose del gruppo umano che abitò la città tra il V e la metà del III secolo a.C.
Ciascuna tomba ospitava uno o più defunti, legati da rapporti famigliari. La composizione dei corredi (fig. 33), che denota una cultura materiale di sicura impronta etrusca, rispecchia una generale diffusione di benessere, confermata anche dagli scavi dell’abitato, di una società basata su una struttura politica omogenea, con un pari livello culturale e di censo, anche se non mancano disparità quantitative. La natura cosmopolita del centro portuale non pare aver influenzato il rituale funerario, che non presenta sostanziali variazioni nel tempo, a testimonianza dell’avvenuto adeguamento formale imposto da una nuova identità collettiva, ma traspare occasionalmente negli oggetti di abbigliamento prodotti nei luoghi di origine degli immigrati.
Complessivamente le scelte di materiali deposti nelle sepolture appaiono dettate dall’istanza di concentrare ed esibire beni di prestigio, rappresentati da oggetti di importazione: ceramiche figurate attiche ed etrusche a figure rosse e a vernice nera, vasellame in bronzo, contenitori per unguenti e profumi, accompagnati da olle e ciotole di impasto grezzo di produzione locale, che potevano contenere offerte alimentari. Non mancavano recipienti in legno, piattini (fig. 34) e piccole scatole, conservatisi solo occasionalmente, e probabilmente cesti intrecciati, citati da alcuni testimoni oculari delle scoperte, di cui restano frammenti di giunchi. Gli scavi più recenti, eseguiti con criteri archeologici, hanno inoltre evidenziato la presenza nella maggior parte delle tombe di ossa animali riferibili a volatili od ungulati molto giovani, talvolta contenuti in un bacino in bronzo.
La differenziazione dei sessi non era segnalata dalle forme vascolari, che erano impiegate indifferentemente sia nei corredi maschili che in quelli femminili, ma è evidente negli oggetti di uso personale: fusaiole, aghi, specchi, pettini, una conocchia, monili (fig. 36) per le donne e armi e più rare fibule per gli uomini. Le armi erano danneggiate ritualmente per renderle inservibili, gli elmi sfondati (fig. 35), le spade ripiegate più volte o spezzate.
In un solo caso si è conservato un riferimento identitario alla persona sepolta, una donna, il cui nome La(rΘi)Plaisa era inciso a crudo su una fusaiola (fig. 37). Comuni ai due sessi erano i flaconi per unguenti in alabastro, il cui utilizzo è documentato nei servizi da palestra, nel corso del tempo sostituiti da vasetti in vetro pressato multicolore (fig. 38), e gli strigili, oggetti estranei alla cultura ligure, ma ben presenti in ambito magnogreco ed etrusco, come simboli di costumi di vita aristocratici mutuati dal modello ideologico della Grecia, dove le pratiche della palestra e le gare atletiche erano consuetudine dei giovani di censo elevato.
In molti corredi erano presenti manufatti molto più antichi del restante materiale, beni di famiglia o doni ospitali, conservati a lungo, come sembra dimostrare anche l’alto numero di ceramiche accuratamente restaurate in antico.
Le associazioni dei corredi, permeate di articolate simbologie legate al consumo conviviale del vino, accomunano gli abitanti di Genova, nell’adozione dell’ideologia funeraria centrata sul simposio di ispirazione greca, alle aristocrazie tirreniche e trovano i migliori confronti qualitativi in Etruria padana (Bologna e Spina), in Corsica, ad Aleria e a Populonia.
Il rituale ruotava intorno al cinerario che era quasi sempre un recipiente originariamente destinato a mescere il vino, in prevalenza un cratere, accompagnato dallo strumentario in bronzo e da coppe di ceramica. La sistematica scelta del cratere come urna funeraria, occasionalmente attestata in Grecia, Magna Grecia ed Etruria, si riallaccia esplicitamente al culto di Dioniso, dio del vino, cui non mancano valenze infere e trova la maggiore diffusione nell’Etruria settentrionale costiera, specialmente a Pisa.
I cinerari erano chiusi da coperchi discoidali in legno (fig. 39) attraversati da tre fori disposti a triangolo, che si suppone servissero per versare vino all’interno del vaso nel corso delle cerimonie funebri, secondo una prassi che affonda le sue radici nella letteratura omerica e trova riscontro nella documentazione archeologica.
I servizi per bere, presenti in maniera completa in sei tombe (fig. 40), ma certamente più diffusi, come dimostrano pezzi singoli raccolti fuori contesto, erano composti da eleganti e talvolta rari vasi in bronzo, prodotti da botteghe bronzistiche altamente specializzate (figg. 41-42), specialmente a Vulci. Orvieto e Falerii, ciascuno con una specifica funzione: una o più brocche per il vino, di cui si conoscono varie fogge, un secchio per l’acqua (situla), due mestoli (simpulum) provvisti di uno o due ganci per appenderli, conformati a testa di animale e talvolta arricchiti da placchette con figure a rilievo, il colino per filtrare i residui e la resina con cui il vino era addizionato, mentre in alcuni casi, cronologicamente più recenti, è presente un servizio più ridotto, limitato alla coppia funzionale brocca/ bacino. La presenza in due tombe di un’anfora vinaria sottolinea ulteriormente l’importanza attribuita al vino, originariamente alimento pregiato riservato alle aristocrazie, che divenne strumento di ritualizzazione collettiva, culturale c religiosa, con evidenti implicazioni sociali.
All’interno di alcune tombe era stato anche deposto un mazzo di mirto, di cui si sono conservate le impronte (fig. 43) sulla superficie del vasellame di bronzo mediante una lenta ossidazione, favorita dall’ambiente anaerobico creatosi all’interno dei pozzi sepolcrali. Il mirto, pianta aromatica sempreverde caratteristica della macchia mediterranea, era collegato in Grecia al culto dei morti e delle divinità infere e sacro ad alcune dee protettrici delle donne, specialmente ad Afrodite, ma anche a Dioniso che lo impiegò, secondo il mito, come mezzo di scambio per liberare la madre Semele dagli Inferi. È possibile che il mazzo di mirto costituisse, nella simbologia adottata nelle sepolture di Genova, un pegno o mezzo di scambio che garantiva al defunto la speranza di salvezza, in parallelo con la diffusione delle nuove credenze religiose a sfondo salvifico che avevano trovato notevole adesione presso le popolazioni italiche.
Alcuni corredi sembrano indicare precise scelte iconografiche coerenti delle scene figurate sulla ceramica e sul vasellame bronzeo, associate in funzione evocativa, da parte di soggetti acculturati in senso greco. Le scene dipinte sui vasi, veri strumenti propagandistici, messaggeri nel mondo della cultura di Atene, attingono al repertorio mitico della Grecia, assimilato in diversa misura dalle popolazioni più acculturate: mentre su quelli più antichi compaiono le principali divinità del pantheon greco (fig. 44) , ma anche episodi di vita quotidiana o tratti dalla mitologia e dalla letteratura (fatiche di Eracle, Odisseo, Bellerofonte e la Chimera, gara di Apollo e Marsia), con il IV secolo diventano preponderanti le immagini con Dioniso e il suo thiasos o più ripetitive raffigurazioni di banchetto, in parallelo con la generale diffusione di questi temi in tutto il Mediterraneo. E da segnalare la presenza di rari prodotti delle officine ceramiche di Vulci (fig. 45), poco diffusi al di fuori dell’area tiberina e di numerose coppe e crateri attribuiti ad un gruppo di ceramisti di Falerii (fig. 46).
Con l’avanzato IV secolo ed il rarefarsi di importazioni di ceramiche figurate dalla Grecia ed in parallelo con una più marcata presenza di elementi liguri nell’abitato, anche nei corredi funebri si verifica un parziale ritorno al costume ligure dell’urna di impasto locale coperta da una ciotola, ancora in uso nel resto della regione; il momento di passaggio è ben esemplificato dal corredo della T.112 (fig. 47), con deposizioni multiple tra gli inizi del IV ed il primo quarto del III secolo a.C., dove sono impiegati due crateri attici e vasi di impasto.

Artigiani, pescatori, mercanti, guerrieri
I numerosi materiali raccolti negli scavi della collina di Castello e nelle sepolture della necropoli hanno permesso una serie di considerazioni sulle attività che si svolsero nel sito tra la fine del VI e il III secolo a.C. e sulla sue risorse economiche.
Dal VI secolo a.C. Genova era inserita, come abbiamo visto, in un circuito distributivo di prodotti di artigianato e di altre merci deperibili e perciò meno “visibili” archeologicamente, come stoffe o derrate alimentari, sulle rotte che raccordavano le coste della Campania con quelle della Spagna lungo il Tirreno settentrionale. Come dimostra la contemporanea diffusione di prodotti artigianali delle medesime officine, stretti contatti furono allacciati fin dalla fondazione con il distretto minerario etrusco, di cui Populonia era il centro motore, con gli altri scali ad essa collegati, Pisa e Aleria in Corsica, con cui sono state ravvisate consonanze culturali anche per quanto riguarda la sfera culturale e religiosa. Una seconda direttrice di traffici si snodava in direzione dei mercati dell’oltregiogo, dove sembrano provati contatti con i centri della Liguria interna, specialmente Libarna, che costituiva uno dei principali snodi delle vie commerciali terrestri dalla costa ligure e dalle regioni alpine e fluviali lungo il Po dall’Etruria padana.
Come risorse della regione commercializzate nell’emporio di Genova Strabone elenca miele, pelli, lana grezza (V 1, 12) utilizzata anche per confezionare mantelli e indumenti rustici, animali da soma detti ginnoi e il legname di ottima qualità derivato da alberi che potevano raggiungere un diametro di otto piedi. Parlando di Pisa (V 2, 5) il geografo mette in risalto la grande importanza connessa alla disponibilità di legname di grandi dimensioni per la carpenteria navale. È possibile che fossero oggetto di scambio anche prodotti del mare particolarmente preziosi, come il sale, il cui smercio dal porto di Genova è documentato dal Medioevo, e il corallo, quest’ultimo ricercato dai Celti che lo utilizzavano per creare raffinati monili: due frammenti di corallo grezzo sono stati rinvenuti in due diversi settori negli scavi di San Silvestro a Genova.
Ai lavori in ambito domestico sono riferibili pesi da telali un gran numero di fusaiole e vari macinelli e macine in pietra, alcune in lava leucitica, importate dall’Etruria meridionale, mentri numerosi ami e pesi da rete documentano attività di pesca, che stando ai risultati degli scavi, era poco praticata nel resto della regione.
Il diffuso benessere, testimoniato anche dai corredi della necropoli, trova la sua spiegazione in un’economia integrata l’attività di tipo mercantile sembra rivestire un ruolo prevalente accompagnata da altre occupazioni artigianali che hanno in parte lasciato tracce archeologiche.
Tra le produzioni manifatturiere è documentata, già dagli inizi del V secolo a.C., la lavorazione del ferro, che si svolgeva in diverse zone dell’abitato, testimoniata da abbondanti scorie ed un resto di forno da fusione: la richiesta di oggetti in ferro (armi, attrezzi agricoli, cesoie per la lana, coltelli, chiodi) doveva essere notevole, in una società in progressiva crescita come quella ligure. Anche altri metalli erano lavorati localmente, ad esempio il piombo, di cui restano scarti di fusione, bacchette ed oggetti semilavorati, nonché numerose grappe per la riparazione delle ceramiche pregiate. Con il piombo si realizzavano anche i modelli da fusione per la produzione di piccoli oggetti in bronzo, come le fibule, mediante una tecnica rimasta invariata fino al Medioevo. Un modello per fibula a sanguisuga (fig. 48), completo di cono per l’immissione del metallo, conserva sulla faccia piana un asterisco graffito, la cifra 100 nella grafia etrusca, forse riferito al numero di pezzi da realizzare.
Nei livelli più antichi dell’abitato (fine VI-inizi V secolo a.C.) sono stati rinvenuti alcuni distanziatori per ceramica, nella caratteristica forma ad anello con tre fori di aereazione per favorire la circolazione dell’aria all’interno della fornace (fig. 49). Essi costituiscono le uniche prove di una produzione di ceramica a Genova, forse intrapresa per breve tempo, non altrimenti documentata: fino al III secolo la città sembra aver infatti importato dall’esterno anche il vasellame di impasto grezzo, prodotto nei territori di altre tribù liguri.
Ad attività artigianali di varia natura e complessità rimanda l’abbondante repertorio dell’industria litica composto da numerosi ciottoli, prevalentemente di serpentino, reperibili in natura nel Genovesato occidentale, specialmente alla foce del Polcevera, con differenti tipi di usura. Alcuni furono utilizzati come pesi, pestelli o percussori, mentre altri, con abrasioni e consunzioni da strofinamento prolungato, sono stati interpretati come lisciatoi, forse in relazione alla concia delle pelli.
Per la piena comprensione delle attività della comunità genuate, un dato significativo è rappresentato dalla costante presenza di militari che accompagna la vita del centro fin dalle origini, apparentemente in contrasto con l’immagine di una società dedita prevalentemente al commercio e all’artigianato, ma confrontabile con altri siti emporici e “di frontiera’’, che influenza anche i gusti, come traspare dalla frequenza di immagini con armati (fig. 50), combattimenti o commiato di guerrieri (fig. a pagina 70) sulle rappresentazioni delle ceramiche figurate.
Nell’abitato fin dalla prima metà del V secolo a.C. sono stati rinvenuti numerosi frammenti di armi e complementi di abbigliamento militare prodotti in tutto il Mediterraneo (applique di elmo, fermagli di cinturone da area iberica e celtica, frammenti di spada, punte di freccia), mentre i corredi maschili della necropoli hanno restituito differenti combinazioni di armi da offesa, dalla sola lancia, che di norma è presente nelle tombe liguri a connotare l’uomo adulto, fino a panoplie comprensive di elmo, due lance, spada e giavellotti; in un caso si può ricostruire un rarissimo elmo “da parata”, con elaborata decorazione a rilievo. Il differente grado di complessità dell’armamento nelle sepolture sembra rispecchiare una gerarchia militare e le panoplie complete, spesso associate a servizi da simposio, connotano le deposizioni di capi militari di condizione eminente. La provenienza eterogenea delle armi, liberamente associate, ben esemplificata iconograficamente da statue di guerrieri come quella rinvenuta a Lattes, trova spiegazione nell’ampia circolazione di tali manufatti, per commercio o per preda bellica, in tutto il bacino del Tirreno occidentale, anche per evidenti ragioni di funzionalità connesse al loro utilizzo pratico, e nella mobilità fisica dei mercenari stessi. Dal IV secolo sono introdotte armi di tipo celtico, come le lunghe spade in ferro a doppio taglio, evidentemente più efficaci.
Benché la presenza di armati sia normale in un sito relativamente isolato, per garantire la sicurezza della città c del porto, specialmente nelle sue prime fasi di vita e la protezione delle transazioni nell’emporio, non va sottovalutato il possibile ruolo di Genova come porto di imbarco e reclutamento di truppe mercenarie. Le fonti storiche sono infatti ricche di testimonianze sull’impiego di mercenari liguri, specialmente da parte dei Cartaginesi e dei Greci.

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Dal VI al II secolo a.C.

Autori vari

Le tombe della via XX Settembre dimostrano che nel IV e V secolo a.C. il porto di Genova era già aperto ai traffici, e come fra gli abitanti aggruppati sulle sue rive si distinguesse una classe eletta per agiatezza e cultura, la quale aveva adottato il rito della cremazione, apprezzava il fastigio dell’arte e manteneva relazioni colla Grecia, coll’Etruria, colla valle del Po e forse colla Gallia. Le armi rinvenute in alcune tombe attestano che le spoglie contenute in quei sepolcri non sono tutte di trafficanti. (vedi Arturo Issnl, vol XL, Liguria preistorica, in Atti della Società Ligure di Storia Patria, XL, 1908, citato da Donaver, 1913)

I Liguri aiutarono Enea a guerreggiare contro gli Etruschi e ad occupare il Lazio. (Donaver, 1890)

I Liguri appresero dai Greci il commercio marittimo che svilupparono soprattutto nel mediterraneo orientale. (Donaver, 1913)

535 a.C. E narra Diodoro Siculo che il grande Temistocle (535 anni av. Cristo) non sarebbesi salvato dalla reggia de’ Molossi se due mercanti genovesi, colla lor nave, in Persia non l’avessero trasportato. (Diodoro siculo in Malnate,1892)

Un tempio pagano dedicato alla Fortuna Virile esisteva dove in seguito fu edificata la chiesa di Sant’Agnese, ora distrutta. Resti della chiesa si ritrovano in un appartamento di via Polleri 4 (tra l’Annunziata e via Vallechiara). (Miscosi, 1933)

205 a.C. Distruzione di Genova. Genova pare facesse parte a sé nella seconda guerra punica e, alleata di Roma, nel 205 aC subì la distruzione delle mura da parte di Magone, fratello di Annibale. Questi sbarcato a ponente, con il favore degli Iguauni di Albenga, assalta Genova e la distrugge. Il bottino viene trasportato a Savona. Publio Scipione, di ritorno dalla Spagna, sbarca a Genova per fronteggiare le truppe di Magone. Nel 203 a.C. Genova viene ricostruita con l’aiuto di ottomila romani per l’intervento del pretore Spurio Lucrezio in segno di amicizia tra Roma e Genova. (Donaver, 1913)

I Liguri venivano assoldati dai Cartaginesi per le loro imprese belliche e da questi impararono a commerciare, soprattutto in territorio africano. Il buon rapporto tra i Liguri ed i Cartaginesi contrastava con gli interessi dei Romani. Ma una parte della popolazione Ligure ara alleata con Roma per cui nel 205 a.C. subì l’invasione di Magone, fratello di Annibale. (Donaver, 1913)

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V – III SECOLO

Estratto da Angeli Bertinelli M. G., in Borzani L. Pistarino G. Ragazzi F., Storia illustrata di Genova, Elio Sellino Periodici, 1993.

V secolo a.C. Un insediamento abitativo di epoca preromana. Nell’area di San Silvestro, sulla sommità del colle, focolari di terra concotta con resti di pasto e piani d’uso con buchi di palo, rinvenuti in uno strato a contatto con la roccia, paiono rimandare ad un’utilizzazione del suolo non edificato, ad uno stadio ancora preurbano. Il sovrastante massiccio riempimento, con materiale databile alla prima metà del V secolo a.C., sembra preludere ad una successiva fase di organizzazione stabile del colle, funzionale ad esigenze di abitazione, di sicurezza e di difesa.  …  Fra i reperti, provenienti dagli edifici, si trovano in particolare frammenti di ferro per lo più informi, ad eccezione di una punta di pugnale entro il fodero, scorie ferrose e scarti di lavorazione, che testimoniano la pratica della metallurgia del ferro, già attuata sul posto da età molto antica, dalla metà circa del V secolo a.C. né manca forse traccia di un forno fusorio in un fossa scavata nella roccia rivestita di argilla concotta, con dentro resti di scorie ferrose ed ematite polverizzata. … Altri prodotti di piombo, semilavorati o finiti, tra cui per esempio una fibula a sanguisuga ancora saldata al cono di gettata della fusione, rimandano ad un’attività metallurgica limitata nel corso del IV secolo a.C.

All’interno della zona fortificata resta traccia di edifici, due dei quali, di recente indagati nella loro sequenza stratigrafica, si presentano a pianta rettangolare con basamento in muratura e risultano appartenere a due successive fasi costruttive: al primo, più antico e non anteriore 450 a.C., dal semplice piano di calpestio in terra battuta e dall’alzato forse in mattoni crudi e ligneo con copertura non fittile, si sovrappone un secondo edificio, costruito intorno 380-370 a.C., con pavimento in argilla pressata, con alzato “a secco” legato da terra argillosa locale, con annessa una discarica di materiali databili fra l’epoca della costruzione e la fine del IV o l’inizio del III secolo a.C. e con all’interno una fossa di rifiuti con reperti attribuibili all’inizio del III secolo a.C.  …

Da un piano d’uso del V secolo a.C. proviene un’iscrizione, incisa su un ciotolone di pietra serpentina, a caratteri etruschi con direzione sinistrorsa, mi nemeties, che combina nella formula di possesso un nome celto-ligure etruschizzato, mentre altri documenti epigrafici, rappresentati da sigle nominali di proprietà in caratteri etruschi o da numerali etruschi, sono graffiti su frammenti ceramici, che si distribuiscono in un arco cronologico dalla metà del V secolo a.C. fino ai primi decenni del III secolo a.C.  …  la maggior parte del materiale ritrovato negli scavi nell’area di San Silvestro, riferibile a diverse stratificazioni cronolo­giche, tra il V ed il III secolo a.C., è costituita da frammenti ceramici. Il materiale anforico presenta differente tipologia e consistenza quantitativa variabile diacronicamente: infatti, nella fase preurbana e in quella del più antico insediamento abitativo, fino alla II metà del V secolo a.C., risultano preponderanti le anfore etrusche  …  che si riducono invece nettamente nel corso del IV secolo a.C.  …  viceversa le anfore massaliote mostrano un aumento quantitativo dal secondo quarto del V secolo a.C. agli ultimi decenni del IV secolo a.C. … né mancano frammenti di anfore corinzie, attribui­bili al secondo quarto del V secolo a.C.greco-orientali, samie e chiote, databili al V secolo a.C.  …  puniche, riferibili alla fine del IV secolo e all’inizio del III secolo a.C., greco­-italiche, successive all’inizio del III secolo a.C.  …  Fra i reperti sono anche frammenti di ceramica a vernice nera, di produzione attica, etrusca e massaliota, decorata a figure rosse, in sovradipintura e con impressione di bolli, inoltre di ceramica “figulina”, pregiata per la sua composizione con argille depurate, specialmente di fabbrica massaliota, infine di ceramica grezza e di uso comune, di importazione dall’Etruria e dalla Liguria sia di ponente sia di levante, in particolare dal Genovesato occidentale (fra Sestri Ponente ed Albisola) e da aree “circumlocali”. Di qui risulta provenire, in base all’esame mineralogico, l’argilla, lavorata con una tecnologia arretrata, per esempio nella produzione di olle ricoperte con fitte impressioni “ad unghiate”, di bicchieri e vasetti biconici.  …

Sulla stessa collina di Castello, nell’area di Santa Maria in Passione (sulla piazza antistante e all’interno della navata della chiesa), sono stati scoperti altri strati di epoca preromana, segnati da tracce di muri di edifici precocemente rasi al suolo, attribuibili ad una prima fase costruttiva, non anteriore ai secoli V e IV a.C. … compare anche un’iscrizione in caratteri etruschi, su un fondo di vaso indigeno, in cui si distinguono le lettere “lari[s ?]”, corrispondenti ad una forma onomastica etrusca. Alla prima fase abitativa risulta essere seguita una seconda, con costruzioni a secco, databile sulla base dei materiali rinvenuti ad epoca non anteriore al III secolo a.C.

All’insediamento abitativo sul colle di Castello corrisponde in epoca preromana una vasta necropoli, estesa in una zona non lontana, ma distinta, dal colle di Sant’Andrea verso oriente, al di qua e al di là dell’alveo naturale del Rivo Torbido, fino a Piccapietra … Sparse in tale area sono venute alla luce, in tempi diversi (dal 1898 in poi), in scoperte fortuite o in scavi occasionali, connessi con i lavori di ristrutturazione del centro cittadino e di modifica dell’assetto viario, numerosissime tombe (finora 121): sono concentrate in maggior quantità nella parte alta di via XX Settembre (la vecchia via Giulia) lungo l’asse Santo Stefano – piazza De Ferrara (da via Vernazza fino a via Dante, verso Porta Soprana); altre, più sporadiche, sono dislocate sotto la chiesa di Santo Stefano, in via Garaventa, in via Bosco, fino a corso Podestà. … Le sepolture attestano la pratica del rito funebre della cremazione. Le tombe sono infatti quasi tutte del tipo “a pozzetto”: nel terreno di marna grigia è scavato un largo pozzo tronco-conico (del diametro talvolta superiore a 2 metri), interrotto in basso da una risega che circoscrive in alto un pozzetto minore posto sul fondo e coperto da un grezzo lastrone di pietra locale, poggiante sulla risega. Sotto la lastra, nel pozzetto sepolcrale vero e proprio, spesso ritrovato pieno di fanghiglia o di acqua per infiltrazioni dalla superficie, è posto il vaso cinerario, per lo più un grande cratere dipinto a figure rosse con coperchio ligneo di chiusura, insieme con pochi altri oggetti; sopra la lastra, nel pozzo superiore riempito di terra, è deposto il corredo funebre, costituito da varie suppellettili, spesso frammiste ad ossa di animali rituali, rinvenuto ridotto in frammenti sotto il peso della terra di riempimento.  …

Si distingue fra i materiali della necropoli un’iscrizione in caratteri etruschi in direzione sinistrorsa, “laplaisas”, di incerta interpretazione, incisa su una fusaruola ritrovata in una tomba presso Porta Soprana. Assume anche particolare rilievo il rinvenimento di pezzi monetali, tra cui una dramma padana d’argento, imitazione delle monete di Massalia, databile intorno al 230 a.C., che allude a rapporti di scambio con l’entroterra e l’area italica settentrionale.  …   spicca fra i materiali un bronzetto, raffigurante un discobolo in posizione frontale e stante, con la mano sinistra appoggiata alla testa girata di profilo e con la mano destra abbassata a sorreggere il disco prima del lancio, identificato come un prodotto di importazione etrusca databile al 470 a.C.;  …

Storiografia romana che parla di Genova: Livio, I secolo a.C.; Ammiano Marcellino, IV secolo d.C. Racconta Livio, scrivendo in epoca augustea, che il console Publio Cornelio Scipione, il padre del più noto Africano maggiore, nel 218 a.C., dopo aver tentato inutilmente di venire a battaglia con i Cartaginesi movendo dalla foce del Rodano, si imbarcò sulle navi e si diresse con poche forze verso Genua, per difendere l’Italia al comando dell’esercito che stava sul Po. La notizia del passaggio da Genova del console romano è taciuta da Polibio, mentre è confermata in epoca più tarda (nel IV secolo d.C.) da Ammiano Marcellino, che narra dell’inutile spedizione di Publio Cornelio Scipione in Spagna, per portare aiuto a Sagunto assediata e poi conquistata, e del suo rientro con una veloce navigazione per un breve tratto di mare fino a “Genua, oppidum Liguriae”, per attendere al varco ed impegnare a battaglia in pianura Annibale, provato dalle fatiche della marcia attraverso i monti.  …

Il lato occidentale della cinta risulta inoltre colpito da un incendio, attribuibile ad epoca non precedente la fine del III secolo a.C., in base al rinvenimento di monete romane repubblicane (assi sestantali ridotti) di quel periodo.  …  Dai pur rapidi accenni degli storici latini si apprende che Genua doveva essere già, nel primo anno della guerra annibalica, alleata di Roma nei termini di un “foedus aequum” (o alleanza alla pari), fors’anche di più antica data, risalente al 239 a.C. o almeno a poco dopo il 225 a.C. Risulta infatti che Massalia, la colonia dei Greci di Focea situata alla foce del Rodano, nella cui sfera di influenza commerciale gravitava da tempo Genova, faceva parte della federazione romana ancor prima del 266 a.C. … inoltre la base di Genova doveva essere già necessaria ai Romani quando questi, subito dopo aver respinto (nel 225 a.C.) la grande invasione gallica dell’Italia peninsulare, intraprendevano (nel 224 a.C.) le operazioni militari per la conquista della Gallia e della Liguria cisalpine, secondo un piano sistematico e con un movimento a tenaglia con conversione degli eserciti sulla Pianura padana, da Genua appunto e da Ariminum l’odierna Rimini.  …

E’ peraltro indubbio che nel 218 a.C., se non prima, Roma disponeva di una sicura testa di sbarco nel golfo del Mandraccio, collegato con l’entroterra padano attraverso il comodo valico del passo dei Giovi: Publio Cornelio Scipione, dopo lo sbarco, era infatti in grado di marciare verso la pianura per congiungersi con il grosso dell’esercito, stanziato attorno a Piacenza ed a Cremo­na, le due nuove fortezze latine fondate nel cuore del bacino padano, di cui la prima sorgeva proprio all’incrocio delle strade da Genova e da Rimini.

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LA LAVORAZIONE DEI METALLI

NELL’OPPIDUM PREROMANO DI GENOVA

Estratto da Costanza Cucini, La lavorazione dei metalli nell’oppidum preromano di Genova, in Piera Melli, Genova dalle origini all’anno mille, SAGEP, 2014.

La Liguria offre una notevole varietà di giacimenti di minerali utili, soprattutto di rame, tanto da costituire fin dalla preistoria un polo di attrazione economica di tutto rispetto (fig. 1). In particolare i ricchi cappellacci di ferro presenti nelle zone di affioramento dei filoni di rame erano di facile sfruttamento per gli antichi minatori. La miniera di rame e ferro più vicina alla collina di Castello è quella di Monte Ramazzo, in comune di Genova, distante solo 7,5 km in linea d’aria dall’oppidum preromano. Vi erano poi numerosi centri minerari facilmente accessibili, attivi fin da epoca molto antica nell’entroterra di Sestri Levante, in quello del Finalese e di Savona, o delle Cinque Terre.
La lavorazione del ferro è attestata sulla collina di Castello fin dalla fondazione di un centro stabile. Nel V secolo a.C. nell’oppidum sono stati trovati i resti di tre distinte forge  che elaboravano manufatti e utensili di ferro, forse non attive contemporaneamente, e di un piccolo forno per la riduzione del minerale di rame. Le attività siderurgiche continuarono fino al IV secolo a.C.
È stato possibile documentare una notevole perizia tecnologica dei fabbri che lavoravano nell’oppidum, soprattutto per un’epoca così antica: sapevano usare decapanti per effettuare lavori specialistici come saldature, non sprecavano la materia prima ed erano esperti nell’elaborazione e nella forgiatura dei manufatti. Ad esempio sapevano realizzare lamine di ferro e temperavano il metallo per realizzare acciaio di notevole durezza, inoltre sapevano tranciare a caldo i manufatti. Si trattava di una padronanza tecnica eccezionale, un livello tecnologico e specialistico molto elevato che doveva essere proprio di maestranze provenienti daH’Etruria, all’epoca tra le più specializzate nella siderurgia. Si può pensare ad esperti prospettori minerari etruschi che esploravano la zona ligure alla ricerca di giacimenti e mineralizzazioni da sfruttare, o che entravano in contatto commerciale con le popolazioni locali che producevano i semilavorati necessari a partire dal minerale della zona.
La presenza di più forge era funzionale alla vita stessa dell’oppidum. I manufatti in ferro erano necessari fin dalla prima fase di impianto e di vita nel sito, che sebbene di modeste dimensioni era aperto ai commerci su vasto raggio e dunque ampiamente frequentato. Nelle forge si elaboravano semilavorati che giungevano sotto forma di blumi da affinare o di lingotti e barre di metallo già pronto per essere trasformato in oggetti finiti. Questi semilavorati provenivano da zone di estrazione e produzione diverse, ubicate sia nel Levante che nel Ponente ligure; alcuni giungevano anche dall’isola d’Elba, ma in modo più sporadico e in quantità minore. Evidentemente gli Etruschi dell’abitato si erano inseriti fin dalle prime fasi insediative nel circuito della commercializzazione e nel mercato della produzione dei metalli nella regione; data la ricchezza mineraria della zona circostante l’oppidum, non era economicamente conveniente trasportare il minerale o i semiprodotti dall’isola d’Elba, attraversando un lungo tratto di mare. Sulla collina di Castello si effettuava forse qualche riduzione sperimentale, probabilmente per saggiare le caratteristiche del minerale locale: infatti i fabbri etruschi, esperti nel trattamento del minerale elbano, non conoscevano le potenzialità dell’ematite della Liguria. Anche il minerale di rame proveniva dalla zona ligure – dal Finalese, da Monte Ramazzo e dalle Cinque Terre – ed anch’esso andava saggiato in un piccolo forno.

fornace fusoria webFornace fusoria per metalli (Museo Archeologico, Aosta)

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GLI ARCIERI LIGURI

III e II SECOLO a.C.

Cenni storici illustrati e raccolti dal pittore Quinto Cenni (Milano) per conto del Sig. Dr. Cav. H. J. Vinkhuizen dell’Aia, Medico. http://digitalcollections.nypl.org/search/index?utf8=%E2%9C%93&keywords=genoa

Tavola III. Gl’arcieri Liguri. Secoli III e II a.C.

Un popolo forte e ardito come il Ligure ed abitante per così esteso spazio le rive del mare non poteva a meno di mostrarsi ottimo “marino” e così fù infatti, ma anche in terra egli doveva mostrare speciali attitudini alla lotta ed anche questo avvenne del pari ed in modo veramente straordinario. Difatti il Ligure seppe far valere la sua superiorità nel trarre d’arco ed i Cartaginesi lo ebbero come “arciere” nei loro eserciti e di tale superiorità furono sempre famosi in tutto il mondofino a chè il trar d’arco o di balestra rimase in onore negli eserciti e cioè fin verso la metà del Secolo XVI. La nostra Tavola III [La Tavola III non è presente nella NYPL] rappresenta appunto un arrolamento di arcieri liguri per conto dei Cartaginesi, due ufficiali dei quali assistono alle loro prove.

Una così singolare abilità nelle armi meritava bene di essere segnalata e confermata subito in una storia d’indole esclusivamente militare quale è questa nostra, qualsiasi, opera.

Fu precisamente la tribù dei genoati quella che fondò Genova. Questa dapprima fu detta “Janua” e ciò confuse talmente le menti di alcuni scrittori antichi che la vollero fondata da Janus che personificarono nientedimeno che nell’antichissimo patriarca Noè!

La favola del re Giano

Poi arzigogolando sulle parole Sarzano (Colle di Sarzano, attualmente Piazza Sarzano) e Calignanus (Colle di Carignano) dissero che la prima proveniva da Arx Janus (Castello di Giano) e la seconda da Cherem Janus, ebraico, che vuol dire Vigna o Villa di Giano. La scienza moderna mandò a picco tutte queste favole ed ora altro più non mi resta a ricordarle che la parola latina Janua per Genova ed il “Molo Giano” un piccolo molo nuovo che dal colle di Sarzano (o meglio, dall’insenatura fra i due colli di Sarzano e di Carignano che un tempo era la foce dell’ora coperto, “Rivo Torbido”) s’inoltra per un certo tratto in mare allo scopo di rendere più tranquille le acque del porto.

Le guerre coi Romani anni a.C. 236-109.

Roma non conobbe Genova altro che poco meno di sei secoli dalla propria fondazione cioè nel 570 (anno 183 a. C.) e la conobbe sotto il nome di Magella o Macela ed i Genoati sotto quello di Magelli, cioè Liguri Magelli. Ma già essa aveva cominciato a lottare con essi Liguri, gl’Apuani per primi, fin da 53 anni avanti, nel 236, e li aveva battuti ma non completamente come quelli che erano forti, celeri, arditi e meglio facevano la guerra sparsa della montagna che quella regolare delle pianure. Inoltre fu detto di essi che era meglio averli amici perché valorosi e fedeli che non nemici perché fieri ed ostinati.

Fa poi meraviglia il vedere come essi Liguri fossero nemici acerrimi dei Romani, cioè di quei Romani che erano in lotta coi Cartaginesi, una cui flotta comandata da Magone, fratello di Annibale, aveva poco prima rovinata e distrutta intieramente la loro capitale, Janua. E sarebbe poi meraviglia ancora l’altro fatto che essi prendessero soldo in qualità di “arcieri” da questi stessi Cartaginesi se non si sapesse che il valore di questi vinti serve quasi sempre a rinforzare in qualità d’ausiliario quello dei vincitori dopo che questi hanno consolidato il loro dominio sopra di quelli. Non si può quindi spiegare questa loro fiera resistenza ai Romani se non coll’amore intenso della proria libertà nonché colla natura loro essenzialmente bellicosa.

Tavola IV. Avamposto ligure. 180 circa a. C.

Tale resistenza ai Romani forse fino all’anno 109 a. Cristo ma l’assunzione di Janua o Magella a Municipio Romano dovette avvenire qualche tempo prima, non molto però, quantunque qualche scrittore assegni per tale assunzione l’anno 236. La nostra Tavola IV [La Tavola IV non è presente nella NYPL] rappresenta un avamposto ligure sulle stesse pendici del Monte dei Ratti dal quale è tolta la visuale della Tavola I. Qui il Sole non è ancora apparso ma già la luce è chiara.

II Genoa Municipio Romano. Secoli II e I a.C.

Per circa sei secoli durò la preminenza romana su la Liguria in genere e su Genoa in ispecie, ma i documenti storici che riguardano questa non breve epoca sono tanto scarsi che poco o nulla si può ricavarne. Si sa soltanto da essi che gl’abitatori propri di Genova e contado erano detti Genoenses e quelli della Polcèvera e di Voltaggio avevano il nome di Genoati. Che il torrente Polcèvera era detto Porciphera, poi Porcòbera ed il torrente Bisagno veniva chiamato: Vesanus (ed in appresso “Feritore”) e la sua valle: Valle Vesanus.

 

 

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