05.1 Dall’anno 1000 al 1199.

Dall’anno 1000 al 1199

 

L’EMIRO MUSA

PRIMA GUERRA TRA GENOVESI E PISANI

 Girolamo Serra, La Storia della Liguria e di Genova scritta dal marchese Girolamo Serra, Torino, Pomba, 1834.

1003. Tutte le storie lo chiamano Musatto o Musetto ma siccome l’araba favella non ha cotal nome, così ci sembra indubitato essere quello, come Orsetto e Simonetto, il diminutivo di Musa che vale Mosè, nome comune all’arabo conquistator delle Spagne. Gli annali del medio evo han fatto di questo Musa ciò che le prime memorie de’ Greci facevano di Anteo, Briareo, o del re de’ Lestrigoni, un mostro d’iniquità quante volte op­presso tante risorto. E in vero molte altre somi­glianze correvano fra tempi così distanti. Comun­que si fosse, certo è che Musa occupò la città di Cagliari con gran parte della Sardegna. Né ciò bastandogli, dopo essersi fortificato, entrò nuo­vamente in mare con poderoso stuolo, e perve­nuto a bocca di Magra, s’impadronì all’ improv­vista di Luni, città già tanto cresciuta di popolo e di territorio, che aveva ottenuto buona pezza davanti la dignità vescovile; e il vescovo era quasi assoluto signore della sua diocesi. A Luni il re moro, uccisi in gran parte i cristiani, collocò la sua residenza di terra ferma; e quindi, siccome da un punto di mezzo fra la Toscana e la Li­guria, prese a guastare quelle sì amene e belle provincie con ogni qualità di rapine, violenze e sacrilegj; vocabolo usato probabilmente dagli an­nalisti per accennare, che Musa, giusta il costume de1 Mossulmani, profanò alcune chiese d’intorno, cangiandole in moschee. A’ giudici intanto della Sardegna, e a non poche famiglie qualificate così della Toscana come della Liguria riuscì di fuggire a Genova e a Pisa; tutti implorarono la pro­tezione delle due repubbliche. Benedetto VIII allora Pontefice aggiunse le sue esortazioni; co­mune era oltre ciò l’interesse, e fu comune l’im­presa (Sigon. lib. VIII. Mosisac. hist. Orbis marit. II. 23). Le armate genovesi e pisane navigarono a Luni: un esercito stipendiato dal papa strinse per terra quella città sventurata. Non pretenda veruno descrivere i particolari dell’oppugnazione, perocché gli stessi contemporanei gli esagerarono a lor modo. Favole e millanterie non sono il faticoso racquisto di Luni (A. 1016) che non ne risurse mai più, la strage de’ Mori che accrebbero i guasti della città difendendola fino all’ estremo, e la fuga del crudo tiranno in Sardegna. Dove gli anni se­guenti, non desistendo dal barbaro uso di fare inchiodare gli uomini vivi tra due pareti coperte e chiuse, venne assalito dalle forze medesime che vinto lo avevano a Luni, fu sconfitto più volte, e fatto finalmente prigione da’ Genovesi.
A. 1022.  Era disceso poco avanti in Italia Arrigo II successor degli Ottoni, re di Germania, e imperadore.
Non tanto l’eccelso suo grado quanto la santità della sua vita lo rendevano rispettabile e caro a cia­scuno. Laonde il pontefice mandò a donargli una benda preziosa che le sue milizie avevano tolta alla regina mora; e il vescovo di Genova Giovanni a nome de’ consoli gli presentò il fremente Musatto in catene. L’ offerta de’ Pisani non conosciamo; certo è nondimeno che divisero co’ Ge­novesi alquanti luoghi marittimi conquistati su i Mori, e il rimanente lasciarono, com’era dovere, a’ principi naturali della Sardegna.
È raro che le spartizioni non generino odj. Ma nessuna spartizione fece effetti più pronti, nè v’ebbe odio più ostinato di quello che allor di­vampò fra Genova e Pisa. La prima guerra che derivonne, troppo amara primizia, durò sessan­tanni. I fatti d’arme operati in tanto spazio di tempo mal si conoscono, perchè le croniche ge­novesi a noi pervenute non cominciano prima del duodecimo secolo, e le pisane ricordano sol­tanto le cose a se favorevoli. E di vero esse af­fermano in prima che dopo la finale sconfìtta di Musatto in Sardegna, toccò a’ Genovesi il suo te­soro, a’ Pisani il suo stato; ma poco di sotto, quasi ricredute, confessano che i primi essendosi fortificati nelle provincie di Torres e di Cagliari, antica residenza de’ Mori, vollero cacciar via i Pisani da tutta P isola. Il che non ottennero, anzi ne seguì lor quel male che intendevano fare ad altrui, e in Corsica ancora inseguiti perderono parecchie pievi che vi possedevano. La cronolo­gia di questi successi non è ben chiara; dove all’opposto è cosa sicura che l’anno 1056 a istigazion de’ Pisani o per risentimento lor proprio alcuni marchesi confinanti col Genovesato proibi­rono a’ loro vassalli di portarvi derrate; il che avrebbe gittato una gran carestia se non s’otteneva un rescritto di Arrigo IV re di Germania e d’ Italia che rivocava il divieto, prescrivendo da certi casi in fuori una generale libertà di com­mercio (Registr. Reip. in Archiv.). Autore di cotal benefizio fu probabil­mente Vittore II pontefice, il quale nella mi­norità di Arrigo amministrava il regno italico. Si fece allora una tregua. Ma l’anno 1070 i Pisani assalirono nuovamente i loro nemici in Corsica. Anelanti alla vendetta costoro armarono in furia dodici galee, sei delle quali erano cariche di grosse merci per levante. Fa maraviglia come sì male in ordine ardissero varcar Bocca d’Arno e innoltrarsi nel fiume; ma niuna può farsene che incon­trate da uno stuolo più numeroso, meglio fornito e secondato dalla corrente, rimanessero vinte; quelle sole che non portavano merci, usciron salve del fiume. D’altri avvenimenti non parlano le croniche anzidette fino all’anno 1087 quando Vittore III propose la sua mediazione, e fu accet­tata. Disuguaglianza di patti non si stipulò; onde par verisimile che grave sconfitta contrappesasse le narrate vittorie. E non solo il pontefice mise pace fra i due popoli emuli, ma li persuase a far lega contro altri Affricani tanto feroci, quanto già quelli di Musa. Costoro si chiamavano Zeiridi dal nome di un Arabo capo d’una tribù affamata, che aveva ritolto a tribù più tranquille i vasti paesi di Tripoli e di Tunisi. L’Italia era allora percossa per rimbalzo da tutte le rivoluzioni dell’Affrica. Ma le collegate repubbliche non si limi­tarono alla difesa delle sue riviere, vollero ancor vendicarla nel paese nimico. Altri Italiani si unirono seco. (A. 1088) Il papa diè loro la propria bandiera, ove l’apostolo s. Pietro è dipinto con le chiavi del cielo, e come depositario delle medesime in terra, concedè a chiunque si fosse imbarcato con cuore contrito, l’intera assoluzione de’suoi peccati. Il viaggio e l’assalto riuscirono egualmente felici. Una battaglia campale costò a’ Zeiridi centomila persone. Sibila e quindi Al-Mahadia, metropoli del loro imperio, furono espugnate, gran copia d’oro e d’argento presa, moltissimi uccisi (1). Il re o soldano si ritirò nel forte e magnifico ca­stello ch’era sulla collina; liberò gli schiavi cri­stiani, e con riconoscersi tributario della Santa Sede, amarissima condizione per un Maomettano, ottenne pace. Lo stuol de’ Pisani e quello de’ Genovesi ritornarono nei porti loro con lieve danno; e siccome la giornata campale era seguita il dì di s. Sisto (6 agosto 1089), così offersero il bottino più pre­zioso alle chiese di quel santo, l’una posta nel centro della città, e l’altra nel borgo di Prè. Corse voce che il medesimo giorno della vittoria in Affrica ne volasse la nuova in Italia; la qual cosa noi accenniamo, perché ove scarseggiano i veri particolari di qualche avvenimento, anche i falsi giovano a valutarlo.
È cosa mirabile in tanta variazion di pontefici la costante mira di tutti a un medesimo scopo.
Umile e ritirato da monaco, pieno d’ardore e di vasti concetti da cardinale e da papa, Gregorio VII aveva disposto di cominciare il suo pontifi­cato con sottoporre all’austere sue leggi l’Eu­ropa cristiana, e di terminarlo con rovesciare l’Europa ubbidiente sull’Asia infedele. Ma nel volere eseguire il primo disegno tanto operò e tanto sofferse, che non potè mai por mano al secondo. Scomunicò l’imperador de’ Romani, e quello de’ Greci; fu chiuso nel castel di s. An­gelo, e morì in esilio (A. 1085). Pure la tradizione delle sue massime ebbe più forza, che la memoria delle sue sventure. Vittore III non sopravvisse che poco all’impresa di Almadia testé riferita. Ma Urbano II, il primo romano pontefice di nazione fran­cese, conobbe che i tempi eran maturi per ese­guire i pensieri di Gregorio in Asia. Quivi più gloria e meno difficoltà. Quale cristiano invitato a liberare la Palestina dall’orribile giogo dell’Is­lamismo, ricuserebbe il suo braccio? Qual madre i figliuoli, qual sesso il suo superfluo almeno? Confi­nante con l’Arabia, culla di quella setta persecutrice, e con la Siria sede delle principali sue forze, la Palestina contiene le memorie più venerande del cristianesimo. Là è il presepe ove nacque il divin Legislatore, là il monte ove fu crocifisso, là il santo Sepolcro, ove l’Arimateo pose il suo corpo esangue. Fino dai primi secoli della Chiesa i fe­deli chiamavano la provincia di Palestina Terra Santa, e da lontanissime parti accorrevano a vi­sitare i suoi monumenti. Elena madre dell’ imperador Costantino, quantunque già ottuagenaria, si condusse fino a Gerusalemme, fondò la basi­lica della Risurrezione, e ritrovò la vera Croce. Al tempo dell’imperadore Teodosio, il massimo dottore della Chiesa latina Girolamo cangiò lo stre­pito di Roma con la tacita grotta di Betlemme.
Nell’età più vicine i Normanni amarono con pas­sione questa specie di pellegrinaggi fertili di mi­litari avventure, e l’anno 1064 settemila Tedeschi, ridotti poi da’disagi a una quarta parte, s’in­camminarono a quella volta con gli arcivescovi di Magonza e di Ratisbona, co’vescovi di Utrecht e di Bamberga; gente pacifica e devota, la quale s’incontrò presso il santo Sepolcro con molti Ge­novesi venuti a visitarlo dal porto di Giaffa, e fece ritorno sopra i legni loro in Europa (Baron. T. XVIII p. 267, in Itinerarium Ingulphi). Que­sti e molti altri interpretando secondo il proprio spirito le profezie, credevano il corrente millesimo non dovere aver fine senza l’avvenimento del giudizio universale, e perciò si affrettavano a dare prima di quel dì tremendo una irrefragabile prova della lor fede. A. 1092. Gl’imperadori greci promuovevano a tutto potere un’opinione tanto profittevole alle loro dogane; e fino i Saracini dopo il primo bollore della conquista allettavano i pellegrini, e ne proteggevano il culto. Questo stato di cose fu volto sozzopra, allora che i Turchi, gente più feroce de’ Saracini, occuparono la Siria insieme con altre provincie dell’Asia minore.

1004. Il nuovo governo de’ Genovesi fece maravigliare ciascuno quando si vide fra l’arti pacifiche del traffico creare una milizia navale, e non che di­fendersi, affrontare i Saracini affricani, de’ quali tutta l’Europa temeva. Era nel secolo undecimo il pensier favorito de’ papi, quantunque impediti da fazioni domestiche, che la nazion Saracina cadesse, com’era stata lor opera nel secolo ot­tavo, che i Greci e i Longobardi fossero abbattuti. Donde papa Giovanni XVIII volendo cac­ciare gl’infedeli di Corsica, dato intorno uno sguardo, qual popolo dei Mediterraneo fosse più atto all’impresa, trascelse i Genovesi (Sigonio Carlo, De regno Italiae, lib. VIII). Preten­devano i papi alla superiorità di quell’isola per essere stata compresa nella donazione di Carlo Magno e avervi mandato colonie; ma nel mede­simo tempo volevano obbligarsi una nazione be­nemerita di Giovanni XVIII Pontefice, sempre disposta secondo i proprj statuti ad onorare la Chiesa, nimica capitale de’ Saracini, e da gran tempo volta a un acquisto quanto incomodo in mani nimiche o sospette, utile altrettanto nelle sue. Fu letto il rescritto pontificio nel parlamentò del popolo, e approvato. Non si sa, se le castella occupate nell’isola un secolo addietro, fossero ancora in potere de’ Genovesi; nè altri partico­lari si sanno, fuorché l’armata loro approdò in Corsica (a. 1005) felicemente, e debellò i Mori. Quindi per gratitudine dell’invito, o per compiacere alle pre­tensioni de’ papi, essi cominciarono a pagar loro una libbra d’oro. Simile censo pagò di poi l’In­ghilterra, e chiamavasi il danaro di s. Pietro.
Vogliono alcuni che i Pisani partecipassero nell’impresa e nel dominio della Corsica (Chron. Pis. col. 108 T. VI S. R. 1). Ma come conciliasi questo co’ loro antichi annali, i quali non ne dicon parola, e riferiscono in quella vece brevemente: «Nell’anno 1oo5 Pisa fu presa da’ «Saracini; e nell’anno 1012 uno stuolo di navi venne di Spagna a Pisa, e la distrusse.» Sciagure simili a quelle, che Genova, ancora mal provveduta, aveva durate nel secolo antecedente.
L’industriosa città si rifece in pochi anni, e veramente ebbe parte in altra spedizione de’ Ge­novesi contro i Mori dell’isole, quantunque non vi fosse principale, nè tanto vi profittassero i suoi capi, quanto uno scrittor posteriore di tre secoli all’evento, confondendo i tempi diversi, ha dato a credere altrui (Benvenut. da Imola T. I., Antiq. Ital., V. Annali d’Ital. A. 1021 e le dissert. ivi cit. dal Muratori).
L’isola della Sardegna era stata, come la Cor­sica , assalita da’ Mori d’Affrica e Spagna. Re­spinti costoro dall’armate marittime di Carlo Ma­gno, avevano preso ardire sotto i suoi successori, che nella division dell’imperio l’abbandonarono.
I Sardi non si erano per ciò sgomentati; ma di­visa l’isola in quattro provincie verso il decimo secolo, ad ognuna di queste preposero un prin­cipe, da prima elettivo e pòscia ereditario, col titolo di giudice o anche di re. Regnarono (Vico hist. de la Sardegna, Barcellona A. 1639. P. IV. Gazane Stor. della Sard. Cagliari 1777 T. I. p. 375) i Tan­ca in Logodoro, i Gunal in Cagliari, i Laccon in Gallura, e un’erede della stessa famiglia locò i Serra in Arborea. Resistettero un secolo intero a’ replicati assalti de’ Mori; ma pochi anni dopo il millesimo uscì di Barberia un re o emir Sara­cino, che in ferocia e possanza non avea pari.

(1) Petri Diacon. Ann. Cassin. lib. IV. 2.; Berthold. Const. T. II. 436.; Ganfr. Malaterra lib. IV. 3.;  Barou. Annal. Eccl. T. XVII. 581; (1) Al-Mahadia era novanta miglia a ostro di Tunisi, e nove mi­glia più lungi era Sibila, creduta da alcuni l’antica torre di An­nibale.

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X SECOLO

Autori vari

1015. I Saraceni. I Saraceni, partendo dall’Africa, avevano occupato parte della Spagna e dell’Italia meridionale. Mogéhid (detto anche Mugeto o Musatto), capitano dei saraceni, salparono da Denia e sbarcarono in Sardegna facendo un gran numero di prigionieri e quindi scesero tra Genova e Pisa, distruggendo Luni. (Donaver, 1890)

1016. Benedetto VIII. Il Papa Benedetto VIII, invia il vescovo di Ostia a Pisa e a Genova, e promette la signoria della Sardegna a chi la libera dal dominio saraceno. I pisani ed i genovesi si uniscono, sconfiggono Mogèhid che ritorna a Denia. Da qui ha pirateggiato fino al 1044 morì. Non risulta vero che fosse preso dai genovesi e mandato in Germania dall’imperatore Enrico III. (Donaver, 1980)

1034. Genova e Pisa. I pisani ed i genovesi si uniscono e occupano Bona, in Africa. E’ probabile che i genovesi effettuassero altre simili imprese per interessi di fede e commerciali, quasi ad anticipare le crociate. (Donaver, 1980)

1056. Carolingi. Il Marchese Adalberto conferma i privilegi dati da Berengario e ne riconosce le antiche consuetudini: i Visconti, la Compagna ed i Consoli che erano eletti ogni anno. Le Compagne raggiunsero il numero di otto, in corrispondenza dei rioni della città, che costituivano il Comune genovese. (Donaver, 1980)

1056. Le A’Compagne e i Rioni di Genova. Le A’Compagne di Genova corrispondevano agli otto rioni in cui era divisa la città: 1) di Palazzolo, corrispondente al Castello; 2) di Maccagnana, che da S. Ambrogio va al Canneto; 3) di Piazza Lunga, comprendente la zona di S. Donato e la chiavica, detta poi contrada dei Giustiziani; 4) di S. Lorenzo, zona duomo; 5) di Soziglia; della Porta, ossia in banchi; 7) di Portanuova, nella zona della Maddalena; 8) del Borgo, attuale zona di Pre e oltre. (Vedi mappa su Campodonico, 1989, 25) (Donaver, 1980)

1087. I Genovesi alleati con Pisani ed Amalfitani, su richiesta di papa VITTORE III, occupano molte terre nel nord-Africa  costringendo i re di Tunisi e Tripoli a diventare tributari della Santa Sede, ed il principe saraceno TEMIN fu costretto a smettere la pirateria e a concedere a Genovesi e Pisani i privilegi doganali. (Zunino G., www.vegiazena.it)

1091. Urbano II i pisani e la Corsica. La conquista della Corsica da parte dei genovesi acuì l’avversione dei pisani che armate alcune galee, fingendo di dirigersi verso la Sardegna, sbarcarono in Corsica e l’occuparono. Papa Urbano II con una breve fa donazione della Corsica alla chiesa pisana e all’arcivescovo di Pisa conferisce l’autorità di consacrare i vescovi corsi. I genovesi risposero mandando 16 galee a perseguitare e depredare galee pisane. Quindi 22 mila soldati genovesi montati su 80 galee e numerose navi con torri e armamenti volsero verso Porto Pisano. I pisani chiesero la pace, che fu loro concessa ai patti dettati dai genovesi che ottennero anche che le case di Pisa fossero spianate al primo solaio. (Donaver, 1890)

1092. Alfonso VI di Castiglia. Genovesi e Pisani prestarono aiuto al re Alfonso VI di Castiglia nella spedizione contro Valenza e il Cid.Fallita l’impresa per il disaccordo, i genovesi si allearono con re Sancio di Navarra e d’Aragona e il conte Barcellona per assalire Tortosa, ma furono respinti. (Donaver, 1890)

1095. Urbano II. Nel Concilio di Piacenza ed in quello di Clermont (novembre 1095) il Papa Urbano II bandiva la prima crociata contro i Turchi che occupavano Gerusalemme e tutti i Luoghi Santi. Risposero Pietro l’Eremita, Goffredo di Buglione, il conte Roberto di Fiandra ed altri ricchi feudatari. A Genova si recarono a predicare la crociata i vescovi di Grenoble e d’Orange. Le prediche erano tenute nella chiesa di S.Siro ed i nobili e ricchi genovesi si crociarono. (Donaver, 1890)

1097. Genova e la Prima Crociata. I genovesi armarono una flotta di 12 galee che in luglio volsero verso oriente. Sotto il comando di Pietro l’Eremita e di altri fanatici erano raccolti i primi crociati che, senza una organizzazione militare, furono in gran parte uccisi dalle popolazioni bulgare e rumene o finirono di stenti. Goffredo di Buglione mise insieme un’armata di seicento mila uomini, passò il Bosforo, ma si fermò a Nicea dove si arrese all’imperatore greco Alessio Comneno. Una parte dell’esercito comandato da Baldovino, conte di Fiandra, andò fino all’Eufrate e divenne re di quel paese. Il grosso dell’esercito giunse in Siria e assediarono Antiochia (ottobre 1097), ma non riuscirono a penetrarvi fin quando giunse nel porto di San Simeone una flotta di genovesi e pisani. Con il loro aiuto e per il tradimento di un tale che stava a guardia di una torre, i crociati occuparono Antiochia il 31 maggio del 1098. Prima di rientrare a Genova i genovesi entrarono nella città di Mirrea, trovarono le ceneri di S. Giovanni Battista e le portarono a casa dove sono tutt’ora custodite in S.Lorenzo. (Donaver, 1890)

1097- 1110. Prima Crociata. Nell’acquisto di Antiochia sono 40 galee genovesi (1097). Nel 1099 Guglielmo Embriaco sbarca in Soria. Nella presa di Cesarea sono 28 galee e 6 navi e 8,000 combattenti genovesi (1100). Nella espugnazione di Accaron, Gibello e Tortosa e ne’ soccorsi a Re Baldovino (1102-5) sonvi 40 galee di genova, e poi 100 nelle imprese dal 1107 al 1110. (Malnate, 1892)

1098. Guglielmo Embriaco e la torre alla conquista di Gerusalemme. I Genovesi che tanta e principal parte ebbero nell’espugnazione di Antiochia nel 1098; senza cui (e la ingegnosa torre di Guglielmo Embriaco) forse non sarebbe caduta Gerusalemme il 15 luglio 1099 (alla vista di San Giorgio lor patrono, fu detto e creduto): né poi Cesarea e Acri avrebbon ceduto alle armi crociate; i Genovesi tra la mollezza latina e il fasto orientale, nell’età tipica del feudalismo, ben avrebbon potuto creare ancor essi colà signorie feudali a’ loro condottieri. (Malnate, 1892)

Maestri d’ascia di Castelletto d’Orba al seguito dei Crociati. Quando il signor Guiducci mi ha detto che il legno arrivava dall’Orba, mi ha ricordato un fatto. Nella traduzione genovese della Gerusalemme Liberata del De Franchi (edizione 1772) il Canto IV incominia con due versi che ricordano i maestri d’ascia al seguito dei Crociati: “Intanto che lavoran zù da cheu / Orbaschi, meistri d’ascia e banchae …” da tradurre: mentre che lavorano di cuore la gente dell’Orba, maestri d’ascia e falegnami. (Petrucci, 1997)

1099. Guglielmo Embriaco e Guglielmo Embriaco e Primo di Castello a Gerusalemme. Ritornati i genovesi da Antiochia animarono Guglielmo Embriaco e suo fratello Primo di Castello che partirono con due navi per Giaffa, vicina a Gerusalemme. L’Embriaco si accorse che stava sopraggiungendo la numerosa flotta turca, così sbarcò gli armamenti, affondò le galere e raggiunse il campo dei crociati sotto Gerusalemme. L’assedio di Gerusalemme durava da tempo senza esito, allora l’Embriaco fece costruire una gran torre di legno e la mattina del 15 luglio 1099 fu accostata alle mura della città. La torre non poteva essere incendiata perché ricoperta di rame perciò con il favore del vento che soffiava contro i turchi i crociati appiccano fuoco ai legni che si trovavano sulle mura e si avvicinano a loro. I turchi quindi alzano un’antenna e vi appendono una trave usandola come ariete, ma i genovesi tagliano le corde, s’impadroniscono della trave, la usano come ponte per entrare sulle mura e conquistano Gerusalemme. I fratelli Embriaci ebbero un grosso bottino e comprata una galea ritornarono a Genova dove giunsero il giorno di natale del 1099. Essi fecero conoscere la loro impresa e lessero alla popolazione genovese le lettere di Goffredo di Buglione e dell’arcivescovo pisano Daimberto in cui si invitava ad inviare altri soccorsi in terra santa. Guglielmo Embriaco, detto Capo di Maglio, fu confermato Console per altri 3 anni. (Donaver, 1890)

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XI SECOLO

Autori vari

Nella foto, presa dal porto, la Torre degli Embriaci e, con la bandiera, la torre del Palazzo Ducale.

 

Ammiragli. Era ammiraglio, per antico Decreto del Comune, chi avea il comando di 10 galee non meno: e questi ammiragli, dallo scorcio del XI secolo e durante il successivo, compion le imprese navali più grandi che le storie registrano in quei tempi. (Malnate, 1892)

1100. Genova e il porto. Ricostruzione di Campodonico.

1100. Genova e il porto. Ricostruzione del Cevasco.

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L’Italia alla metà dell’XI secolo.

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Secoli XI e XII.

IL COMUNE DI GENOVA E LE COMPAGNE

990–1097–1196.

Cenni storici illustrati e raccolti dal pittore Quinto Cenni (Milano) per conto del Sig. Dr. Cav. H. J. Vinkhuizen dell’Aia, Medico.

http://digitalcollections.nypl.org/search/index?utf8=%E2%9C%93&keywords=genoa

XI Il Comune di Genova e le “Compagne” 990-1097-1147

Pur ergendosi a Comune, Genoa non aveva cambiata integralmente la costituzione interna del suo governo. Vi era sempre il Vescovo e vi erano sempre i Militi. Di più esistevano sempre i Visconti quali governatori della città; anzi nel 1052 questi ottennero di essere indipendenti dai Marchesi, i quali erano come Vicari imperiali e non sentirono senza amarezza questa nuova indipendenza da loro dei Visconti. Ma la guerra che Genova ebbe a sostenere coi Saraceni, ritornati padroni della Sardegna, mise, per Genova almeno, questi attriti in seconda linea. Essa dovè intraprendere nel 1086 ed in unione ai Pisani una nuova spedizione contro i Saraceni riuscendo a cacciarli di nuovo da quest’isola; e nell’anno seguente, 1087, li rincorse fino a Tunisi dove si erano di nuovo rifugiati e dove nuovamente li sconfisse e nel 1093 veleggiò con 40 galee in Palestina e conquistò Tortosa di Soria.

[manca la pagina contrassegnata con il numero 15. La pagina 16 riporta una “grande cavalcata storicala quale doveva rappresentare nel 1881 la partenza ed il ritorno dei contingenti genovesi per la 1°crociata. … al termine un lungo elenco di scrittori delle cronache delle crociate]

Il Cafaro di Caschifellone, più volte console, più volte duce d’imprese militari, cominciò primo la sua cronaca dal 1098 al 1163, illustrandole qua e là con schizzi, in margine, quali in nero e quali colorati, e, dopo di lui, vennero: Obertus 1164-1174 – Ottobonus, scriba 1174-1196 – Ogerius Panis 1197-1219 – Marchisius, scriba 1220-1224 – Bartholomeus, scriba 1225-1248 e 1249-1264 – Lanfrancus Pignollus, Guilielmus de Murtedo, Marinus Ususmaris ed Henricus marchio de Gavi 1264-65 ed altri ancora fino al 1294. Abbiamo quindi un ottima scorta per quasi due secoli e non potremo quindi smarrirci per via.

Le Crociate

Presero parte i Genoesi (Januenses) alle Crociate? Se si dà retta agli scrittori che di questo glorioso avvenimento hanno trattato si direbbe che essi poco o punto vi parteciparono. Michaud nella sua meritatamente celebre “Storia delle Crociate” assegna ad essi, tutt’al più, il ruolo di semplici mercanti, che portavano le cose loro ai Crociati, e trafficavano sul luogo; ma non dice mai che essi abbiano preso parte alcuna a fazioni di guerra. Il loro arrivo era gradito ed utile, ma nulla più.

Fortunatamente, fra i Genoesi che passarono in quel tempo in Palestina, vi era anche un nobile, un cavaliere o milite che dir si voglia, il quale sapeva maneggiare la penna, od almeno, farla maneggiare ad altri sotto sua dettatura [era notaio] così bene come sapeva maneggiare la lancia o la spada e, più volte, il bastone di comando. Cafaro adunque, arrivato in tardissima età, dettò le sue memorie ad uno scriba ed è su di queste (che oggi fotografate si trovano in quasi tutte le biblioteche) che noi possiamo proseguire con una certa sicurezza questa nostra qualsiasi istoria.

I Genovesi alla 1° Crociata.

Dunque è positivo che i Genoesi presero parte alle Crociate.

Fu in giugno del 1097 che, dopo aver devotamente ascoltato nella Basilica del Beato Siro in Genova i sermoni dei vescovi di Gratianopoli e di Aurisia (In nota. Gratianopolitanum ed Auriciensem dice precisamente il testo) mandati appositamente dal Sommo Pontefice Urbano II, i Genoesi presero non meno devotamente la croce, primi fra gli altri: Obertus Lamberti de Marinis filius, Obertus Bassus de Insula, Ingo Flaones, Dodo de Advocato, Lanfrancus Roza, Pascalis Noscentius Astor, Guilielmus de Bono seniore, Opizo Mussus ed altri e altri ancora. (Fra i quali possiamo aggiungere, così di scienza nostra come per detto e fatto dalla Grande Cavalcata Storica del 1881, i fratelli Embriaco, Cafaro di Caschifellone (cronista), Carmandino, Ravaschieri di Castello, Guido Spinola (il primo nominato nella storia di questo grande casato) nessun Doria.

Tav. XIV. I genovesi prendono la Croce in San Siro.

La  Tavola XIV rappresenta l’uscita solenne dei Crociati dalla Basilica, preceduti dai due Vescovi che benedicono il popolo circostante.

Nel successivo mese di luglio (1097) ebbe luogo la partenza per la Palestina con un convoglio di 12 galee ed un “sandàno”, cioè: nave da carico, nave tonda o semplicemente nave. La tavola XV rappresenta l’ala sinistra di tale convoglio con, in retroguardia, il detto “sandano”.

Giunsero sui lidi della Siria i Crociati nel mese di Settembre soltanto e presero terra alla foce del Sulino, sul porto detto di S. Simeone, presso Laodicea, a circa dieci miglia più a sud di Antiochia (In nota. Vedasi piccola pianta topografica a pag. 20). Antiochia era a quel tempo assediata dall’esercito dei Crociati comandati dall’illustre , prode Goffredo di Buglione e – più precisamente – da quella parte di esso che era comandata dell’italo-normanno Boemondo principe di Taranto.

Fig06. Città della costa siriano-palestinese.

Appena che la notizia dell’approdo dei Genovesi (Michaud dice anche: Pisani e li tratta unicamente come mercanti venuti là per vendere le loro merci! Cafaro parla di Genoesi e li presenta guerrieri) presso Laodicea pervenne al campo dei Crociati sotto Antiochia, si spiccò da quello un forte drapello di cento cavalieri comandati dal Principe Boemondo medesimo; e questi, giunto, in preferenza dei principali del nostro campo, li concionò in tal guisa: “O fratres et divini praelii socii, sicut pro servitio Dei ad has portas venistis et praemium ad requiem animarum vestrarum inde habere obtastis, ita pondus praelii et laboris comuniter substinere et laborare in quantum nos sumus, vos multum ortamur.” [“O fratelli e alleati nella divina battaglia, come per servizio di Dio siete giunti a queste porte e avete preferito (scelto) di ricevere la ricompensa a ristoro delle vostre anime, così vi esortiamo a sostenere insieme a noi il peso della battaglia e dell’impresa e a sudare insieme a noi per quanto sta nelle vostre forze”]

I capi genoesi, ciò udito, tennero consiglio e deliberarono di mandare col detto Principe 600 dei loro migliori combattenti tra i quali pare se ne trovassero 25 provvisti di cavalcatura. Questi marciarono col principe e i suoi 100 cavalieri, lungo il litorale, in direzione d’Antiochia e, presumibilmente, solo al giorno appresso e di buon mattino come lo dimostra la nostra Tavola XVI.

Tav. XVI. Marcia dei Crociati Genovesi su Antiochia. Ottobre 1097.

Sorpresa e strage nel campo genoese di Laodicea.

Intanto, usciti di Antiochia, marciavano al nostro incontro mille uomini di cavalleria turca. Sembra che il drapello normanno-genoese si accorgesse bensì di tale incontro poiché è precisamente detto dal Cafaro che gli uomini di esso che marciavano a piedi quantunque provvisti di cavalcatura montarono tosto a cavallo al primo annuncio di tale incontro e che ne mandassero anche l’avviso al campo genoese, ma pare che o l’avviso stesso sia giunto in ritardo, o che, a malgrado di esso, la cavalleria nemica abbia potuto recare gravissimi danni al campo medesimo. Fatto sta che, effettivamente, la cavalleria turca, coprendo con una tempesta di dardi il nostro campo, vi sparse in brev’ora il disordine e la morte per quanto cum lanceis et ensis [lance e spade], cioè colle lance e colle spade, i Genoesi avessero viriliter, cioè virilmente, resistito all’inopinato e terribile assalto.

Vendetta dei Normanno-Genoesi.

Però la cavalleria turca, tornando trionfalmente verso Antiochia coi prigionieri fatti e le spoglie rapite, incontrò la cavalleria normanno-genoese di Boemondo (225 uomini almeno) (Nota. Il Cafaro dice che il dapello di Boemondo era di cento militi, ma noi sappiamo che questi militi erano tutti uomini dell’alta classe che traevano seco un dato contingente di valletti armati e di scudieri; né diversa dovea andare la cosa pei genoesi quantunque per questi sia espressamente detto che di essi i provveduti di cavalcatura erano soltanto 25. Vuol dire che avranno avuti valletti e scudieri appiedati) la quale ne prese solenne vendetta uccidendo tutti quanti la componevano. Le nostre due Tavole XVII e XVIII rappresentano il dupplice fatto con quella parte episodica di esso che era normale a quei tempi e cioè la presa di donne ai vinti ed il sacrificio delle medesime quando il rapitore era costretto da forza maggiore a lasciarle.

Dopo questi bruschi fatti di guerra il rimanente dei Genoesi, rimasti al campo a custodire le galee, furono chiamati sotto Antiochia davanti alla quale rimasero fino alla caduta della medesima, avvenuta in febbraio del successivo 1099. Che cosa sia avvenuto delle 12 galee e del sandano, rimasti così quasi senza custodia, il Cafaro non dice. Come pure nulla dice sulla parte che possono aver presa i crociati Genoesi alla grande vittoria d’Antiochia ottenuta sulle armi ottomane, le quali, giunte troppo tardi al soccorso della città, l’avevan a lor volta assediata e condotta ai suoi tristi termini.

Il Cafaro invece propone il suo racconto dicendo che, intrapreso poco dopo l’assedio di Gerusalemme dal corpo principale dei Crociati sotto gl’ordini di Goffredo di Buglione, mentre davano un tale assedio, i due fratelli Primo e Guglielmo Embriaco approdarono con due loro galee a Joppe (oggi Jaffa) e che, non potendo tenerle ivi in sicurezza per la troppa vicinanza dei Saraceni di Ascalona, le distrussero, e che poi -prosegue il Cafaro – invitati anche questi a passare all’assedio di Gerusalemme vi si condussero trasportando seco il legname delle loro galee disfatte, col quale legname costruirono poi certe loro macchine mediante le quali fu agevolata la presa della città dopo 40 giorni di viva oppugnazione.

Stando a tale racconto del Cafaro vediamo che essi – i Genoesi – per due volte approdarono sui lidi della Soria (Siria) e che entrambe le volte essi furono calorosamente invitati a prender parte all’assedio della città vicina – Antiochia prima, Gerusalemme poi. Da ciò si può equamente concludere: 1° che essi non facevano parte integrante del corpo dei Crociati; 2° che essi però correvano colà dove comprendevano poter essere utile il loro intervento; 3° che l’utilità di tale intervento era così ben conosciuta e valutata che si mandavano inviti specialissimi per ottenerlo. Si può poi ancora desumere da tutto ciò che, presa la città di Antiochia, i Genoesi sieno ritornati alle loro galee e con queste abbiano scorrazzato qua e là pel golfo (od antico mare Phenicium) in busca [cerca] di qualche guadagno da quei bravi mercanti che essi erano. I Crociati, quindi e con essi il loro celebre storico Guglielmo di Tiro, possono essere stati, indotti da ciò a considerarli come semplici mercanti che si tramutavano guerrieri solo in speciali circostanze e quindi non calcolabili nelle file dei veramente guerrieri accorsi in Palestina unicamente per guerreggiare. Il Michaud però, scrittore moderno e con tanti testi che poteva avere sottomano, non poteva né doveva ignorare e molto meno trascurare, come ha fatto, le cronache genoesi (più conosciute sotto il nome di “annali”) del Cafaro e suoi sequitatori. Ma sappiamo già che, in massima, ai scrittori francesi basta lo scrivere con eleganza e con brio e del resto non s’impacciano. La nostra Tavola XIX rappresenta il campo dei crociati genoesi a Gerusalemme colle macchine ossidionali che essi stanno costruendo.

Tavola XIX. A campo sotto Gerusalemme, Guglielmo Embriaco Capo dei Crociati Genovesi. 1099

Presa Gerusalemme nel mese di Luglio 1099, i Genoesi si trattennero alcun poco in essa e nei dintorni, poi, carichi di ricchi presenti fatti loro dai Capi dei crociati, ritornarono in Italia sopra una nave comperata appositivamente per questo dagl’Embriaci e salparono a Genova precisamente alla vigilia di Natale di detto anno.

Secolo XII. 2° Crociata dei Genovesi

La coincidenza di tale fortunato e festeggiato ritorno con una festività sacra che raccoglie sempre i cuori dei Cristiani ed unisce le famiglie in cordiali e santi consorzi domestici; le grandi cose narrate dai crociati, i ricchi doni da essi portati e mostrati alle moltitudini commossero così fattamente i cuori dei Genoesi, e scaldarono loro talmente la testa, che, dimenticate ad un tratto le ire cittadine, determinarono in gran maggioranza di prendere di nuovo la Croce ed occorsero ben 26 galee e 4 navi da carico (Altri dice 36 galee, 6 navi da carico ed 8000 combattenti. Accettiamo gli 8000 combattenti ma teniamo per le 26 galee e 6 navi perché è il numero dato dal Cafaro) per trasportare in Soria tutti quelli, crociati, pellegrini e mercanti che affidarono di nuovo al mare l’esuberanza della loro fede, del loro ardimento, della loro ambizione. La nuova spedizione salpò da Genova poco oltre il mezzo dell’anno 1100, approdò di nuovo a Laodicea e quivi si fermò per tutto l’inverno 1100-1101. Di quivi, scorrazzando secondo la loro abitudine per il Golfo Fenicio, si portano prima a Caifas, poi toccano Joppe [Jaffa] ove sono incontrati dal buon Re di Gerusalemme Baldovino, fratello del pio e valoroso Goffredo morto l’anno avanti, 1° Re di Gerusalemme.

Il re Baldovino rammentò ad Embriaco (che era l’ammiraglio della nuova crociata genoese) la promessa sua di aiutarlo nella conquista di Arsuf e di Cesarea, ricordandogli inoltre che senza tale promessa egli non avrebbe accettata la corona di Gerusalemme. Embriaco confermò la promessa e quindi tutti insieme si recarono a fare una solenne e commovente visita al S. Sepolcro.

Ritornati poi i Genovesi a Joppe [Jaffa] si misero in punto di mantenere la fatta promessa e salpati da essa diressero su Arsuf che il Cafaro chiama Azotum e la presero e quindi, dopo di essa, presero Cesarea. Il Re Baldovino, assai contento di ciò, presentò di ricchi doni l’Embriaco ed i suoi Genoesi e fra gli altri doni primeggiava un ricchissimo vaso che tutt’ora si conserva in Genova e fece anzi parte della Grande Cavalcata Storica del 1881 più volte qui rammentata.

Episodio della presa di Azotum.

Nella presa di Azotum occorse un fatto speciale assai onorevole per un genoese, il console Caputmalii: costui lanciatosi per primo sopra una scala a mano, quando ebbe posto il piede sul muro ed i Saraceni, atterriti, si erano fugati da ogni parte, si trovò ad un tratto solo, perché in quell’istante la scala si era rotta e tutti i Genovesi che vi salivano erano precipitati in basso. Raccomandatosi in cuor suo a Dio il Caputmalii mosse verso una vicina torre ed imbattutosi in un Saraceno che ne discendeva, si azuffò con esso ed abbracciatisi strettamente l’un l’altro in guisa di non poter usare le armi, propose, primo, il saraceno di lasciarsi stare l’un l’un l’altro senza più farvi danno. Accettò il Caputmalii e salita la vicina torre di là fece cenno colla spada ai suoi di salire di nuovo chè i Saraceni continuavano a fuggire da ogni lato. I suoi, obbedienti, salirono così come fa scrivere il Cafaro: “Januenses autem in humeris dextris crucem portantis per arbore unam palmam pronam supra murum civitatis ascendendo …” [“I Genovesi però portando sulla spalla destra una croce a mezzo di un tronco di palma appoggiato si arrampicarono sul muro della città”]. Dal che si vede che i Crociati Genovesi portavano per loro distintivo speciale la croce sull’omero destro così come li abbiamo noi rappresentati nelle Tavole XV, XVII, XVIII e XIX [di queste solo la Tavola XIX è presente nel sito della NYPL].

3° Spedizione Genoese in Palestina e sviluppo dei loro possedimenti in Oriente

Ritornata in ottobre 1101 a Genova anche codesta seconda crociata, si organizzò tosto una terza spedizione, colla quale, composta di 40 galee, si presero le città di Akaron (Acri) e di Gibello minore o Gibelletto che diventò una colonia genoese. Da questo momento i Genovesi, che già possedevano quartieri particolari in Gerusalemme ed in Giaffa ne ebbero pare ad Arsuf (Azotum (Apollonia)), in Cesarea, in Beirout (o Berito come si diceva allora), in Laodicea ed in Acri, avendo come a centro loro Gibelletto che era tutt’intiera in loro potere. Fu questo uno dei punti di maggior gloria per Genova e fortunata essa se avesse saputo difendersi dall’insana smania delle liti intestine e delle guerre coll’altre repubbliche e stati italiani. Ma era scritto nel gran libro del Destino che l’Italia, smembrata in tanti piccoli stati, città e villaggi gl’uni agl’altri accanitamente nemici, non sarebbe venuta ad unità che dopo molto sangue sparso, dopo molte ruine, dopo molti secoli!

Nel 1103 fu presa dai Genoesi Tortosa di Soria.

Nel 1106 con 60 galee, portanti molte macchine e castelli, fu preso Gibello maggiore. Ammiragli Ugo ed Ansaldo Embriaco.

Nel 1110 si presero – con 22 galee – Beruti (Beirut) e Malmistra e questo è l’ultimo fatto glorioso dei Genoesi nell’Oriente, per ora.

In tutto questo spazio di tempo, che viene dal 1098 al 1118, Genoa si governò col sistema delle “Compagne” che ormai si dicono “Compagnie” e come tali noi pure d’ora innanzi le chiameremo. I consoli, così del Governo propriamente detto come dei Placiti (Giustizia), si cambiarono di quattro in quattr’anni fino al 1117. Con quest’anno essi durarono in carica soltanto un biennio.

La grandi famiglie genovesi dei Doria e dei Spinola.

E pure in questo lasso di tempo che cominciano a segnalarsi le grandi famiglie Doria e Spinola, ma sembra che la prima non abbia cominciato che molto più tardi a prender parte attiva ai gloriosi fatti d’Oriente, mentre un Guido Spinola fa già parte della 1° Crociata. I Doria ebbero invece molto a che fare colla Sardegna e fin dal 1101 ebbero a fortificare per conto loro in quest’isola il porto di Alghero. Poi vennero le famiglie celebri pur esse, ma ora quasi estinte, dei Grimaldi e dei Fieschi e fu precisamente dalle rivalità di queste famiglie, rivalità spinte talora all’ultimo sangue, che lo Stato di Genova ebbe a soffrire i più grandi colpi. Intanto è vero che gli Stati retti da più uomini insieme non sono mai di lunga vita perché non vi hanno né vi possono razionalemente essere due governanti che la pensino in maniera del tutto uniforme mentre la modestia e l’abnegazione sono qualità rarissime nell’uomo, tanto rare quanto sublimi. Ne viene quindi come risultante necessaria la discordia e, colla discordia, l’ultima conseguenza della rovina dello Stato.

Ed ora veniamo a cose tristi, le quali, se non determinano la rovina dello Stato di Genova, appartengono però al novero di quelle che impedirono sempre il risorgimento d’Italia, il quale non potè aver luogo de non dopo che le cose stesse ebbero cessato di esistere.

Dobbiamo dire – cioè – della scellerata guerra con Pisa.

Già abbiamo accennato che fino dalla conquista fatta insieme da Genova e da Pisa della città di Tunisi nell’anno 1087, sorsero tra le due repubbliche dissapori e rivalità che, sopite per qualche tempo dallo straordinario ed in un pietoso avvenimento della prima crociata, divampò ben presto quando il fervore per le crociate medesime si fu alquanto raffreddato. Quale fu la causa di tanta e così fatale inimicizia? Non la si conosce precisamente, ma molto probabilmente esse furono molte insieme e, molto più probabilmente, tanto piccine in se stesse da far comprendere che una sola causa le riuniva turre e cioè: l’invidia.

Le prime guerre con Pisa.

Comunque: le prime ostilità fra le due repubbliche avvennero nell’anno 1119, nel quale i genovesi impiegarono 16 galee nella guerra contro l’antica loro alleata. Poi, nell’anno susseguente, 1120, una flotta di ben 80 galee con 28 piccole golabis [sic], (o gorabis, navi di piccolo scafo) e 4 grandi navi portanti macchine da guerra e, fra tutte, ben 22000 uomini a piedi ed a cavallo, fu diretta al porto stesso di Pisa, e, pare, obbligandola con questa sola apparizione, seguita da qualche sbarco, a chieder tosto la pace. Noi dedichiamo a questo fatto la nostra Tavola XX [Questa Tavola non è presente nel sito della NYPL], non per celebrarlo – ben inteso – ma semplicemente per prender atto con essa di un punto speciale della Storia del costume militare di Genova. Questo punto speciale è portato dalla seguente descrizione del Cafaro, il quale dice che fra quei 22000 uomini ve ne erano “quinque milia cum loricis et galeis ferreis, ut nix albis induti erant”! [Cinque mila con corazze ed elmi di ferro, vestiti di bianco come neve]. Ora se il Cafaro crede conveniente citare, come fatto singolare, che per tale ferrea avventura non si vedeva alcun colore bianco nel vestiario di quei 5000, ciò significa due cose: la 1°, che non sempre la fanteria e la cavalleria erano coperte di ferro, 2° che il vestiario ordinario della truppa doveva esser bianco.

Il costume militare dei Genovesi alla fine del secolo XI ed al principio del XII.

E se aggiungiamo la qualifica di galee data agl’elmi della truppa (e galea vuol dire foggiata a pesce cioè con lunga appendice sul davanti) veniamo ad avere tre preziosi dettagli indicanti – almeno in massima – l’uniforme militare dei genovesi dell’epoca e, cioè: la croce di crociato dulla spalla destra; il colore bianco del vestiario, la forma a galea dell’elmo. Il primo dettaglio si riferisce alla seconda spedizione in Palestina, ma null’osta – ci sembra – che non riguardi anche la prima e la terza e successive spedizioni. Il secondo, quello della bianchezza del vestiario, darebbe ragione del bianco scelto per colore di fondo nella Grande Cavalcata Storica di Genova del 1881; e veramente nulla di più adatto per truppe che venivano da uno Stato il cui stemma era costituito da una croce (rossa) su fondo bianco; il terzo infine potrebbe esso pure dar ragione dell’elmo a galea, importato dai Normanni in Italia nel secolo X ed adottato intieramente dagli ordinatori della suddetta Cavalcata Storica; ma il male sta nell’averlo adottato intieramente, mentre è quasi inammissibile che, soltanto dopo una cinquantina d’anni, l’uso di essi si fosse introdotto nei soldati genoesi così completamente da averlo tutti eguale. Se non lo avevano tale tutti, tutti gli stessi Normanni, tanto più è difficile che lo avessero i loro imitatori, almeno negli ultimi anni del secolo XI. Perciò noi lo abbiamo dato a tutti nelle nostre Tavole XIV, XVI, XVII, XVIII, XIX e solo aspetteremo a darlo nelle seguenti quando ci vedremo confortati a ciò fare dai disegni medesimi che adornano gli annali dei continuatori del Cafaro.

Allargamento dello Stato nella Liguria.

Volte le menti genoesi a consolidare ora la potenza del loro Comune sulla Liguria, dopo aver nell’anno 1113 eretto il castello di Porto Venere sulla punta nord-occidentale del golfo di Spezia e dopo aver, come abbiamo già detto, debellata la rivale Repubblica di Pisa nel 1120, movono ora – 1121 – guerra – fortemente sostenuta – contro il marchese di Gavi, obbligandolo a venire a patti e comperando poi dal medesimo, per denaro, (400 libre) il castello di Voltaggio, mentre acquistano pare, ma per forza d’armi, quelli di Falcone, Clapiracom [?], Mundasi [?] e Pietra Beccaria [nel pavese].

I Consolati annui. I Clavigeri.

Intanto l’organizzazione governativa del Comune subisce subisce ancora una modificazione e, cioè i Consoli – a datare dal 1120 – non durano in carica più di un anno ed il Comune medesimo non s’intitola più per “Compagnie del tal anno e del tal altro” ma bensì per “Consolati” la cui numerazione comincia appunto coll’anno 1122 nel quale ha per luogo la creazione dei “Clavigeri” (specie di pubblici tesorieri) e dei “Scrivani”.

2° guerra con Pisa. 1125-1130.

Nel 1123 si riaccende la deplorevolissima guerra con Pisa; nel 1124, dopo varie scorrerie sul mare, vie tolto a forza ai Pisani il castello di Sant’Angelo. Indi la guerra continua varia e multiforme ora in terra. Una fase di questa guerra fratricida si svolse nel 1129 in Sicilia (E precisamente a Messina, ove, per quanto i Pisani fossero appoggiati dai Messinesi, nondimeno ebbero la peggio) ed ora sul mare fino al 1130 nel quale si fa finalmente pace fra le due Repubbliche.

3° guerra con Pisa. 1132-1133. Spedizione di Roma.

Ma questa pace non dura che un sol anno, il 1131, poiché nel 1132 la guerra si accende di nuovo e dura fino al 1133 nel qual anno i belligeranti si compongono ancora in una certa quiete della quale Genova approfitta per intraprendere una campagna navale su Roma in favore del papa Innocenzo II e del re Lotario, ottenendo con essa la sommissione dei romani a quei due Principi. E nell’anno medesimo il Comune di Genova conquista e distrugge il Castello di Lavagna mentre nell’anno avanti aveva costrutto quello di Rivarolo.

La 8° Compagnia Porta Nova.

Nell’anno 1134 avvengono nuove modificazioni nell’organizzazione governativa pel fatto del continuo accrescimentodella città. La modificazione sta in questo che la 7° Compagnia (Borgo) si sdoppia formando – con parte di se stessa ed altre aggiunte – l’8°, detta di Porta Nova, ma senza alcun assegnazione di stemma per la medesima. (In seguito all’aggruppamento delle 8° Compagnie a due a due è possibile che il gonfalone della prima d’ogni gruppo di due compagnie abbia servito anche per la seconda. Da ciò forse il non esservi alcun ricordo storico dei colori che potrebbe aver adottato la nuova 8° compagnia). Ed in questo stesso anno si ha la prima memoria certa del Molo (Il Molo dovea certamente esistere anche prima, ma informe quasi più una gran piazza per l’approdo che un molo vero e proprio). In seguito poi alla numerazione pari delle compagnie, si trova utile di unirle in 4 gruppi, col appajarle nell’ordine seguente:

1° Palazzolo e Piazzalunga (I e II)

2° Maccagnana e S. Lorenzo (III e IV)

3° Porta e Zuziglia (V° e VI°)

4° Borgo e Porta nuova (VII e VIII).

1135-1139. Pace

Nel 1135 pace profonda.

Nel 1136 vien presa, non è detto come né dove, una nave saracena.

Nel 1137 qualche leggera avvisaglia con i Saraceni.

Nel 1138 e 1139 pace su tutta la linea.

Nel 1140. Presa definitiva e assoggetamento di Ventimiglia. Combattimento tra due galee genovesi e due galee gaetane (Comune di Gaeta) con presa di una di queste presso Monte Argentario.

Nel 1141. Grave incendio in città in Chiesa di San Giacomo.

Nel 1142. Il Cintraco. Vien creato il magistrato del Cintraco, specie di pubblico banditore, ma di rango superiore, che la Cavalcata Storica del 1881 ha rappresentato a cavallo con seguito di Littori e con tanto di … [sic] ippogrifo (!) sul petto, arma del Comune sostituita dalla croce già da … [sic] 44 anni! Nondimeno, e limitandoci a cambiare l’ippogrifo antico nella croce medesima, noi ne profittiamo per combinare con tali elementi la Tavola XXI [Questa Tavola non è presente nel sito della NYPL] onde aver così campo di aggiungere qualche altro milite o cavaliere di nobile casato, a quelli che sono stati dati dalla Cavalcata suddetta alla quale mancano – cosa assai singolare – i Doria e gli Spinola!!!

Quest’assenza delle due principali famiglie di Genova nella rappresentazione di un tratto di ben 45 anni di storia (1097-1142) se può essere in qualche piccolo modo giustificata per i Doria che non vennero sulla scena delle guerre di religione altro che molto tardi, è assolutamente inescusabile per i Spinola che diedero uno dei loro – Quinto Spinola – alla prima Crociata ed in seguito a tutte le vicende militari di Genova!

Passano gli anni 1143, 1144, 1145 (in quest’ultimo ha luogo l’erezione del Castello di Sestri (di levante o di ponente?)) senza fatti d’importanza e viene il 1146 ricco invece di bei fatti di guerra contro i Saraceni.

Ripresa delle guerre contro i Saraceni. Spedizioni di Spagna 1146-1148.

Infatti nell’anno 1146 una spedizione di 22 galee, con 6 golabis (navi a piccolo scafo) e molte macchine si avvia verso l’isola di Minorca (Baleari) tenuta dai Mori. Comanda la spedizione il nostro storico Cafaro di Caschifellone, il quale tiene a suo aiutante Oberto Torre ed ha un buon esercito di soldati, armati di elmi e loriche e composto di “equis, militibus et bellatoribus viris” fra i quali 100 a cavallo. Questa distinzione di “equis” e “militibus” che ci appare per la prima volta, ci fa comprendere che ormai la parola “milite” non vuol più dire soltanto “uomo di rango”, ma anche uomo a cavallo.

La spedizione approda al porto Fonelli [Fornelli] e lasciate in custodia di pochi le navi s’inoltra per la via di terra e dà il guasto al paese per quattro giorni. Tornata sotto le tende davanti a Minorca vi è assalita da 300 Saraceni a cavallo seguiti da molti fanti, ma essa riesce a respingerli e disperderli, dopo di che Minorca è presa e l’intiera spedizione torna a veleggiare verso l’ovest e pone le àncore davanti ad Almeria sulla costa sud-orientale dell’Andalusia. Almeria tenuta dai Mori essa pure, vuol riscattarsi con denaro e si addiviene agl’accordi; ma, intanto, di notte tempo il Re fugge con pochi seguaci; la popolazione rimasta in città gliene sostituisce con altro, il quale manda soltanto una parte del denaro convenuto, promettendo a più tardi il resto; ma i Genoesi stanchi d’aspettare cominciano l’assedio della città battendola cum gatis et macchinas (!) et manganibus [mangano: macchina d’assedio medievale] fino all’inverno, giunto il quale e non compiuta ancora l’opera loro, la interrompono e ritornano a Genova, carichi di spoglie nemiche.

Guerre coi Mori di Spagna (1147-1148)

Nel 1147 nuova spedizione su Almeria condotta da Ansaldo Doria e composta di ben 63 galee con 163 (?) navi onerarie, un totale di 226 navi che ci sembra sproporzionato, specialmente per la grande prevalenza del numero delle “onerarie” su quelle “da combattimento”; ma così è scritto e noi non osiamo cambiare alcun che allo “scritto”. Anche questa spedizione mette a terra molte truppe le quali – divise in 12 compagnie di 1000 uomini ciascuna con molti e diversi vesilli [vessilli], marciano al suono delle trombe. Questa preziosa descrizione del Cafaro non ci mette però in grado di dedicarle una tavola perché, disgraziatamente, egli non dice quali imprese rappresentassero codesti vessilli, se, cioè, quelle delle “compagnie”, quelle della città o quella dei singoli comandanti. Probabilmente un poco di tutto, ma noi, dovendo lavorare di fantasia il meno possibile, ci asteniamo dal darne la rappresentazione. Così pure ci asteniamo dal rappresentare Almeria così come la rappresenta in margine il Cafaro medesimo, temendo di cadere in qualche grave equivoco di linee e daremo fine al racconto di questa importante spedizione col dire che essa fu fatta a favore del Re Alfonso VIII di Castiglia, che ebbe il suo pieno coronamento nell’anno medesimo colla presa della città e che sembra che a tale impresa abbiano partecipato anche i Pisani, ciò che potrebbe giustificare il quantitativo delle navi che a noi sembra invero strabocchevole.

Nel 1148 vien presa ai Mori anche Tortosa in Catalogna.

Dal 1149 al 1153, inclusive, pace profonda.

Nel 1154 guerra con un marchese di Loreto nella quale i Consoli di tale anno che è il “XXXIV Consolato” màrciano, cum “militibus et balistariis et sagittaris multis” ciò che indica che vi era precisa distinzione fra balestrieri ed arcieri.(Nel 1158 si parla in cronaca di “soldaderios balistarios et archiferos” e vedremo più tardi, nel 1172 che la distinzione và più oltre ancora colla definizione che s’incontra nella cronaca dello stesso anno di arcieri a piedi ed archiferi che per noi s’intenderebbero arcieri a cavallo).

Nuovo ingrandimento della città (1158-1159).

Quindi nuova pace dal 1155 al 1158 nel qual anno si dà principio all’ampliamento della cinta muraria della città, ampliamento che si rivolge tutto al nord ovest come si vede nel qui annesso schizzo [Schizzo mancante]. Nel 1159 continua il lavoro dell’ingrandimento della città, mentre i Consoli emanano un editto col quale si vieta a chiunque di portar armi indosso (coltelli a punta) se ciò non sia per servizio pubblico (propriamente come ora). Nel 1160 Porto Venere diventa una colonia fortificata e si riattano e rinforzano nel contempo le fortificazioni di Voltaggio e Pallodio [?] ed in città si atterrano molte case lungo la riva del porto per formare molti scali; nel 1161 si rinforzano nuovamente le mura dei castelli di Voltaggio, Pallodio, Flacone, Rivarolo e Porto Venere e – finalmente, e pur troppo – nel 1162 si riaccende la guerra con Pisa, la quale, peraltro, dura un sol anno, ma nella quale s’impiegano da entrambe le parti le “Saettie” (“Sagittaes”), piccole navi a remi, lunghe e sottili e – fino a quest’epoca – adoperate solo per piccolo cabotaggio, per lusso e per diporto. La nostra Tavola XXII rappresenta una di tali “saettie” nell’atto di scagliarsi all’abbordaggio di una supposta imbarcazione nemica [Questa Tavola non è presente nel sito della NYPL].

Fine della Cronaca del Caffaro e principio di quella dell’Oberto.

Nel 1163 cessa – crediamo per morte del dettatore – la cronaca del benemerito Cafaro di Caschifellone e nel 1164 le subentra quella di Oberto.

Piccola guerra per terra e per mare e gravi sedizioni in città (1164-1190).

Dal 1164 al 1190 inclusive la storia della Repubblica di Genova presenta ben poca varietà di fatti consistendo essa in una lunga serie di guerre annuali con Pisa, in qualche guerricciola coi signorotti della montagna (Obizzo Malaspina e figlio feudatari della Magra 1172 e 73) ed in lunghe e gravi dissensioni intestine, convertitesi assai spesso in lotte sanguinosissime, a por termine alle quali (od almeno tentare di porvi un termine) la Repubblica chiama a suo governatore un personaggio forestiere, un Podestà, da cambiarsi annualmente.

Abbellimenti e comodità introdotte nel Porto (1163-1164).

Prima però che questa nuova forma del governo abbia il suo principio (ciò che avverrà nel 1191) fa d’uopo il ricordare fugacemente che nel 1163 si cominciò a dare una maggior ampiezza e comodità al porto, atterrando molte case e costruendo molti scali, fra i quali particolarmente quello tra S. Giovanni e “bocca di Bò”, (cioè “foce di molino”) e del quale esiste tutt’ora un ricordo nel “vicolo, o carrubbio, dello scalo” che da via di Pre scende in via Carlo Alberto, venti o trenta passi più a levante dell’attuale “Hotel Firenze”.

Tavola XXIII. La città cogli ingrandimenti (1159) ed il porto cogl’ultimi abbellimenti (1169-64). Navi da carico e da guerra e galee (1155-91). In alto da sinistra. Colle di Montesano (Castelletto). Monte Fasce (al dilà del Bisagno) m. 833. Campanile di S. Siro. Porta dei Vacca. Torrioni di Porta Soprana. S. Lorenzo. Darsena. Campo Sarzano. Avanzi del Castello. Torre Embriaci. Molo.

La nostra Tavola XXIII ne dà la veduta presentando quasi in primo piano il detto scalo e mostrando nello sfondo la città ancora così ristretta com’era allora, ma tuttavia sulla buona strada per ingrandirsi. E siccome alla fine del quasi trentennio 1163-1190 ebbero luogo spedizioni marittime, così abbiamo tratto partito da questa Tavola per dimostrare nella medesima anche alcuni tipi di navi, quali ci sono stati tramandati dai cronisti Caffaro e Oberto e quali servirono nella spedizione di soccorso a Tiro 1187 ed in altre antecedenti degli anni 1159, 1162, 1167, e 1191.

Nella Tavola XXIV [Questa Tavola non è presente nel sito della NYP] poi presentiamo il sistema difensivo dell’epoca, quello che si applicava specialmente alle porte di città fiancheggiate da torri (a questo tempo lo erano quasi tutte). L’esempio che ne diamo è quello della Porta di S. Andrea, detta poi “Sopranea” e che esiste tuttora per quanto mascherata da case) a capo della via “Vicodritto Ponticello” che dal “Largo di S. Andrea” discende a “Piazza Ponticello” a pochi passi dalla magnifica “Strada 20 Settembre”. Il disegno della costruzione di difesa non è nostro ma – crediamo – della “Società Ligure di Storia Patria” che lo ha esumato desumendolo dallo studio diligente dei fori che ancora si vedono praticati nei muri dei torrioni e della porta.

Tavola XXIV

Visite e passaggi di Sovrani e Principi e di di Crociati (1177-1190).

Negli anni 1177, 78 ed 80 Genova fu onorata dal passaggio della figlia del Re d’Inghilterra che andava sposa al Re di Sicilia; dalla visita amichevole dell’Imperatore Federico Barbarossa accompagnato dall’imperatrice e dal figlio; ed, infine, dal passaggio della figlia del Re di Francia, sposa all’imperatore di Costantinopoli. Negl’anni 1189 e 90 vi fu grande passaggio di Crociati per la Palestina e poscia quelli, successivi, del Re Filippo Augusto di Francia e Riccardo Cuor di Leone “Re d’Inghilterra”, incamminati allo stesso santo e nobile oggetto.

I Podestà (1191 e seguito).

E finalmente avvenne il cambiamento nel Governo coll’introduzione dei Podestà, al primo dei quali: Manegoldo (1191), dedichiamo la Tavola XXV.

Tavola XXV. Il Podestà Manegoldo Tetocio in giro per la città nel 1991.

ed al sesto: Marullino (1196), la Tavola XXVI [Vedi Tavola XXIV]. I Podestà dovevano essere forestieri, duravano in carica un anno solo, percepivano stipendio e conducevano seco loro due giudici, due “militi” (cavalieri) e molti seguaci e servi, tutti del loro luogo natio. Però questo espediente del …

Tav. XXVI. Il Podestà Drudo Marullino. Da un disegno a colori nella cronaca dell’Oberto 1196. [Oberto Cancelliere continuatore delle Cronache Genovesi del Caffaro]

[Il manoscritto si interrompe qui a pagina 36]

*     *      *

1099-1163

CAFFARO DI CASCHIFELLONE

1099-1148
Annales genuenses
Presa di Almeria e di Tortosa
Notizia dei vescovi

1149-1163
Della liberazione d’Oriente
Storia del Regno di Gerusalemme

Si riporta dall’edizione degli Annali genovesi di Caffaro e suoi continuatori  con la traduzione in italiano di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi e di Giovanni Monteleone pubblicata nel 1923 a cura del Municipio di Genova.

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1099-1100
Presso che al tempo della spedizione di Cesarea, un po’ innanzi, cominciò dunque nella città di Genova un reggimento di tre anni per sei consoli. Furon essi: Amico Brusco, Mauro di Piazzalunga, Guido di Rustico di Reso, Pagano della Volta, Ansaldo di Brasile, Buonmatto di Medolico; e ciascuno, console cosi del Comune come de’ placiti, cioè di giustizia, per quei tre anni. A metà di lor ufficio, sull’entrar di Agosto, xxvi galee e vi navi, salparon da Genova per Gerusalem: e venute con l’esercito al porto di Laudicea colà svernarono. E trovando i Genovesi che quella parte di Oriente nè a Gerusalem più aveasi re, nè principe ad Antiochia, la guardarono, finché, come ordinava il legato pontificio, ed essi stessi persuadeano, un re in Gerusalem, un principe in Antiochia poteron riporre. Pertanto venuti tosto con il legato a consiglio, mandaron per nunzii a Baldovino in Edessa, e a Tancredi in Tiberiade, che ne andassero a loro. E Tancredi, andò, senza indugi; e come voleano il legato e i Genovesi, il principato di Antiochia si addossò. Più tardi, poi, Baldovino, con cc cavalieri e con ccc fanti si portò da loro, nel porto di Laudicea; e colà, il legato e i Genovesi esortandolo ad accettare il regno di Jerusalem cosi vi accondiscese dicendo:
«Purché mi abbiate promesso che questa estate m’avrò il vostro aiuto nel prender le due città dei Saraceni che mi voglia, prometterò di andar all’atto a toglier quel regno».
E subito i Genovesi dieder fede che quanto il re chiedea avrebber fatto; al che, tosto, Baldovino e diè parola di accettar il regno e:
«Comincerò io – aggiunse – con la fiducia in Dio e in Voi, a far il viaggio per toglierlo» e dopo tre dì s’incamminò coi cavalieri e coi fanti che dissi. Poiché poi, s’andava appressando alla stretta dei monti presso Baruti [Beirut], s’avvisò di aver di contro un tre mila Turchi che vi si erano allogati; e conoscendo che non potea sforzar il passo saltò, in armi, a cavallo, e fìnse di dar volta. E subito quel grosso nerbo di Turchi discese dalla stretta avvallando. Ma poiché Baldovino conobbe che eran in aperta campagna ridrizzò, gagliardo, la fronte e le armi con tutti i suoi cavalieri contro que’ nemici di Dio: e i Turchi al veder che ei rivenìa con si fiero aspetto, voltate le spalle, gittaron le armi prendendo a fuggir su cavalli verso la foce. Ma Baldovino, cavaliere di Dio, con mortale impeto a lor dietro: e prima che a quella giungessero quasi tutti li lasciò morti pe’ campi; e lor armi, lor cavalli, ogni loro cosa si prese, e una porzion, poi, come vuol l’uso di guerra, partì ai suoi cavalieri e ai suoi fanti. E con questo trionfo n’andò a Gerusalem, dove fu accolto con gioia dal patriarca e da tutti gli abitanti: posto sul trono ricevè la corona, quindi pel primo reggendo con virile animo quel regno per xvii anni.

1101
I Genovesi, poi, mentre svernavano in Antiochia, s’ebber distrutto luoghi e castelli molti de’ Saraceni; ed entrando la quaresima di là si partirono con le galee le altre navi, l’esercito tutto, e lungo quelle città marittime, che allora pur erano de’ Saraceni (e n’ ebber desse assai morti) si condussero in fino alla Città di Caifa, ove, per furia di mare, trassero sulla spiaggia lor legni. E mentre colà soprastavano, in una notte, l’armata di Babilonia, che era in quaranta galee, tra una grande fortuna, costeggiando quella città, raggiunse in fretta il porto di Acaron (Cesarea). Pur in mare riposer tosto la notte stessa una parte di lor galee i Genovesi, ma nell’inseguirla furono a vicenda separati dalla tempesta. E resi di buon mattino, la domenica delle Palme, devotamente i lor servici a Dio, il dì seguente con tutte lor galee fecer viaggio per Giaffa. Come veniano appressandosi ecco re Baldovino su due saettìe con trombe e bandiere molte venir loro incontro, un miglio dalla città, a sollecitarli graziosamente che non tardassero, come avean promesso, di porsi a servir il reame di Jerusalem, cioè di Dio. E cosi i Genovesi venuti a Giaffa col re, le galee tutte trassero a terra, e il mercoledì santo s’incamminarono con lui a Gerusalem, dove il sabato seguente, che era il santo, si recarono al Sepolcro del Signore, aspettando digiuni un dì e una notte, che colà scendesse il fuoco di Cristo. Nè questo scendendo quel dì e la notte dopo, così, senza lumi, se ne stetter nella chiesa del Sepolcro, spesso tutti ad una voce gridando:
Kyrie eleison, Kyrie eleison.
[Iherusalem]
E venuto il mattino (era il dì della Risurrezione) il patriarca Damberto, che avea seco Maurizio vescovo di Porto e legato pontificio, tenne questo discorso al popolo:
«Datemi ascolto, fratelli, se pur vi piace. Mesti io vi veggo perchè ancor il Signore non ha mandato, come usa, il suo fuoco dal cielo: nè c’è da dolersene, bensì da rallegrarsi chè Dio non compie i miracoli per quei che han la fede, ma per quei che non l’hanno; e finché questa santa città era in poter degli infedeli ottimo fu che Dio col compir il miracolo richiamasse gli increduli alla fede; ora poi che essa è in poter de’ fedeli non v’ha necessità di miracolo. Ma poiché dubitiamo che tra voi pur sian molti, o punto istruiti o increduli della fede cristiana, noi pregheremo Iddio che per l’ignoranza o l’incredulità di questi infedeli ei ci mostri il fuoco suo come al solito. Perciò andiam tutti con divozione al suo tempio, e colà quanto più il Signor nostro ci faccia vedere di esser tardo a esaudirci, altrettanto più lungamente aggiungiamo noi preghiera a preghiera fino a che abbiam impetrato ciò che chiediamo. Dovete saper, o fratelli, che Dio una tal grazia con queste parole promise al suo servo Salomone allorché questi ebbe compiuto il tempio del Signore:
«Chiunque ponendo il piè nel tempio chiederà con il cuor mondo un qualche spiritual dono Dio promette di concederglielo».
Così detto il patriarca in compagnia del legato, con Baldovino e con gli altri cristiani che li seguiano a pié scalzi, si recarono con divozion grande al tempio, colà a lungo con umile accordo di bocche e di cuori, pregando Iddio perchè il fuoco che al tempo degli infedeli una volta all’anno solea scender nel Sepolcro, ei per misericordia volesse ancor in quel dì della sua Risurrezione, mostrar ai suoi fedeli. Pertanto, dopo aver pregato nel tempio, essi al sepolcro di Cristo ritornaron divotamente, e tosto il patriarca entrò per tre volte, con il legato, nell’edicola del sepolcro, e alla terza in una di quelle lampade scese il fuoco. E cosi tutti allietati cantarono ad una voce il Te Deum laudamus e ascoltata messa solenne se ne andarono a lor ospizio a rifocillarsi. Frattanto nell’interno della chiesa in una delle lampade fuor del sepolcro il fuoco in cospetto di molti all’improvviso brillò; e risonando la voce di tanto miracolo per la città tutti accorsero, e mentre ciascuno stava guardando in alto, le lampade che pendeano, fuor dal sepolcro, in giro alla chiesa, si andarono una dopo l’altra accendendo per un certo vapor di fuoco che su friggea tra l’acqua e l’olio raggiungendo lo stoppino con uno scoppiettio di tre faville onde quel mettea la fiammella. Così, in chiaro modo, alla presenza di tutti, il dì della Risurrezione, dopo nona, il fuoco scese in xvi lampade. E Caffaro che fe’, di questo, dettato, v’era presente, ciò vide, e ne restò quindi testimone, onde ancor oggi ei fuor di ogni dubbio che così sia stato, qui afferma.
I Genovesi poi, nella settimana delle feste, pellegrinarono al Giordano, e dopo col re tornarono a Giaffa e tenuto consiglio si condusser su Azot [Ashdod], che guerreggiando presero in tre dì. E poi, di maggio si rivolser contro Cesarea e tratte in secco lor galee, gli orti ne distrussero in fin alle mura, quindi dandosi a costruir castelli ed altre macchine d’assedio. Pel che due Saraceni usciron di città e così parlarono con il patriarca e col legato della Cuna:
«Signori, voi che siete maestri e dottori della legge di Cristo perché comandate ai vostri che ci uccidano, e che rubin la nostra terra mentre sta scritto nella vostra legge che alcun non uccida altri fatto a somiglianza di Dio? E se è vero che ciò sia scritto nella vostra legge e che noi siam pur fatti a somiglianza del vostro Dio non c’è dubbio, voi contro la legge vostra operate».
A costoro, dopoché molte altre cose ebber aggiunto diè il Patriarca questa risposta:
«Ben è ver che la legge nostra ci vieta di rubar o di uccidere: nè ciò vogliam far noi, o comandarlo. Però questa città non è vostra; bensì già fu del Beato Pietro, e a lui spetta chè i vostri il vicario suo ne cacciarono colla forza. E se ora noi, che pur siamo vicarii del Beato Pietro vogliamo riprender la città sua, non vogliamo, è chiaro, rubar il vostro. Circa l’uccidere poi cosi vi rispondiamo: Secondo giustizia in verità si deve uccider quei che è nemico alla legge di Dio, e contr’essa, a sua distruzion, combatte. Se questi venga ucciso non è contro la legge di Dio perchè Dio disse: di me fa vendetta e ti ricompenserò; percuoti ed io ti assolverò; nè c’è chi possa fuggirmi di mano. Perciò rendeteci questa terra del Beato Pietro e vi lasceremo partire salvi di persona e di roba. Che se ciò non farete Dio vi colpirà di sua spada e a diritto sarete uccisi. Ed or andate e ripetete ai vostri maggiori quanto avete udito».
Ed essi tosto tornarono in città e all’emiro signore dei guerrieri, e al cadi capo de’ mercanti ripeteron per ordine le cose udite. Volea il cadì render la città, ma l’emiro disse:
«Non io lo voglio; ma bensì le nostre spade proviam con quelle de’ Genovesi e se Maometto ci aiuta, li respingeremo dalla città con lor disonore».
Come poi i cristiani conobbero la superbia saracena, tosto il Patriarca disse ai consoli:
«Radunate il parlamento».
E così fecero. E nel parlamento il Patriarca tenne al popolo un discorso:
«Fratelli – egli disse – giacché per servir Dio e il Santissimo Sepolcro siete fin qui venuti, è bene, è giusto che cosi ai comandi di Dio come agli ordini dei suoi fedeli, voi prestiate sincera obbedienza. Adunque Iddio mi manda a voi e per mia bocca vi comanda che in sul mattin di venerdì, che è il giorno della passion sua, nel quale per la vostra redenzione ei sopportò la temporale morte, ricevuta l’ostia, non con castelli o con macchine ma soltanto colle scale delle galee principiate a salir le mura della città. Chè se ciò farete col pensiero di prenderla non pel valor vostro, ma per voler di Dio, io vi do’ profezia che Ei la darà in poter nostro prima dell’ora sesta; e gli uomini, le donne, le ricchezze, e tutte le cose che v’ha dentro».
Finito il discorso gridaron tutti ad una voce
«Sia, sia».
E allora Guglielmo testa di maglio [Guglielmo Embriaco], console dell’esercito genovese si alzò e disse:
«E su, su or voi da bravi, cittadini e guerrieri di Dio, ad adempir i comandi che il Signore v’ha pur ora dati per bocca del patriarca. Questi gli ordini: e voi datecene giuramento: venir voi, domattina dopo messa, senza indugi, e senza macchine e castelli, ma soltanto colle scale delle galee, dietro me, al muro della città, chè io, se Dio lo voglia, comincierò primo a salir il muro, e voi certo, quando mi vediate montar su, non tarderete a imitarmi».
E a giorno chiaro, poi, quanto ordinò si dieder con virile animo ad eseguire: e poi che furon contro il muro tutte le loro scale appoggiate, Guglielmo capo di maglio, console, mentre s’avendo appena corazza elmo e spada, saliva con molta compagnia dietro, verso il sommo del muro, solo ne restò in sul ciglio: chè la scala si ruppe, e quanti lo seguiano precipitarono. Avea quella città doppia cinta: e già tutti i Saraceni fuggiano verso il muro interno dietro cui si raccoglieano, e il console non vedendosi dietro compagno alcuno, si andava raccomandando per miglior consiglio a Dio: ed ecco ei tosto su lanciarsi per una torre: e mentre ei salia, un Saraceno, fuggendosene, gittarsi su lui, e l’un l’altro avvinghiarsi. Gridogli tra la stretta il Saraceno:
«Lasciami: è pel ben tuo, chè tu potrai più presto salir sulla torre».
E Guglielmo lasciollo e in fretta montò lassù. E dal sommo si sporse facendo segno colla spada e gridando ai suoi che si ristavano a piè del muro:
«Via, salite, e la città d’un solo impeto prendete».
E tutti allora s’inerpicarono, con eguale audacia per il muro, e di lassù balzarono a inseguir i Saraceni che fuggendo verso la cinta di mezzo cadean morti sotto lor furia. Altri Saraceni intanto da quel loro rifugio invocando Maometto ché non lasciasse lor città a’ cristiani presero a resister con dardi e con spade. Ma i Genovesi, che s’avean sull’omero destro il segno della croce, salendo su’ un albero di palma che coi rami s’incurvava sulle mura, irrupper in quel punto, con lor ferri, e il nome di Cristo sulle bocche, ne’ Saraceni. E subito questi spade ed armi gittando ripresero a fuggire verso la Moschea. Ma i Genovesi primachè vi giungessero quanti combatteano o sulle mura, o per la città o a canti delle vie, abbatterono morti. E allor tutti, in moltitudine, (i cristiani) corsero col patriarca alla Moschea: dove, al vederli, un migliaio di vecchi mercanti che su quella torre eran saliti si diedero a gridar rivolti a Damberto [patriarca di Gerusalemme]:
«Signore promettici che non saremo uccisi essendo anche noi fatti a somiglianza di Cristo Dio vostro, e vi darem checché abbiamo».
E il patriarca allora chiestine i Genovesi, questi assentiron che egli promettesse loro la vita: e quindi tutti andando per la città si tolsero uomini e donne e ricchezze assai; e quanto v’era fu loro. E la gesta di quel dì, come avea predetto Damberto fu, col favor di Dio per l’ora sesta compita. Pochi giorni dopo Maurizio vescovo di Porto e legato del papa, ebbe, quindi, a consacrar più chiese in quella città e la maggiore, dov’era la Moschea e che adesso è sedia del vescovo in onor di S. Pietro; e un’altra in onor di S. Lorenzo. Ed ora in queste chiese e nella città tutta, cacciato da quel dì il diabolico Maometto, Gesù Cristo si adora e si onora.

Di poi i Genovesi con lor galee e l’esercito tutto si condussero presso Solino nella spiaggia di S. Parlerio, dove s’accamparono e dal bottino di guerra prima tolsero la quindicesima parte per le galee. Quanto poi rimase ripartirono tra ottomila uomini e a ciascuno per sua porzione toccarono xl.viii soldi pittavesi, e ii libbre di pepe, oltre le regalie che furon pur grandi ai consoli, ai piloti, e agli uomini scelti. Infine la vigilia di S. Iacopo apostolo intrapresero con le galee il viaggio di ritorno a Genova, cui con trionfo e con gloria giunsero nell’Ottobre. Correa l’anno 1101. Andarono i Genovesi con il primo esercito de’ Franchi contro Antiochia nel 1097; con l’esercito d’Africa nel 1088; col primo esercito di Tortuosa (di Catalogna) nel 1093; e allorché fu presa la città di Gerusalem, nel 1099.

1102
Nel febbraio poi, cominciò un altro reggimento di IV consoli per quattro anni. Si smise, nel primo di batter la moneta de’ vecchi denari pavesi, e andò in uso l’altra, nuova, de’ bruniti.
E per quei quattro anni consoli del Comune e de’ placiti furono: Guglielmo Embriaco, Guido di Rustico di Reso, Ido di Carmandino, e Guido Spinola. A lor tempo i Genovesi con xl galee salparono per Gerosolima: e tra molte altre vittorie, onde Genova s’avvantaggiò, preser combattendo Acaron e Gibelletto. La presa di Tortuosa di Soria accadde l’anno del Signore 1102, il primo di questo nuovo reggimento: ne fu il 1103 il secondo e terzo il 1104, e quarto il 1105.
1106
E compiutisi questi quattro anni un altro reggimento si ricominciò di quattro consoli per ancor quattro anni così per il Comune come per i placiti. Furon questi consoli: Mauro di Piazzalunga, Iterio, Guglielmo Malàbito e Ottone Fornario. Salparono, a lor tempo, i nostri per Gerusalem, con lx galee, e approdati a Tripoli vi sbarcaron con molti castelli e altre macchine di guerra, prendendo, senza combattere quella città e l’altra di Gibello nelle quali si adoperarono perché si consacrassero chiese e il nome di Gesù Cristo fosse lodato (e invocato). Pur nel primo anno di quel reggimento Boemondo si portò colla sposa sua di Francia a Genova, donde passò in Puglia, ov’ essa un figlio gli generò a nome Boiamonte, ed una figlia; (e quei poi s’ ebbe alla morte del padre Antiochia).
L’anno del Signore 1106 fu il primo di questo reggimento, ne fu secondo il 1107; e terzo il 1108; quarto il 1109.

1110
E questo compiuto, un altro se ne ricominciò di quattro anni per iv consoli che furono : Guglielmo Bufeira il maggiore, Guido di Rustico di Reso, Gandolfo Rufo, Guido Spinola; e cosi pel Comune come pei placiti. Tocca a lor tempo la presa di Baruto [Beirut] e di Mamistra [antica città della Cilicia, oggi Tkish]; ed opra fu di xxii galee. E ciò fu l’anno 1110 del Signor nostro, il primo di quel reggimento. Durante il quale il Comune di Genova s’ebbe pur vittoria di Lavagna, di Pedenzuca, e d’altri, i cui signori gli si opponeano assoggettandoli in perpetuo.
[Castrum portus Veneris, Castello di Portovenere]
Gli stessi consoli, poi, a maggior possanza di Genova fecero costrurre il castello di Portovenere: e fu l’ultimo anno di lor consolato, correndo il 1113. Ne era stato il primo il 1110 del S. N. ; secondo il 1111; terzo il 1112; e il 1113 ne fu il quarto.

1114
E quindi ancora un egual reggimento di quattro anni per quattro consoli. Furono questi Oglerio Capra, Lamberto Guezo, Lanfranco Rosa, e Oberto Malaucello; tutti consoli cosi per il Comune come per i placiti. E l’anno 1114 del S. N. fu il primo di lor ufficio; secondo 1115, terzo il 1116; e il 1117 ne fu il quarto. Volgendo il secondo, nell’ottobre caddero d’uso i denari bruni della prima nuova moneta, e principiarono i nuovi bruniti più piccoli.

E pur venuto a termine questo reggimento un altro ne seguì d’ugual tempo; ma di quattro consoli eletti solo per i primi due anni, e di altri quattro per i due restanti. Quelli dei due primi furono Oddone di Garaldo, Iterio, Ido di Carmandino, Ottone Fornario; e Obizzo Musso, Gandolfo Rufo, Lanfranco Roza, Guido Spinola quei degli altri due seguenti: e tutti sì del Comune che de’ placiti. Nel prim’ anno di questo reggimento, ossia sotto il consolato di Oddone di Garaldo, Iterio, Ido di Carmandino, e Ottone Fornario, papa Gelasio (II) consacrò la chiesa di San Lorenzo: d’ottobre, e correa il 1118.

1119
E nel second’anno sotto i consoli stessi, cominciò la guerra di Pisa. Fecer sedici galee di Genova (era il maggio del 1119) prigioni i Pisani a Gallura con grosso bottino.
[tre fiori]

1120
Poi, nel prim’anno del consolato di Obizzo Musso e de’ suoi compagni (il quale fu il terzo di quel reggimento) i Genovesi, mossero contro Porto Pisano con lxxx galee, xxv gatti, xxviii golabii, iv navi grandi stipate di ogni sorta di ordigni guerreschi: e ancor più grande era l’esercito toccando i xxii mila soldati, e a cavallo e a piedi, tra cui cinquemila guerrieri che vestiano corazze ed elmi di ferro, d’un candor di neve. Tanto se ne atterrì l’esercito pisano accampato lungo la spiaggia che nel dì dei Santi Cornelio e Cipriano e dell’esaltazione della Croce si ridussero i Pisani a giurar pace sulla question di Corsica secondo la volontà de’ Genovesi. Una parte delle galee staccatasi dallo stuolo sali a Pisa, trasse fuor dal carcere i Genovesi che vi giaceano, e li riportò a Genova. E fu l’anno del Signor Nostro 1120.

1121
Nell’altro anno poi del Consolato di Obizzo Musso e de’ suoi colleghi, i Genovesi con un grosso esercito di cavalieri e di fanti valicarono i Giovi, preser combattendo Flacone, Chiappino, Mondasco e Pietra Becaria;
[Flaconus]
comprarono per quattrocento lire da Alberto Marchese di Gavi il castel di Voltaggio con il suo reddito. E fu nel 1121.
[Vultabium, Voltaggio]

1122
Da quel tempo cominciò il consolato di un solo anno. Ed io pur dirò di quei consoli, e quali furon del Comune e quali de’ placiti; e come di questi, secondo i tempi, variasse il reggimento; e quel che di prospero accadde per ciascun anno, onde la verità si sappia.
Primo di Castello, Caffaro, Oddone de’ Mari, Guglielmo Giudice di Drubecco, lo tenner primi, e al solito pel Comune e pei placiti. Prosperò assai la fortuna quest’anno a’ Genovesi: e de’ molti cattivi che presero guerreggiando nelle parti di Pisa mille e più gittarono nelle carceri di Genova: ed ebbero vittoria in un animoso duello di due galee contro altre due, e queste coi vinti, coi feriti, col bottino a Genova trassero. Prudenza ne fu la ragione chè nelle galee genovesi erano Gandolfo di Mazo, Rubaldo Naplono, Buonvassallo Censo, Guglielmo Rufo di Curia, e alcuni altri a loro eguali. Sotto questo consolato furono istituiti i clavigeri, gli scrivani e il cancelliere a miglior utile della pubblica cosa; e divampò l’incendio di S. Ambrogio. proprio l’anno del Signore 1122.
[ignis sancti ambrosii, incendio di S Ambrogio]

1123
L’ anno dopo (reggeano il secondo consolato di un solo anno Oglerio Capra, Guglielmo di Mauro, Iterio, e Guglielmo della Volta) papa Callisto (II) adunò in Roma nella chiesa di S. Giovanni in Laterano un concilio a cui chiamò Genovesi e Pisani a cagion di loro discordia. E colà dopo che fu per più giorni a lungo discussa tra cardinali, vescovi, ed arcivescovi, ma non composta, la questione della consacrazione de’ vescovi in Corsica, finalmente il papa avvedutosi che non riescano ad accordarsi, ne designò giudici dodici arcivescovi e dodici vescovi (e i loro nomi vennero poi trascritti nel privilegio de’ Genovesi) i quali dovessero secondo il diritto deciderla. Stando costoro a parte in certe stanze del palazzo, e tra loro non poco discutendo, si ridussero a consultare l’antico registro della Chiesa Romana in cui trovarono che i Pisani s’attribuirono contro il giusto l’arcivescovato di Corsica. Cosi tutti (xxiv) d’accordo, tornarono dinanzi al papa nella basilica del palazzo dov’eran raccolti un trecento tra vescovi, abati e arcivescovi; e Gualterio arcivescovo di Ravenna per consiglio de’ colleghi parlò così:
«No, signore, noi non ci siamo permessi di pronunciar una sentenza in cospetto tuo; bensì ti porgeremo un parere che potrà aver forza di sentenza. E questo si è, mio e de’ colleghi, che di qui innanzi l’arcivescovo di Pisa nè s’abbia a consacrar vescovi in Corsica, nè a brigar per tali ordinazioni».
E allora il papa si levò e disse:
«Arcivescovi, vescovi, abati, cardinali, convenite voi tutti in parer siffatto?»
E quelli a lor volta levandosi risposero tre volte:
«Placet».
E il papa:
«Ed io dalla parte di Dio e di S. Pietro, e per la mia lo approvo e lo confermo ; e domattina in pien concilio con voi tutti un’altra volta lo approverò e lo confermerò».
Ma l’arcivescovo di Pisa che tra gli altri vescovi sedea, poiché ebbe ciò udito, scagliò la mitra e l’anello ai piedi del papa gridandogli tra l’ira:
«Non io sarò ancor tuo arcivescovo».
E il papa tosto col piè riscagliando anello e mitra a lui:
«Fratello, hai fatto male e, senza dubbio, te ne farò pentire».
Quindi la mattina dopo in pien concilio ordinò che si pronunciasse la sentenza su quella consacrazione, e Gregorio diacono di Sant’ Angelo, che fu poi papa Innocenzo, la pronunciò tosto come i Genovesi l’hanno trascritta in lor libro de’ privilegi. E subito dopo i Pisani partirono senza tor licenza dalla curia; non cosi i Genovesi che toltala nei debiti modi tornarono poi a Genova con vanto ed onor grandi. E Caffaro in parlamento raccontò per ordine quanto si fe’ nel concilio, e i privilegi che se ne erano ottenuti, come egli stesso avea veduto e udito; egli che prima del concilio e dopo, per servir la città sua avea dimorato in Roma con sapiente onestà preparando quel che poi accadde. Quindi i Genovesi tanto più con fortezza perseverarono nella guerra contro i Pisani, finché, con grande vantaggio della città ebbero pace, come è scritto al consolato di quei che la conclusero. Correa il 1123.

1124
Nel terzo consolato di un anno furono consoli Guglielmo di Bombello, Rubaldo il vecchio, Bellamuto, Rainaldo Sàrdena e insièm del Comune e de’ placiti. A lor tempo vii galee genovesi ottennero vittoria de’ Pisani, lungo la costa di Castagneto, mentre xxii loro navi gravidi lor ricco carico, procedean dalla Sardegna tra la scorta di altre ix galee. Accadde che i Pisani alla sola vista dei Genovesi s’intimorissero e sulle galee cercassero un rifugio nel porto di Vado, abbandonando nella fuga le navi onerarie. E i Genovesi le presero e le trassero a Genova.
Pur molt’altre vittorie ebbero sui Pisani, e loro tolsero (in Corsica) il castel di Sant’Angelo. Era il 1124.

1125
E a queste ancor molt’altre vittorie seguirono, reggendo il quarto consolato di un anno (e si pel Comune che per i placiti) Arnaldo Batigato, Ottone di Gandolfo Rufo, Caffaro, Guglielmo Pevere. E di alcune di queste [tra le più memorabili] ora diremo. Corsero essi a caccia nell’estate il mare di Corsica e di Sardegna fino aPorto Pisano; preser navi, fecer bottino; molti addussero cattivi. S’imbatteron, tra la Corsica e la Sardegna, in una nave maggiore, con un grosso carico, e di una ciurma di quattrocento uomini munita; le tolsero la barca, molti de’ suoi le uccisero, per quattro dì in battaglia inseguendola, finché il mare infuriando li separò. Riuscì la nave a toccar l’Arno, ma colà si ruppe. Ma poiché quelle si furono ricondotte a Genova, i Pisani con viii delle loro usciron d’Arno vantandosi di voler correre in Provenza a cattura di Genovesi. Lo che risaputo, questi armarono vii galee su cui salì Caffaro, che allor era console, con molti uomini della miglior nobiltà, come Ido di Carmandino e Marino della Porta, e il marchese di Cafara e molt’altri.
[Corsica]
Lungo la Provenza, per Sardegna, Corsica ed Elba andarono essi a caccia delle galee di Pisa; e non avendole rintracciate, si indirizzarono su Piombino dove vennero a grossa guerra. Poser fuoco a una nave, grande, d’ottima arte, che ancora stipata di ingenti mercanzie era stata tratta sulla spiaggia sotto il castello; e pur tra l’incendio il castello e il borgo preser d’assalto, uomini, donne, fanciulli e bottino gittando su lor galee. Era la metà di settembre. Pur sotto gli stessi consoli in appresso, una galea di Pisa che s’era avventurata in Provenza, ad Aquila, fu catturata da quelle di Genova. E nè dopo, nè prima, alcun’altra di Pisa mai osò, durante quella guerra, venir in parte alcuna de’ Genovesi. Nè furon le sole vittorie. E sotto questo consolato furono istituiti i testimoni pubblici che debbono sottoscrivere i lodi e i contratti. E ciò l’anno 1125.
[barca]

1126
Seguirono, nel quinto consolato d’un anno, Ottone Gontardo, Guglielmo Porco, Bellamuto, Guglielmo Piccamiglio, consoli del Comune e de’ placiti. Andarono, quest’ anno, i Genovesi con un loro stuolo di galee e di gatti in sui Pisani, e all’Arno, piantate bandiere e tende sulla spiaggia, si batterono con cavalieri e con fanti di Pisa. Poi rivoltisi contro Vada [Volterra], quasi del tutto in loro impeto la spianarono, e il Castel di Piombino che era stato ricostrutto, ripresero per forza d’assalto. Di là passando in Corsica colla guerra, il Castel di Sant’Angelo che i Pisani avean ricuperato si ritolsero, e con trecento prigioni.
[castrum sancti angeli, Castel di Sant’Angelo]
E ancor molt’ altre volte l’anno stesso li vinsero. E sotto quel consolato la nave di Sant’Andrea andò rotta. L’anno 1126.

1127
Furon sei i consoli (pel comune e pe’ placiti) nel sesto reggimento di un anno, Iterio, il Marchese di Cafara, Guglielmo della Volta, Caffaro, Ottone de’ Mari, Rainaldo Sàrdena. Spedirono questi consoli xvi galee in Corsica a caccia di ix pisane. Scortele che fuggiano con fretta grandissima, riuscirono a torsene una, di nome Alamanna, che a lor trionfo addussero a Genova. E a questa, l’anno stesso molte altre vittorie aggiunsero. E questo fu grande e ammirevole: che per tutto quel tempo di guerra sempre i Genovesi prendessero, nella parte di Pisa, galee e navi, uomini e bottino, mentre i Pisani, nel tempo medesimo non vennero mai per quelle di Genova, fuorché con una galea, che, (come dicemmo) fu catturata in Provenza.
Furono consoli nel settimo reggimento di un anno: Ottone Gontardo, Guiscardo, Guglielmo giudice di Drubecco, Guglielmo Pevere, e sì del Comune che de’ placiti. Sotto quel consolato i Genovesi con un grosso esercito di fanti e di cavalli si portarono contro Montaldo e lo presero. Era il 1128.
[mons altus, Montaldo]

1129
E furon poi questi consoli (Ottone Gontardo, cioè, e i suoi colleghi) riconfermati pel seguente consolato che fu l’ottavo d’un anno. Accadde, sott’essi, che i Genovesi con xvi galee inseguissero altre di Pisa fino a Messina. Preser le armi i Pisani del luogo, insieme cogli uomini di quel borgo, contro a’ Genovesi ; e questi a lor volta combattendo entrambi, cacciarono a forza Pisani e borghesi fuor dal borgo di Messina fino al palazzo del re, onde n’ ebbero in potere il borgo e gli averi loro: ma poi per l’amicizia del re, e per le preghiere dei suoi inviati restituirono quanto aveano di quei borghigiani. E pur combattendo presero in Varrigatore una nave di Pisa, di ricco carico, che trassero a Genova: e fu di lire 10.000 il valor di quella preda. Cosi nell’ anno 1129.

1130
Tre furono i consoli del Comune nel nono reggimento di un anno: Rubaldo il vecchietto, Guglielmo della Volta, Bellamuto e quattordici pel magistrato de’ placiti: Guglielmo Piccamiglio, Zenoardo di Volpe, Guglielmo di Negro, Enrico Roza, Marino della Porta, Caffaro, Ottone di Gandolfo Rufo, Oglerio de Mari, Ansaldo Crespino, Donodidio di Iterio, Buonvassallo di Oddone, Guglielmo di Bonobello, Oglerio Capra, Albertone di Ansaldo Ite. Rendeano costoro giustizia a due a due per compagna in egual modo; Guglielmo Piccamiglio e Zenoardo in quella di Borgo, Guglielmo di Negro ed Enrico Roza nell’altra di Susilia; e nella terza, della Porta, Caffaro e Marino della Porta; e nella quarta, che è di San Lorenzo Ottone di Gandolfo Rufo e Oglerio de’ Mari. S’ebbe la quinta di Maccagnana, Donodidio di Iterio e Ansaldo Crespino; la sesta di Piazzalunga, Buonvassallo di Oddone e Guglielmo di Bonobello; e la settima di Palazzolo, Oglerio Capra e Albertone di Ansaldo Ite. Costoro amministravano la giustizia in questo modo: che movendo taluno d’una compagna querela contro alcun d’ un’ altra, ei dovesse recarsi dinanzi ai consoli di quei che s’avea a scolpare. E allora non erano in Genova che vii. compagne. Ma già sotto quel consolato i Genovesi si avanzarono fino a S. Romolo [attuale San Remo] ove costrussero una torre; e gli uomini di quella terra, quei di Bajardo e di Poipino, e il conte di Ventimiglia (che tradussero a Genova) poiché a’ Genovesi si opponeano, costrinsero a giurar perpetua fedeltà a San Siro e al popol genovese. Fu pure, alla presenza di papa Innocenzo (II) che allor si trovava a Genova, eletto Siro a vescovo della Città, e da lui stesso, quell’anno, consacrato in Sant’Egidio. E Innocenzo impose a’ Genovesi e a’ Pisani una tregua (a cui, da ambo le parti si diè fede con più giuramenti) finché ei non tornasse di Francia. E la chiesa di Portovenere fu pur da lui consacrata. Correa l’anno 1130.

1131
Furono consoli nel decimo consolato di un anno Guglielmo di Mauro, Ottone Gontardo, Oberto Usodimare, Guglielmo Pevere: e si del Comune che de’ placiti (l’anno 1131).

1132
E nell’undicesimo, con eguale ufficio, Buonvassallo di Oddone, Oglerio di Guido, Guglielmo, della Volta, Oddone di Gandolfo Rufo, Guglielmo, Piccamiglio. Armarono, sotto quel consolato, i Genovesi xvi galee a caccia di quelle pisane per Corsica e per Sardegna, e a Cagliari preser loro una nave: e fu costruito il castello di Rivarolo. Mossero quei di Lavagna guerra ai Genovesi, e i Genovesi si fecero con l’esercito contro Lavagna tra molta ira di armi e sterminio. (fu l’anno 1132).
[Rivarolus, Rivarolo]

1133
E tre per il Comune e tre per i placiti i consoli del dodicesimo reggimento; i primi: Oberto Torre, Lanfranco il Vecchietto, e Ottone Cannella; gli altri: Guglielmo Bufferio, Buonvassallo di Tetoica, Oberto di Caschifellone. Sott’essi, a Corneto [Grosseto], si stabilì la pace tra Pisani e Genovesi, e Siro vescovo di Genova si ebbe da papa Innocenzo la dignità arcivescovile con il palio e la croce. Pur allora i Genovesi si condussero con viii galee, in aiuto di re Lotario e di papa Innocenzo, a Roma: e preser torri parecchie, e molto usaron di guerra finché i Romani si ridiedero al re ed al papa. E un’altra volta quest’anno ruinarono i castelli di quei di Lavagna; nè ad essi concessero pace se non quando si rimisero alla mercè de’ consoli, promettendo di obbedir loro in ogni tempo. E così l’anno 1133.
[iniziale gotica]

1134
E tre i consoli del Comune, nel tredicesimo consolato di un anno: Ansaldo Mallone, Ansaldo d’Oria e Fabiano; ed otto de’ placiti: Boiamondo ed Ingo della Volta per le compagne di Palazzolo e di Piazzalunga, Elia ed Ingo Galeta per l’altre di Maccagnana e di San Lorenzo, Rainaldo Gosone, Guglielmo Lusio per quelle di Porta e di Susiglia [Siziglia], Ansaldo Sardena e Rubaldo Visconti per le restanti di Portanuova e di Borgo. E fu l’anno in cui nella città di Genova le compagne da sette salirono a otto. Il 1134.

1135
E tre ancora i consoli del Comune nel reggimento seguente, il quattordicesimo di un anno: Buonvassallo di Tetoica, Ido Gontardo, Ottone Cannella, e sei dei placiti: dei quali tre, rendeano giustizia per quattro compagne e gli altri tre per le altre quattro. E cioè: Buonvassallo di Buonuomo, Gionata Pedegola, Marchio Guaraco, per Palazzolo, Piazzalunga, Maccagnana, San Lorenzo; Oberto di Caschifellone, Giordano della Porta, Buonvassallo di Antiochia, per Porta, Susiglia, Portanuova e Borgo. E fu l’anno 1135.

1136
E tre pure i consoli del Comune nel quindicesimo reggimento di un anno: Ansaldo Mallone, Ido Porcello, Lanfranco Pevere, e sei per i placiti: Tancredi di Mauro, Guglielmo Garrio, Guglielmo di Negro, Lanfranco di Oglerio di Rodolfo, Ingo Clerico, Rubaldo Visconte: a tre a tre per metà delle compagne, come l’anno prima. Sotto questo consolato xii galee andarono contro Buzea, e presero una nave grande, di ricco carico, e Saraceni molti tra cui Bolfeto, fratello di Matarasso, che tradussero a Genova. E dalla preda a ciascuna galea toccarono lire dcc. Correa il 1136.
[nave galea]

1137
Ressero nel sedicesimo consolato quattro consoli il Comune: Boiamondo di Oddone, Guglielmo Burrone, Enrico Guercio, Guglielmo Lusio; e quattro il magistrato de’ placiti per metà delle compagne (iv): Elia, Guglielmo Barca, Fabiano, Guglielmo Brussedo; e altri quattro, Guglielmo Pezolo, Rainaldo Gausone, Buonvicino di Campo, Vassallo di Ghisolfo, per l’altra metà (iv).
E sotto questi consoli xxii galee s’avventurarono verso libeccio a caccia di altre xl del caid Maimono di Almeria, e poiché non poterono con esse imbattersi fecero loro preda non poche altre pur saracene, tornando con grosso bottino e vittoria grande a Genova. E fu nel 1137.

1138
E quattro consoli ressero il Comune nel diciasettesimo (xvii) consolato di un anno e pur quattro i placiti: Ansaldo Mallone, Buonvassallo di Oddone, Bellamuto, Lanfranco Pevere, quello; questi Filippo di Lamberto, Guglielmo di Negro, Ansaldo Crispino, Oberto Usodimare e fu nel 1138.

1139
E quattro il Comune e quattro i placiti nel xviii consolato. Il Comune: Guglielmo di Bonobello, Oglerio di Guido, Guglielmo della Volta, Guglielmo Pevere; i placiti: Elia, Ingo della Volta, Bojamondo, Guglielmo Rufo.
[uccello e tre cerchi]
Sotto quel consolato ebber fine i brunetti, e Corrado re tedesco concesse a’ Genovesi che battessero moneta in suo nome: portò a Genova il privilegio, suggellato con sigillo d’oro, il cancelliere del re che lo consegnò ai consoli. Era l’anno 1139.

1140
Pur quattro i consoli del Comune nel xix reggimento di un anno: Oberto Torre, Guglielmo Barca, Guiscardo, Guglielmo Malaucello; e quattro de’ placiti: Buonvassallo di Oddone, Guglielmo di Negro, Ansaldo d’Oria, Bellamuto. Reggendo essi, Guglielmo di Colomba entrò scrivano del Comune. E i Genovesi con un grosso esercito di cavalli e di fanti si condussero contro la città di Ventimiglia, e a vantaggio di Dio e di Genova combattendo la presero; e presero i castelli di tutto quel comitato, e gli uomini cosi della città come de’ castelli costrinsero a giurar loro fedeltà perpetua.
[vintimilium, Ventimiglia]
Vennero, nel tempo stesso, due galee di quei di Gaeta in Provenza a far preda su’ Genovesi e questi tosto due armandone a lor volta dieder loro caccia, e raggiuntele presso Argentiera, nella zuffa una ne presero, che cogli uomini, e la preda tutta che avean fatta, trassero a Genova. E fu nel 1140.

1141
E quattro i consoli del Comune nef xx consolato di un anno: Filippo di Lamberto, Guglielmo della Volta, Caffaro, Lanfranco Pevere; e quattro de’ placiti: Martino di Mauro, Marino della Porta, Guglielmo Lusio, Elia. Comprarono allora i consoli del Comune il Castello di Aimero e ai fratelli di Strucio lo infeudarono, e ai cugini suoi che ne accettaron con giuramento il debito di fedeltà in perpetuo.
[amelium, castello di Aimero]
E Oberto, essi reggendo, entrò cancelliere, e divampò un’ altro incendio in città: (era la vigilia S. Iacopo). Cosi l’anno 1141.
[ignis sancti iacobi, incendio si san Giacomo]

1142
E ancor quattro i consoli del Comune nel xxi consolato di un anno: Ansaldo Mallone, Buonvassallo di Tetoica, Oglerio di Guido, Bellamuto, e pur quattro de’ placiti: Ottone Giudice, Oglerio de’ Mari, Guglielmo Pezolo, Ceba. Spedirono questi consoli, sur una galea, due ambasciatori, Oberto Torre e Guglielmo Barca, all’imperator Calviano, il quale con un grosso esercito era allor ne’ dintorni d’Antiochia, (colà ei si morì lasciando l’impero al figlio Manuele). L’ anno 1142.

1143
E nel XXII consolato d’un anno ancor quattro consoli pel Comune: Buonsegnore Mallone, Guglielmo Porco, Guglielmo della Volta, Lanfranco Pevere; e quattro per i placiti: Ugo Giudice, Buonvassallo di Oddone, Oglerio Vento, Guglielmo Lusio. Furon, sotto questo consolato, le mogli private del diritto del terzo.
[tertie ablate, private del diritto del terzo]
E i Genovesi con quattro galee preser Montpellier, restituendolo a Guglielmo di quel nome, ed essi a loro volta si ebber, per le ciurme, mille marchi d’argento che egli avea tolto a’ Genovesi. E in sopra più ei loro commise il fondaco di Bruno in Tolosa, e da ogni gabella ne’ possessi suoi li esentò. E tornando s’imbatterono in una galea de’ corsari, che preser tosto. E fu l’anno 1143.

1144
E così pel xxiii consolato d’un anno; quattro i consoli del Comune: Tancredi di Mauro, Filippo di Lamberto, Guglielmo Vento e Bellamuto; e quattro de’ placiti: Elia, Guglielmo Giudice di Novaria, Caffaro, Oberto Spinola. In lor consolato andò una galea contro Milgorio fratello del conte di Barcellona, (conte ei pure) per le ruberie che esercitava su’ Genovesi: e venuto Milgorio a battaglia (contr’essa) sur altra sua, si fu morto da un balestriere. E ancor un’altra volta si dovette spedir in Provenza per una saettia di quei corsari, ai quali, presala, pertanto si cavaron gli occhi. Pur si mandarono legati a papa Lucio (II) i quali assai chiedendo, tuttavia ottennero che i Genovesi fossero per lui sciolti dall’obbligo di una libbra d’oro che doveano ogni anno alla curia di Roma.
[libra auri permissa Janue, lira d’oro concessa a Genova]
Ed oltre il dono di nuovi privilegi ei confermò a’ nostri ogni diritto che i Genovesi si aveano, o doveano aversi, nelle parti di Sorìa. Ciò l’anno 1144.

1145
Quattro i consoli del Comune nel xxiv reggimento di un anno: Ido Gontardo, Oglerio di Guido, Guiscardo, Guglielmo Lusio; e quattro de’ placiti: Ottone Giudice, Rodoano, Guglielmo Bufferio, Ceba. Si edificò allora il castello di Sestri. Così il 1145.
[Segestri, Sestri]

1146
E nel xxv pur quattro i consoli del Comune: Ansaldo Mallone; Guglielmo di Negro, Caffaro, Lanfranco Pevere; e pur quattro per i placiti: Bojamondo, Marino della Porta, Sismondo Moscola, Rinaldo Gobbo. Questi consoli, a lor tempo, spedirono xxii galee e vi golabii, e con essi macchine molte di guerra e legnami da alzar castelli di assedio, e cento cavalieri con lor cavalli, contro i Saraceni di Minorca e di altre terre finitime fin ad Almeria.
[minorica, Minorca]
Caffaro, console, fu a capo dell’armata, con Oberto Torre che ei si chiamò a collega nell’impresa. Come vennero a Minorca scesero con quanti uomini avean di guerra e coi cavalli: e con lor armi vestitisi di corazze e di elmi (e lasciata poca guardia alle galee in porto Fornello) in onde di cavalli e di fanti, lor molte bandiere alzando, trascorsero tutta l’isola; e per quattro di radunati prigioni e averi, devastati gli abitati, ritornarono a’ legni. E mentre colà presso riposavano sotto le tende ecco trecento cavalieri saraceni con valido sussidio di fanti giungere di celato quasi lor sopra; e i Genovesi tosto su cavalli balzando, ridar mano alle armi, e i Saraceni, senza resister, volte le spalle fuggire. E i Genovesi otto miglia inseguirli, travolger fanti e cavalieri, lasciarli per due parti morti ne’ campi. Si mossero, dopo, contro la città dell’isola, la presero, la ruinarono, e il bottino riposero nelle galee.
[Almaria, Almeria]
Quindi salparono per Almeria, sorprendendo in quel porto molte navi di traffico con lor copioso carico di mercanzie che riversarono nelle proprie. E sbarcati s’accamparono presso la città dandosi in fretta a levar gatti, petrere, ed altre macchine di guerra. Allora i Saraceni, atterriti, usciron a chieder pace, o almeno tregua, offrendo, a prezzo della pace, cento tredici mila marabotini. E per tutti risposero loro Caffaro e Oberto Torre:
«Non pace ma tregua vi potrem concedere finché non facciamo ritorno a Genova, se in sull’istante ci contiate i marabotini offerti».
E tosto i Saraceni ancor tra lo spavento soggiunsero:
«Tenetene intanto venticinque mila e per gli altri vi daremo otto ostaggi con l’elmiro, chè entro otto dì completeremo il conto».
E la notte stessa sborsarono i venticinque mila marabotini. Ma come pur quella notte i capi delle galee stavano riscontrando e dividendo quel denaro, il re d’Almeria con due legni fuggì pel buio e con ricchezze innumerevoli. Elessero al mattino un’altro re i Saraceni, il quale tosto mandò alle galee i promessi statichi e riconfermò il patto. Ma agli otto dì non pagando, i Genovesi sdegnatisi ridiscesero sulla spiaggia, donde, stando ventidue dì accampati sotto le tende delle galee, diedero coi mangani e coi gatti molto guasto alla città. Poi come il verno venia lor sopra, si ritirarono, tornando a Genova con trionfo e con il grosso bottino raccolto. E fu l’anno 1146.

1147
Ma l’anno dopo, nel xxvii [nel numerare i consolati, Caffaro salta un numero; passa cioè dal consolato 25° al 27°] consolato di un anno, (mentre sei erano i consoli pel Comune: Filippo di Lamberto, Oberto Torre, Oglerio di Guido, Baldovino, Ansaldo d’ Oria, Guglielmo Piccamiglio; e quattro per i placiti: Ugo Giudice, Ingo della Volta, Oberto cancelliere, Ansaldo Pizo) i Genovesi tornarono contro Almeria con grande stuolo di galee e di altre navi, e guerreggiando la presero a ruina e morte de’ Saraceni, come raccontano i libri e le storie de’ Genovesi, da quei composti che ne ebber certezza, come colà furono e videro. Onde, benché tutto che accadde non si possa ripetere, pur qui questo fuggevole cenno ne diamo. Il 1147.

1148
Nel xxviii consolalo di un anno pur sei ebbe consoli il Comune: Guglielmo Burrone, Ansaldo Mallone, Oglerio Vento, Giordano della Porta, Enrico Guercio, Lanfranco Pevere; e quattro il magistrato de’ placiti: Guglielmo di Negro, Fredenzone Gontardo, Marino della Porta, Obizzo Leccavello. Si prese quest’anno Tortuosa, e si comprò (pel prezzo di settecento lire) il castel di Parodi. Il 1148.
[Tortuosa, Tortosa]
[palodius, Parodi]

1149
E sei consoli pel Comune, nel xxix consolato di un anno: Guglielmo Vento, Guglielmo Pelle, Guglielmo di Negro, Caffaro, Oberto Spinola, Rubaldo Bisaccia; e quattro pei placiti: Guglielmo Bufferio, Guglielmo Stancone, Oberto cancelliere, Sismondo Moscola. E fu il 1149.

1150
Quattro i consoli pel Comune nel xxx reggimento di un anno: Ansaldo Mallone, Rodoano, Guglielmo Lusio, Lanfranco Pevere; e quattro pei placiti: Bojamondo, Fredenzone Gontardo, Anselmo di Caffara, Ansaldo Spinola. E fu nel 1150.

1151
E nel xxxi quattro pel Comune: Guglielmo di Bonomello, Guglielmo Stralando, Ottone Rufo, Boterico; e quattro per i placiti: Ugo di Elia, Ottone Bencerto, Oberto cancelliere, Guglielmo di Negro. E fu nel 1151.

1152
E quattro pel Comune (i consoli) nel xxxii: Tancredi di Piazzalunga, Rubaldo di Alberico, Rubaldo Bisaccia, Ansaldo Spinola; e pur quattro per i placiti: Guglielmo Bufferio, Guglielmo Stancone, Guglielmo Cicala, Corrado Rufo. E sotto questi consoli i macelli furon rimossi dalla città e ne fu posto uno al molo, l’altro in Suziglia. E fu il 1152.
[mutacio macellorum, spostamento dei macelli]

1153
E ancor quattro consoli pel Comune nel xxxiii reggimento: Martino di Mauro, Guglielmo di Negro, Enrico Guercio, Guglielmo Lusio: e ancor quattro per i placiti: Oberto cancelliere, Giovanni Malaucello, Ido Gontardo il giovine, Guglielmo di Riva Giudice. E fu il 1153.

1154
E così nel xxxiv reggimento d’un anno ressero quattro consoli il Comune: Oglerio di Guido, Ansaldo d’Oria, Oberto Spinola, Lanfranco Pevere; e quattro i placiti: Ottone Giudice, Fredenzone Gontardo, Gionata Crispino, Baldizone Usodimare. Pertanto allorché costoro vennero eletti, ben conoscendo come la città giacesse in sonno, quasi per letargo, (o a mo’ di nave che senza capitano si affida al mare) si intendeano, col ricusare il giuramento d’uso, di rifiutare il consolato. Ma, esortati per la remissione di lor peccata dall’arcivescovo, e costretti dal popolo al fin pel vantaggio della città vi si rassegnarono; e tosto che ebber giurato, studiandosi come potessero strapparla da quel sonno, si diedero sul momento all’opra: e col costruir galee in sua difesa (e allor ne avea difetto) e prendendo a pagarne i debiti i quali saliano oltre le lire quindicimila. Così che i cittadini, sorgendo un po’ dal torpore, promisero, per quanto poteano, con la piena obbedienza di giovar loro. E Caffaro che questo libro compose colle gesta de’ consoli che prima di quel tempo avean retto la città, onde quell’ottimo «principio» di costoro venga suggellato nella memoria de’ posteri, non volle celar questo: e perchè a tal principio segua egual fine ei quindi allorché si sta in preghiera ne leva ogni dì voti a Dio. Poi, questi consoli (e anche sepper mantenere la pace tra cittadini) al tempo di lasciar loro ufficio tutto compirono il pagamento de’ debiti cui avevano atteso fin dal principio; e molti lor disegni, a cui si erano studiati a beneficio della città lasciarono per iscritto ai consoli che dovean loro succedere, non avendo per la brevità di lor potere e per l’imbarazzo de’ pagamenti potuto metterli in opera. E poiché sopratutto è utile l’aver conoscenza del passato, il presente discernere, prevedere il futuro, perciò quanto di prospero e di avverso accadde per volger di fortuna in quel consolato, Caffaro si impose di far conoscere a’ contemporanei e ai posteri, come ei per mano toccò.
Al tempo di questi consoli, pertanto, Federico (I) re de’ Romani, e sempre augusto, calò in Lombardia, ricevè fedeltà dagli uomini tutti delle città e delle terre, e i tributi loro; e molto oprò che narrar lungo sarebbe.
[Fredericus, Federico]
Questi consoli mandarono a quel re due legati tra i migliori cittadini: Ugo arcidiacono e Caffaro lo scrittor di questo libro; e quegli con onor li accolse, apri loro l’animo su certi suoi segreti disegni che s’avea pel regno suo e per la città di Genova, cui promise di dar vantaggi sopra ogni altra d’Italia; e poi, senza alcun indugio li congedò, con modi dignitosissimi. E i consoli quei segreti propositi che i legati avevano risaputo dal re, contaron poi a suo tempo ai consoli che vennero dopo di loro eletti, lasciando a lor ragione di vagliarli.
[ignis nativitatis domini, incendio nel giorno di natale]
Pur in quel consolato, il giorno di Natale sul far di notte il fuoco appresosi a una casetta del Borgo, crebbe fiammando pel vicinato. Ed ecco i cittadini tutti, i fieri guerrieri, i forti tra ogni avversità, accorrere: e gli uni abbatter case e gittar acqua, gli altri portar in salvo le robe, riuscendo sì che solo una piccola parte del Borgo bruciasse e che nè il grosso nè la città fosser tocchi.
Pur in quel volger di cose erano fin in Sardegna salite ix galee de’ Mussemuti [Almohad Maghreb], una gente barbara che si era pur allora stretta di pace co’ Genovesi. Accadde che s’imbattessero in una nostra nave che ritornava da Alessandria con un ricco carico.
[nave da carico]
Chiesero quei barbari di chi fosse a’ nostri. Ma essi sdegnandosi della dimanda, per significarlo loro, armatisi di corazze e di spade balzaron, con audacissimo impeto, sulle galee e tagliando e uccidendo, a pena di lor ardire que’ Saraceni si ebber, essi stessi, quasi tutti la morte. Ma i Mussemuti poiché conobbero quelli esser Genovesi, tosto se ne attristarono e la nave, che avean preso, con il carico suo, pur non diminuito di un obolo, commisero al giudice di Cagliari, con preghiera di mandarla a Genova. E così fe’ quel giudice per amicizia de’ Genovesi. Onde creder si deve che allorché simili fatti accadono in una città, Dio voglia ammonire, toccando, i fedeli suoi, giacché egli ordina che si astengan dall’illecito, e che conoscan essi esser l’avvenuto a sola lor correzione.
[Nauli, Noli]
Nè è da lasciarsi in oblio quel che toccò al castello di Noli per opera de’ marchesi di Loreto. Avea dunque (e pur lo sappiano i posteri) il marchese Enrico di Loreto giurato di abitar Genova, obbedir la compagna, rispettar il lodo che i consoli avrebbero dato sulla discordia tra lui e quei di Noli. E i consoli udite le ragioni delle due parti la aveano con norme composta. Ma ei pur seguitando, dopo, come è costume de’ marchesi, più a viver di rapina che di giustizia, quella si rinnovò, e giacché egli avea giurato il loro lodo, essi gli spediron messi perchè venisse a scolparsi. Ma ei sempre promettea colla bocca ciò che poi in cuor non avea. Si fe’ pertanto ei di nascosto (era d’agosto) con un esercito di cavalli e di fanti contro quel castello e l’ebbe pel tradimento d’alcuni. Perciò i consoli con un numero grande di cavalieri, di balestrieri, di saettatori, per quanto s’ebber di reggimento, condussero contro lui la guerra, devastando e abbruciando quei suoi paesi: ma solo per terra, giacché, com’era il verno, non poteano avventurarsi per mare ad assaltare il castello. E fu l’anno 1154.

1155
E quattro furono i consoli del Comune nel xxxiv reggimento di un anno: Guglielmo Porco, Oberto cancelliere, Giovanni Malaucello, Guglielmo Lusio e sei de’ placiti. Tre di costoro rendeano giustizia in quattro compagne verso Palazzolo, in uno dei palazzi dell’arcivescovo, ed erano: Buonvassallo di Lamberto medico, Boernondo di Oddone, Guglielmo Stancone; e gli altri tre poi: Guglielmo Cicala, Nicola Roza, Oberto Recalcato, la rendeano nelle altre compagne, verso il Borgo, in un altro palazzo dell’arcivescovo. E anche quanto accadde a lor tempo in città e fuori, e per vari luoghi Caffaro, uom di attenta memoria, pur si ordinò di tramandar a’ futuri.
Esercitarono questi consoli la pubblica cosa aumentandola di assai. Perocché quanto della comune era stato vincolato da pegno, vale a dir castelli, ripe, scali, pesi, misure, monete, e ogni altro reddito pubblico, essi di quella servitù redensero. E frattanto presero a costruire le mura e le porte della città verso entrambe le riviere. E non solo mantennero la pace tra’ cittadini, ma di fuori per molti luoghi vi addivennero con grandi vantaggi. Pertanto i marchesi di Loreto i quali, l’anno innanzi, eran venuti a guerra co’ Genovesi pel castello di Noli, giurarono di rimettersi per esso e per ogni altra lor questione al comando de’ consoli di quell’anno e de’ futuri. Nel frattempo questi avean anche sottoscritto pace col legato dell’imperator di Costantinopoli il quale fe’ promessa che d’allor in perpetuo questi avrebbe mandato, ciascun anno, un omaggio di cinquecento perpàri e di due palii al Comune di Genova, e un altro, pur in perpetuo, di sessanta perpari e di un pallio all’arcivescovo. Concesse inoltre al Comune una contrada, un fondaco, una chiesa proprî in Costantinopoli e per tutto il suo impero ridusse a’ Genovesi il dazio da un decimo ad un venticinquesimo.
[due torri con porta e una collina con castello]
Sul terminar del precedente consolato Federico re de’ Romani, e sempre augusto, era la seconda volta calato in Lombardia: sotto questo, assediò e assaltò per nove settimane Tortona, finché alla metà d’aprile avutala, la spianò. Onde le città e i paesi tutti, atterriti, sottostarono a pagar un immenso tributo di denaro al re.
[Terdona destructa, Tortona distrutta]
Ma i consoli genovesi, benché spesso s’avesser da molti consigli e incitamenti a pagargli pur essi un tributo, pur non gli voller dare o prometter il valor di un solo obolo. E intanto i castelli tutti fuor di città andarono munendo di armi e di guerrieri; e comandarono, sotto il vincolo del giuramento, a tutti gli uomini a lor tenuti, di provvedersi con sollecitudine d’armi e di quant’altro occorra alla guerra. E come fu il comando de’ consoli, così ognun fe’ prestamente. Il re da parte sua come riseppe che i Genovesi con tanta fiera alacrità si avean provveduto, spedì tosto suoi messi a’ consoli perchè a lui andassero alcuni di loro. Andò l’un d’essi, Guglielmo Lusio, con alcuni altri cittadini tra’ migliori: col re discussero a lungo, reciprocamente, circa i privilegi che eran dovuti all’impero e quei che s’avea acquistato la città, e il re ripetè la promessa (già altra volta fatta) di voler colle sue concessioni avvantaggiar Genova su ogni altra città d’Italia: quindi senza più trattenerli diè loro dignitosa licenza. E dopo si portò a Roma, colà ricevè in S. Pietro la corona e la benedizione da papa Adriano, e ancor risali in Germania.
Pertanto poiché sia del tutto manifesto con argomenti degni di fede ad uomini di schietta mente come crebbe, in quel tempo, la pubblica cosa de’ Genovesi (e il presente libro lo prova) necessita che quanto su’ privilegi della città si operò sotto quei consoli sia pur conosciuto secondo verità. Cosi dunque si risappia l’università del popolo che questi consoli mandarono lor legato a Roma, a quella curia, Manfredo canonico di S. Lorenzo, uom di grande nobiltà e dottrina, per ragion di giustizia. Colà trovò il Patriarca di Gerusalemme e quasi tutti i Vescovi e gli arcivescovi di Oriente e Raimondo maestro degli ospitalieri: e in presenza d’essi (i quali si eran portati colla curia pontificia in Benevento), cosi levò querela al Papa, come per ordin de’ consoli.
«Reverendissimo Padre e Signore, a Dio e a Voi io porto le lagnanze de’ Genovesi contro il re di Gerusalemme, contro il conte di Tripoli, e pur contro il principe di Antiochia, i quali ogni dì diminuiscono e tolgono quanto i Genovesi debbon, secondo giustizia, aver nelle parti di Oriente, come i loro predecessori hanno a lor tempo concesso a’ Genovesi e col giuramento e co’ documenti confermato. Ciò in premio di aver essi con molte loro macchine di guerra, e spesa, e spargimento grande di sangue, preso per assedi e battaglie città e paesi assai di quelle terre siccome io a voi provo per gli scritti che vi presento.
«E pur vi levo querela contro gli uomini del re di Jerusalem, i quali con lor galee senza ragion alcuna predarono navi e mercanzie a’ Genovesi; e similmente, contro alcuni di Provenza, vale a dir Bernardo Attone e i colleghi suoi.
«Per cui, Santissimo Padre e Signore, dall’eccellenza vostra supplichevolmente impetro che la verga della sede apostolica percota di anatema quei tutti che calpestarono, in siffatto modo, i diritti de’ Genovesi».
[simbolo?]
E il papa, udita la lagnanza, considerati i documenti, in presenza dell’episcopio di Oriente, die’ la sua sentenza, che come fu, è pur qui trascritta.
«Adriano, vescovo, servo de’ Servi di Dio, all’illustre re di Gerusalem, salute e apostolica benedizione. Siamo stati noi posti nell’eminente specola della sedia apostolica dalla grazia divina che tutto dispone, perchè l’occhio della nostra considerazione si debba da noi estender all’universe parti del mondo, onde quelle cose che ci veniam a conoscer esser state commesse contro il tramite della giustizia e l’ordine della ragione, ci sia dato corregger con la maggior vigilanza. Dunque, i cittadini di Genova, nostri figli diletti, nella question che ci han portata dinanzi, hanno provato come i sudditi tuoi li abbian depredati di una nave, e di quanto portava (e assai valea), senza alcuna causa o ragione, e come fin ad ora, come ci vien detto, presuman di ritenersi l’una e l’altro. Onde se l’esercizio della tua nobiltà con provvida considerazione ti avesse fatto pensare quanti danni, quanti svantaggi, e anche quanti scandali alla tua terra e al regno che ti è commesso in occasion di questa rapina potean provenire, poiché Genova, gloriosa ed inclita città, è ritenuta potentissima fin nell’ultime parti del mondo, anche senza il nostro ammonimento tu avresti dovuto disporre onde quel che contro diritto e per rapina fu tolto dovesse venir per intero restituito. Pertanto, affinché i Genovesi medesimi non abbian di qui innanzi ancor materia di querela contro te o contro i tuoi sudditi, ordiniamo con questo nostro apostolico scritto alla Nobiltà tua, che qualmente tu voglia restar benedetto nella grazia della sacrosanta chiesa romana, madre tua, faccia tu restituir loro senza alcuna diminuzione la nave insieme con quanto entro vi era. Guardati però che se per questa quistione perverrà un’altra volta richiesta di giustizia ai nostri orecchi, non potrem ristarci di punir con più severità una siffatta rapina nella tua stessa terra. Pur ci rivolgiamo, per mezzo dell’autorità dei presenti, alla sollecitudine tua onde tu faccia si che il vice comitato di Acaron, e gli altri diritti che si riconoscon spettare per ragion di giustizia a’ Genovesi, questi, oltre il resto, possan godersi in pace, senza molestia alcuna».
Ne’ modi stessi venne scritto al conte di Tripoli e al principe di Antiochia con minaccia di scomunica. E al patriarca di questa città, pur per lettera del papa, che su costui senz’altro la scagliasse se non obbedìa. E anche al vescovo Bitterense, Agatense, e Neumacense perchè Bernardo Attone e Bitterensi e Agatensi colpisse di scomunica finché a’ Genovesi non rendessero i tolti averi per intero. E mentre il legato chiedea licenza dal papa, questi mettendogli un anello in dito gli disse:
«Questo sia il segno della benevolenza e della grazia nostre, e della sedia apostolica tra noi e i Genovesi in perpetuo: e a te legato che lo porti sia desso pegno dell’amicizia e della grazia del papa».
Queste cose e altre molte, che non sono qui scritte, fecer quei consoli della città, e si studiarono anche di far eleggere tra i migliori cittadini i reggitori che dovean loro succedere; e pertanto lode e gloria da tutto il popolo ne acquistarono. Fu il 1155.

1156
Nel xxxvi consolato di un solo anno quattro furono i consoli del Comune: Guglielmo Burrone, Oglerio Vento, Enrico d’Oria, Lanfranco Pevere; e sei de’ placiti: Simone d’Oria, Ido Gontardo, Gionata Crispino i quali tre rendean giustizia a quattro compagne verso Palazzolo in quel palazzo dell’arcivescovo; e Nicola di Rodolfo, Ugo di Baldizone, Obizzo Sardena, i quali furono preposti ad amministrarla alle altre quattro compagne verso il Borgo pur nel palazzo stesso, ma in separata sede.
E poiché le cose presenti sono chiare e manifeste a’ contemporanei, e allorché siano trascorse si possono aver per isconosciute dagli uomini di quel tempo, perciò dunque è saggio ed utile tenere memoria di quanto avviene e come.
[fiore o piume]
Onde Caffaro (di felice memoria) quel che pur accadde quest’anno nella città di Genova, e fuori per vari luoghi, come è qui scritto, non trascurò di ricordare. Sia dunque anche prezzo di quest’opera risaperci come i consoli in quel reggimento amministrassero la pubblica cosa e la giustizia. Non deviaron essi, no, così nell’una come nell’altra, dal sentier retto; e quei de’ placiti, poi, a quanti di lor compagne, poveri e ricchi, vedove ed orfani sollecitaron ragione come il diritto vuole, a ciascuno la resero. Mandarono inoltre tra i migliori cittadini, Guglielmo Vento, e Ansaldo d’ Oria, legati al re di Sicilia a miglior vantaggio della città, e furon da lui con onor accolti. E dopo che ebber discusso assai a lungo insieme de’ diritti del suo regno, e de’ privilegi dovuti a Genova, finalmente giunsero a stipular pace e concordia siffattamente: e il re in presenza di sua corte suggellò con giuramento a’ legati genovesi l’obbligo suo di favorire e proteggere, per dove ei comandasse, i Genovesi, di render loro giustizia delle offese, e di cacciar dal suo regno tutti i mercanti provenzali e francìgeni, e ancor molt’altro. (e fu trascritto nel Registro genovese). E i consoli a lor volta, poi che i legati furono tornati a Genova, raccolta la concione, giurarono con trecento uomini di non tramar nè la morte nè la prigionia del re; e che in parte alcuna di quel reame i Genovesi fosser venuti a rapina sulle persone o sugli averi, essi ne avrebbero reso giustizia al re. Simigliante promessa non solo a un re di tanta potenza, ma anche a quanti pur si mantengon in pace con loro i Genovesi, nel modo istesso, e anche senza giuramento, son soliti a mantener con iscrupolo. Onde pur da lungi, e largamente per la terra da chi è addentro alle cose è uso dire, e s’ha per vero, che i Genovesi abbian sempre più ricevuto, e meglio, che dato. Perocché quel re da molti e grandi reggimenti e città con la semplice promessa sua i loro giuramenti accettò e ricambiò, e soltanto a’ Genovesi lasciò che non a lui in persona ma ad altri, in lor paese, lo prestassero, per ricambio del suo. Onde si deve ritenere per verissimo, ed è provato, come i Genovesi più s’abbian ricevuto che dato. E fu nel 1156.

1157
Nel xxxvii reggimento di un anno pur quattro furono i consoli del Comune: Roggerone di Ita, Guglielmo Vento, Oberto Spinola, Gandolfo Piccamiglio, ed otto de’ placiti; de’ quali quattro rendeano giustizia nelle quattro compagne della città, ed eran: Bojamondo di Oddone, Fredenzone Gontardo, Guglielmo Stancone, Marchio della Volta; e gli altri nelle altre quattro compagne di Borgo; cioè Oberto cancelliere, Guglielmo Cicala, Amico Grillo, Vassallo di Ghisolfo.
Come che savio ed util è il combatter con onore per la propria patria, è pur prezzo del tempo che in qual modo i consoli del Comune operaron quest’anno per Genova, lor patria, mercè questo scritto di Caffaro ne venga saputa la verità. L’umana esperienza faccia dunque tesoro di quel che seppero compiere: ed essi la città e il popolo mantennero in pace e concordia; proseguiron essi ad alzar le mura della città; più legati mandarono in differenti posti pel suo avvantaggio: Guido di Lodi alla curia di Roma; Gionata Crispino in Oriente e a Guglielmo re di Sicilia; Amico di Mirto (e questi a richiedere gli scali e l’emporio promessi) a Costantinopoli.
[leonessa]
Ricevetter anche come cittadino Guido Guerra conte di Ventimiglia, ed ei giurò fedeltà al nostro Comune e i suoi castelli (come si ha dal registro), tutti gli donò, riprendendoli quindi in feudo per investitura che ebbe con una rossa insegna da’ consoli stessi in parlamento. Fecer essi giurare una nuova compagna, elegger i consoli del Comune e delle cause tra’ migliori. Per essi e pe’ futuri, Caffaro, che questo libro raccolse, in ciascun dì tre volte prega onde Dio a lor sempre conceda di regger con pace e concordia il popol di Genova e di aumentarlo nelle buone opere. L’anno 1157.

1158
Nel xxxviii consolato d’un anno pur quattro i consoli del Comune: Ingo della Volta, Ido Gontardo, Baldizone Usodimare, Giovanni Malaucello; ed otto de’ placiti; de’ quali quattro preposti alle cause in quattro compagne verso Palazzolo, (ossiano : Guglielmo Bufferio, Buonvassallo di Castello, Anselmo di Caffara e Nuvelone) mentre gli altri quattro (cioè Ottone di Caffaro, Nicola di Rodolfo, Enrico Malaucello, e Oberto Recalcato) lo eran per altre dalla parte del Borgo. A lor tempo, per tutto il regno d’Italia, si succedettero molti e vari avvenimenti, prima mai conti, tra cui quanto agì allor Federico, imperator de’ Romani, per Liguria e per le parti marittime, è prezzo di quest’ opera che Caffaro, secondo la possa di sua scienza, non tralasci di ricordare.
[Fredericus]
Ridiscese Federico imperatore in Lombardia (ciò risappia l’esperienza nostra e di quei che verranno) con un grosso esercito di tedeschi, perchè quanti fino allora si erano studiati di non prestargli obbedienza, soddisfacessero per quella sua venuta, e colla sola misericordia di Dio, il debito che s’avean all’impero. Onde i marchesi tutti, e i consoli, e i conti della città, gli uomini d’arme di Lombardia e di Toscana chiamati a marzial raccolta, l’imperatore con quella sua innumerevole moltitudine guerresca pose presso l’arco romano le sue tende stringendo di assedio Milano. Ma i Milanesi benché gli resistessero per pochi dì, pure si ridusser presto a giurargli che da allora avrebber soggiaciuto a ogni suo volere. E l’imperatore, preso di pietà, die’ loro indulgenza e non sentenza, secondo giustizia, per loro passata disobbedienza: e quelli di tenergli fedeltà, di dargli regalie, e in più nove mila marchi d’argento, di consegnargli trecento ostaggi entro i termini convenuti pur s’obbligarono con giuramento. Onde gli abitanti di Lombardia tutta e di Toscana, interroriti si piegaron, a guisa di Milano, al voler dell’imperatore. Ciò in gran parte compiuto radunò un parlamento in Roncaglia, ove molte die’ sentenze alle querele che gli furon porte, e dettò nuove norme di pace tra le città italiane e come doveano rispettarsi. Mentre ciò accadea, pur i Genovesi, come già molte volte per lettere e per richiami de’ suoi principi e ministri ne erano stati incitati, gli mandarono a corte parecchi di loro tra i più nobili. Richiedea egli con molta istanza da costoro che, come le altre città d’Italia per dimostrargli la giurata fedeltà gli rimettean ostaggi e regalie, così, senz’altro, anch’ essi alfine facessero. Ma questi, quantunque convenissero in quanto gli altri si erano in riguardo a ciò piegati, pur con cautela, cercando di sfuggir a siffatti obblighi, si studiavano di dimostrargli come ne doveano venir esenti. Poiché da antico era stato pur concesso e riconfermato per gli imperatori di Roma come gli abitanti di Genova dovessero in perpetuo esser liberi di ogni tributo: aver essi solo l’obbligo di fedeltà all’impero, e l’altro della difesa del mare da’ barbari, nè altrimenti in alcun modo poter esser gravati.
Onde poiché avean essi questo adempiuto, che era il dover loro; e poiché, col favor divino, le scorrerie, le rapine, che esercitavan i barbari, da cui tutta la provincia marittima da Roma a Barcellona venia senza tregua infestata, eran riusciti essi a cacciar lungi, così che per loro ciascun ormai si potea dormir sicuro presso il suo fico e la sua vite (e il che l’impero non avrebbe potuto conseguir con la spesa di diecimila marchi d’argento ogni anno) per ciò, per ragion veruna, non poter essere richiesti di quanto non doveano. Pertanto le ragioni che avean forza sugli altri italiani non poter essere richiamate in alcun modo in loro confronto: per non aver essi terra dell’impero da cui trar la vita, o in qualche modo pur mantenervisi stabilmente; ma prender essi in altre parti di che occorre a vivere in patria e a difender la supremazia dell’impero; pagar essi, mercanteggiando in terre straniere innumerevoli dazi: acquistarsi quindi per prezzo pagato, il libero possesso di lor cose; non dover perciò tributo all’impero, essendo pur statuito da antico, per voler d’imperatore romano, che nessuno, neppur Cesare, possa ricevere, ed anche men richiedere, tributo, se già altrimenti soddisfatto: aver quindi gli abitanti di Genova il solo obbligo della fedeltà, nè poter essere addimandati d’altro.
Frattanto uomini e donne tutti, in Genova, non ristando, dì e notte, di portar pietre ed arena, avean le mura a tal punto avanzate in soli otto giorni, che qualsiasi città d’Italia pur con lode non sarebbe riuscita ad altrettanto. Laddove poi il giro delle mura non si congiungea, e dove sufficiente altezza non lo assicurava, cosi in tre giorni lo rafforzarono di castelli altissimi, costruiti cogli alberi delle navi, di frequente bertesche, di spaziosi e robustissimi spalti, che l’impeto di tutta Italia e Alemagna, purché non fosse contrario Iddio, non vi avrebbe dischiuso un passo.
[spada]
I consoli poi, i consiglieri della città, come esperti per esser soliti a por assedi di quanto necessitino quei che son dentro, tal numero di soldati, balestrieri, arcieri riunirono, distribuirono pe’ castelli de’ monti e per la città che solo per la lor vettovaglia spendea ogni dì un cento marchi d’argento. L’imperatore, a sua volta, non prendendo alcuna deliberazione, poiché non intendea piegar nè ad offici nè a scuse de’ Genovesi, ma pur si accorgea ch’essi non avrebbero sopportato che si diminuisse la loro antica consuetudine, diè loro un nuovo convegno al castel di Bosco dove si venia coll’esercito. Si portaron allora da lui Ido Gontardo che era console del Comune e parecchi altri saggi uomini, Caffaro, Oberto Spinola, Guido da Lodi, Gugliemo Cicala, Ogerio di Boccherone, Ottone giudice ed Alberico, i quali con lui riuscirono ad accordarsi con questo patto: riconcedè l’imperatore la sua grazia e il suo buon animo a’ Genovesi; li ricevette sotto la sua protezione e difesa aggiungendo che a veruna querela contr’essi avrebbe porto ascolto; nè che in alcun modo li avrebbe molestati per quanto tratteneano con diritto o senza, eccetto se togliessero l’avere a qualche viandante, chè non l’avrebbe lasciato loro godersi. E stabilì che il patto fosse valido in fin a S. Giovanni. I Genovesi, da lor parte, gli fecero poi dare giuramento di fedeltà da quaranta uomini: e lo prestaron questi in Genova, nel palazzo dell’arcivescovo in man di Rainaldo, cancellier dell’impero e conte Blandratense, ma alla condizion espressa che per quel giuramento di fedeltà non fossero in alcun modo tenuti a somministrar all’imperatore esercito o danaro o che di altro fosser da lui richiesti di cui avean discusso per lo innanzi (ed è più sopra narrato); e pur alla stessa stregua promisero che gli avrebbero rimesse quelle regalie che da per loro avessero conosciuto spettargli per diritto. E donarono in sopra più l’imperatore e la sua corte di mille e dugento marchi d’argento. Mentre cosi si scambiavano la sicurtà del patto, l’imperatore mandò certi suoi messi a Savona e per tutto il Comitato, talun de’ quali come giunse a Ventimiglia, colta l’occasion favorevole (e pur quei tutti di quella terra, tolti i minori di quattordici anni, avean al Comune di Genova prestato giuramento di fedeltà in confronto di chicchessia, obbligandosi, sotto il vincolo stesso, nè a ordir tradimenti contro il castello, nè a tollerarli, e a concorrere con il Comune contro tutti per difenderlo, tenerlo, e se perduto ricuperarlo) questi si studiò perché, quei di Ventimiglia, con infame tradimento, s’impadronissero del castello, e lo diroccassero.
[Victimiliù, Ventimiglia]
Pel che i Genovesi spediron legati all’imperatore chiedendo che ei rifacesse lor quel castello, poiché per colpa sua lo avean essi perduto, mentre riteneano per le promesse imperiali che non dovessero venir diminuiti di alcun loro possesso che s’avessero avuto al tempo de’ patti. E gli esposero pure, per suffragar con maggior diritto lor ragione, in forza di qual causa avesser quel castello. Perocché sotto l’imperatore Corrado (II) mentre la mai doma audacia di quei di Ventimiglia era a tanto cresciuta che in quanti essi s’imbatteano in cammino, ricchi o poveri, tutti mettean a sacco o gettavano in carcere (s’aveano essi entro lor terra unico proposito la rapina e il malefatto; nè i delitti lor pur conosceano, chè non patìan se non di rimorso), così anche a tanto giunsero i lamenti presso l’imperatore che questi s’indirizzò con preghiere e con ordini a’ Genovesi perché quei predoni, e gli altri che, scorrendo pel Comitato, commetteano tali misfatti, prendessero, castigassero, sottomettessero alla sua autorità. Onde, da tanti incitamenti sospinti, lettere, preghiere dell’imperator medesimo, e anche dalle suppliche degli innumerevoli che quei di Ventimiglia come nemici avean danneggiato, i Genovesi, radunato un grosso esercito di fanti e di cavalli, quella città presero come abbiam descritto a quell’anno, e avutone perpetuo giuramento di fedeltà, vi costruirono un castello; quello appunto che i Ventimigliesi ricordevoli di lor usi, (come poco innanzi è pur detto) per inganno e per forza distrussero. Pel che da costoro è pur d’uopo guardarsi in avvenire affinchè lor richiesta di perdono, che non può cambiar il malvagio proposito, riesca a renderli confidenti.
Pure quest’anno tutta la terra assetò la troppa seccura: poiché dai primi di maggio fino all’ultima settimana del marzo seguente fu la piova assai scarsa; una volta o qualche volta in un mese appena a guisa di rugiada: onde le fonti e i pozzi ne eran così disseccati, che quelli che soleano abbondar di ubertà d’acqua in piena estate, ne aveano d’inverno soltanto a sufflcenza per riempir un sol vaso. E anche questo, che può valere, Caffaro scrisse perchè l’oblìo non lo involva. E fu l’anno 1158.

1159
Nel seguente consolato, il xxxix di un sol anno, ebbe il Comune sei Consoli: Ansaldo Mallone, Oglerio di Guido, Gionata Crispino, Rubaldo Bisaccia, Ansaldo Spinola, Lanfranco Pevere; e quattro il magistrato de’ placiti: Bojamondo di Oddone, Corso Serra, Guglielmo di Marino, Obizzo Sardena: de’ quali tutti per l’avvedutezza e la prudenza nell’amministrare ebber incremento cosi la repubblica come i negozi privati. Per la lor cura, e la loro attività, imitati da tutti gli altri cittadini, quanto restava allor a compiersi delle mura s’avviò a visibile fine: e quel che sembra incredibile, mercè l’opera di tutta la città e delle pievi in cinquantatrè giorni, per dito di Dio, si compì. Il che per i registri di Giovanni scrivano del Comune si raccoglie, il quale i giorni e le ore degli operai che si doveano rimunerare (lavorando a pagamento i poveri e i ricchi) notò colle mercedi pagate. Poiché poi dalla lunghezza delle mura s’abbia a crescer negli anni la possa del lavoro dirò che esse misurano otto stadii e cinquecento venti piedi. E come lo stadio corrisponde a passi centoventicinque, e a piedi millecentoventicinque (chè il passo pur a cinque piedi equivale) così dunque tutto il lor circuito ascende a cinquemila cinquecento venti piedi. Di esso quasi quattro parti furono compiute nei cinquantatrè giorni che già dissi, i quali furon tutti spesi in quella sola opera, attendendo gli uomini della città e delle pievi insieme al lavoro secondo i quartieri e le altre lor divisioni per una parte del giorno, oppur da soli alquanto tempo, nel luogo assegnato ai loro. Sulle mura furono pur alzati mille e settanta merli: sia per imponenza e saldezza di lor compagine, sia per comodo e difesa de’ cittadini.
[Porta Soprana]
E sia ancor da ognun risaputo come al tempo di questi consoli il dì sette dell’uscente gennaio Federico imperatore abbia preso Crema spianandola, e come un’immensa discordia sia divampata in terra per l’elezion del pontefice romano. Imperocché morto Adriano di beata memoria, i vescovi tutti e i cardinali della Curia di Roma insiem convennero per l’elezione del nuovo papa. Qualmente poi, e a che elezione addivenissero, e come nella chiesa il diavolo seminasse la discordia, Alessandro, l’eletto de’ cardinali, s’aprì con questa lettera all’Arcivescovo di Genova:
«Alessandro, vescovo, servo de’ servi di Dio, ai venerabili fratelli Siro, arcivescovo di Genova, e di lui suffraganei, salute ed apostolica benedizione. E’ eterna ed immutabile provvidenza del sommo Autore volle che la santa e immacolata chiesa fin dal principio di sua fondazione con questa norma e con quest’ordine fosse governata: che un solo pastore e istitutore le preminesse, al quale i prelati delle chiese universe senza insofferenza dovessero sottostare, e come membra che si connettono col capo, a lui si dovessero congiungere in una certa qual meravigliosa unità, in alcun modo non discordando. Poiché Quegli che ai suoi apostoli a maggior saldezza di lor fede promise dicendo: «Ecco io sono con voi fino alla consumazione dei secoli». Quegli, senza dubbio, non soffrirà, come Ei promise, che la sua chiesa, che gli stessi apostoli ressero per i primi, in alcun modo si defraudi; ma essa nel suo stato ed ordine, se pur permette che appaia talvolta, come la navicella di San Pietro, beccheggiar sull’onde, cosi manterrà in eterno. Onde, benché adesso tre falsi fratelli, che pur contammo tra noi, e non eran de’ nostri, avendo preso sembiante di angeli della luce essi che lo eran di Satana la indistruggibile tunica di Cristo, che Egli stesso chiede in persona del Salmista come si debba strappar dal leone e dalla fiamma, e prega e si raccomanda di torla dalle zampe del cane, or si affatichino a scindere o a dilaniare; Cristo pure autore e capo della chiesa, è certo, ancor dessa come unica sua sposa protegge con provvido governo; nè intende che la nave dell’egregio Pescatore, se anco lasci che più spesso sia scossa da’ flutti, debba subir il naufragio. Dunque, come il nostro predecessore, papa Adriano di buona memoria, s’ebbe alle calende di settembre, mentre eravamo in Anagni, pagato il debito suo alla natura, dalla terra al cielo, dall’imo ai Superni, migrando alla chiamata di Dio, e poi che il corpo, portato a Roma il dì prima delle none di settembre ne fu sepolto in San Pietro, con sufficenti onori come vuol l’uso, alla presenza di quasi tutti i fratelli; si miser questi, nella chiesa stessa raccolti (e noi con essi) a studiar con la maggior cura, in sul pontefice che dovean sostituire, e per tre giorni tra loro di questa elezion trattando, alfine tutti quanti erano, ad eccezion di tre soli, Ottaviano, cioè, Giovanni di San Martino e Guido da Crema (e Dio ci è testimone se noi mentiamo, o se non piuttosto, diciam, come è, la pura verità) convennero concordemente nella nostra persona, ah! pur insufficente a tal peso, pur al fastigio di cosi eccelsa dignità così al minimo adatta: e il clero e il popolo approvando, ci elesser a romano pontefice. Ma due di quelli cui abbiam poco sopra accennato, cioè Giovanni e Guido da Crema facendo il nome dell’altro, il terzo, vale a dir Ottaviano, si andavan intanto sforzando, con pertinace intendimento, alla sua elezione. Onde egli irruppe in tanta pazzesca audacia che quando il primo dei diaconi, come vuol l’uso della chiesa, si accinse a rivestirci del manto (e noi si stavam pur riluttanti, e quasi indietreggiando che più sentivamo la nostra insufficenza), ei, con forza manesca, ce lo strappò dal collo portandoselo via fra uno strepito di tumulto. Per altro un senatore (parecchi ne eran presenti al misfatto) come acceso da spirto divino, il manto ristrappò di mano al violento. Allor quegli voltosi ad un suo cappellano, che colà era venuto a ciò apparecchiato, con un rotar di flammei occhi, gridando e strepitando gli ingiunse di dargli tosto il manto che dovea aver seco. E come questo gli fu porto senza indugio, Ottaviano toltosi il cappello e inclinato il capo (i fratelli tutti s’eran da quel luogo discosti, o per lo meno ne fuggian col pensiero) prese per man di quel suo cappellano e di un altro suo chierico, a metterlo con la maggior pompa possibile; pur egli stesso poiché a questo ufficio non si prestavan altri, ahi! dovette esser il coadiutore del cappellano e del chierico.
Ma allor accadde (e noi crediam per divin volere) che quella parte del manto che dovea toccar al davanti, come molti poteron vedere e ne risero, pendea di dietro; e cosi, come egli era di storta mente e di oblique intenzioni, pur di rovescio e contro il retto uso il manto, ei, rivesti, a prova di sua dannazione. Dopo di che le porte della chiesa, che eran chiuse, furon aperte, e un fiotto di armati, i quali, come appar chiaro, egli avea colà appostati per denaro, tratte fuor le spade, con immenso strepito irruppe; e Ottaviano, peste mortifera, non s’avendo intorno nè cardinali nè vescovi, fu acclamato, inchinato da uno scompiglio di soldati in armi. Considerate, pertanto, fratelli venerabili in Cristo, un cosi penoso tormento; misurate con diligenza un cosi esecrabile sacrilegio, e ditemi se vi possa essere un dolor come questo e se dal primo sorger della nascente chiesa uno scismatico, un eretico qualsiasi si sia mai ad un’egual insania attentato! Allora i vescovi e i cardinali che eran con noi al veder tal immenso misfatto, e pe’ secoli mai conto perché neppur immaginato, presi di terror che i soldati pur non gli uccidessero, si rifugiarono, parimenti con noi, nella custodia della chiesa; e Ottaviano, a sua volta, perchè non ne uscissimo, ci fe’ colà per nove dì continui, col consenso di certi senatori che pur s’avea guadagnato col denaro, guardar con la più stretta vigilanza da un manipol d’armati. Ma dal popolo alfine, che con alte e continue grida chiedea di noi, già gonfiando a violenza contro i senatori per la loro empietà, fummo strappati da quella prigione e quei senatori medesimi, ridato indietro il denaro avuto, ci voller collocare in un luogo più degno e nobile, di là dal Tevere. E dopo che anche colà ci fummo ristati tre giorni, l’universo popolo non volendo più affatto sopportar quel trionfo della malizia, venne a noi: vennero senatori insiem con nobili, con uomini della plebe, e noi e i fratelli nostri trassero attraverso la città con magnifici onori, tra immense acclamazioni e mentre all’intorno le campane, al nostro passaggio, suonavano. E cosi alfine tolti alla violenza del nostro persecutore e ritornati alla libertà, la domenica che segui, alla presenza dei nostri venerabili fratelli Gregorio di Sabina, Umberto di Ostia, Bernardo di Porto, Gualtiero di Albano, Giovanni di Signa e Bernardo di Terracina vescovi e cardinali; e di abati, priori, giudici, avvocati, scrinari; del primicerio e della scuola de’ cantori; di nobili pure, e di molta parte del popolo, tutti insiem raccolti presso Ninfa, poco lungi alla, città, ricevemmo la consacrazione; e quindi, con magnifica solennità ci fu cinta la real corona papale.
All’opposto Ottaviano, benché per la sua consacrazione o per dir meglio esecrazione, mentre restava in città e dopo che di nascosto ne uscìa a molti vescovi si fosse rivolto, un solo, quel di Ferentina, gli si offrì a suggellare la sua pazzesca temerità. Ma altri ci chiedea: ed alcuni vescovi colle minacce imperiali, altri colla violenza dei laici, ed altri pur col denaro e le carezze ei tentò di avvincersi, ma impedendolo il Signore, non ne ebbe frutto. Cosi fin qui non ha potuto trovar alcuno, benché vi si sforzi in tutti i modi, che, a lui sopra ponendo le mani dell’esecrazione, si eriga a confermatore di tanta presuntuosa empietà. Ma i ricordati Giovanni e Guido, avviluppati dalla tenebra di lor cecità, poiché sta scritto che «come il peccator tocchi il profondo de’ vizi vien più avvilito» non egualmente desistono, ma Ottaviano stesso, elevatosi come statua dinnanzi, con ostinata perfidia, calpestando l’unità della chiesa, mostran di voler fin d’ora adorare come un idolo o un simulacro. Egli poi adombrandoli tempo dell’Anticristo cosi ha lor corrisposto che anche nel tempio del Signore sedè come in aspetto di Dio, e molti, venendo al sacro luogo, non senza copia di lacrime, un tal abbominio di morte, poteron vedere coi lor occhi mortali. Pur noi conoscendo quanto fossimo deboli e come scarsi di virtù, riponemmo il pensier nostro nel Signore, sperando, confidando a pieno cuore nella misericordia di Cristo, che la sua santa Chiesa per la quale egli stesso ci si mostrò nella sostanza della nostra mortalità, onde quella gli si presentasse senza ruga o macchia, Egli oh! la voglia far lieta della bramata tranquillità: nè ostacolo alcuno a lui si potrà mai opporre nel placar pur la violenza di tutte le tempeste, quando Egli, l’unico sposo di Lei, la chiesa, avrà voluto spazzar via. Or pertanto giacché de’ meriti e della forza nostri noi diffidiamo, e possiam riporre piena fiducia nell’onestà e religion vostra, noi vi chiediam di sovvenir alla nostra debolezza con le vostre preghiere congiunte a quelle di tutta la Chiesa: v’invitiamo, vi esortiamo con il nostro maggior studio, per questi scritti apostolici, perchè come cattolici opponiate un vostro inespugnabil muro a difesa della Casa di Dio; e persistendo con fermo animo nella divozione e nella fedeltà della sacrosanta chiesa di Roma, madre nostra, dalla di lei unità per nulla vi discostiate. Che se quel già mentovato uomo d’empietà avesse mandato per le vostre parti qualche suo scritto di perdizione, respingetelo come è suo merito, schernitelo, calpestatelo come inutile e sacrilego. Avrete, del resto, già saputo come noi, il di della consacrazione, indulgemmo ad Ottaviano medesimo ed ai suoi fautori, dando loro un termine di otto giorni a ritornar nel seno e nell’ unità della madre chiesa; e che se ciò non avesser adempiuto, da allora, e cosi essi come i loro accoliti, i loro favoreggiatori tutti, coll’ autorità di San Pietro e colla nostra non ci saremmo più trattenuti di stringerli co’ ceppi della scomunica, serrandoli fuor del corpo di Cristo, che è la Chiesa. Da Terracina: il dì vi delle calende d’ottobre: 1159».

1160
E quattro furono i consoli del Comune nel xl reggimento di un anno: Rogerone de Ita, Lanfranco di Alberico, Enrico Guercio, Ansaldo d’Oria ed otto de’ placiti; di cui quattro: Guglielmo Cavaronco, Anseimo di Caffara, e i fratelli Nuvolone ed Ottobono in metà delle compagne (iv) verso Palazzolo; e gli altri: ed eran Oberto cancelliere, Amico Grillo, Oberto Recalcato, Nicola Roza nell’altra metà verso il Borgo. Giacché ricordar il passato, meditar il presente, preveder l’avvenire, par saggio ed utile, perciò Caffaro, allorché aveasi vent’anni, i nomi dei consoli genovesi, e le lor imprese e quanto accadde, ciascun anno, in città, prese a scriver e a far risapere, e come stanno in questo libro fin ad or li raccolse e li suggellò di caratteri, e di qui innanzi, permettendolo Iddio, pur promise di farlo nel modo medesimo. Pel che come anche questi or or mentovati consoli reggessero la pubblica cosa quest’anno in cui Caffaro entra nel suo xvi lustro, si dee secondo verità pur conoscersi per questa sua scrittura. Sia dunque risaputo come questi pagasser del tutto un debito di 900 lire lasciato da’ precedenti cosi da tal servitù liberando la pubblica cosa. Pur compirono per l’opera delle torri in sulle mura la somma di lire trecento; e il castello di Voltaggio redento dal pegno di lire cento tolsero al prestatore, lasciandolo in potestà dei nuovi consoli; e il borgo di Porto Venere cinser di mura. Mandaron legati per util del Comune: Enrico Guercio, console, all’imperatore di Costantinopoli, e Oberto Spinola a Lupo re di Spagna. Oltre ciò, i cittadini che eran venuti tra lor a inimicizie gravissime sepper cosi frenare che sotto lor reggimento non osaron venir a risse, o ad assalti.
E tra i migliori della città fecer eleggere i lor successori. E fu l’anno 1160.

1161
Nel xli consolato di un anno cinque furono i consoli del Comune: Rodoano figlio di Guglielmo Maurone, Filippo di Lamberto, Marchio figlio di Ingo della Volta, Guglielmo Cicala, Oberto Spinola; ed otto delle cause: quattro per ogni quattro compagne. E così, verso Palazzolo: Guglielmo Bufferio, Lamberto figlio di Filippo, Guioto Zurlo, e Guido da Lodi; e verso il Borgo: Amico di Murta, Lamberto Grillo, Nicola Roza e Ansaldo Golia.
Usan variando i tempi molte prospere ed avverse cose accader di frequente nell’universo orbe, e quest’anno molto maggiori e più importanti del consueto accaddero nel regno italico. Ma poiché assai lungo, e di moltissima gravezza sarebbe narrar per intero quanto nel regno succedette per singoli capi, è necessario pertanto che da Caffaro lasciata da parte la restante materia, tosto, prima di tutto senza salti si scriva come i consoli di quel tempo reggesser la pubblica cosa e la città tenessero in freno. Questi dunque appena eletti, studiandosi molto circa quel che di più saggio e di più utile a lor nel reggimento parea, della pace ossia e della concordia della città, tosto, dentro e fuori si misero all’opra. I discordi, pertanto, chiamaron prima di tutto a giurare che non avrebber suscitato o tramato appigli o risse come erari soliti.
Agli altri poi che, contro lor precetto, si levaron con armi a insulto o a danno di alcun della compagna spianaron torri e case, confiscarono il denaro che per sicurtà di lor promessa teneano, costringendoli, sia che volessero o no, con nuovo giuramento a porsi quieti. Oltre ciò spediron un de’ colleghi, Oberto Spinola, uom prudente e savio, con cinque galee a difesa delle navi genovesi tra Corsica e Sardegna in fino a Denìa [Spagna]. Onde i Saraceni tra commozion e paura ristettero dall’armar galee, le vele e i remi riponendo in lor darsene: e le nostre navi, andando e ritornando, lor viaggio tutte compirono con tranquillo corso. E mentre le galee de’ Genovesi si stavan nelle parti di Denìa, Lupo re di Spagna mandò a Oberto che circa la pace e la concordia co’ Genovesi senza frode alcuna ei si rimettea alla volontà dei lor consoli. Allor quegli ad una ambasciata di tanta umiltà, accettando il consiglio de’ colleghi delle cause, di Lamberto cioè figlio di Filippo e di Ansaldo Golia che era con lui, e de’ capi delle galee, rispose che la pace s’avrebbe avuto se avesse pagato all’atto diecimila marabotini [moneta d’oro coniata in Spagna], e se il commercio di tutto il suo regno avesse riservato ai mercanti genovesi. Con lieto animo il re promise che a ciò appunto si sarebbe attenuto: e senza indugio spedì a Roma sue lettere pregando che si mandasse a lui un legato a toglier il denaro e a dare e ricever sicurtà di pace come da promessa. I consoli, lette le lettere, appresa l’umil dimanda del re, gli inviaron legato Guglielmo Cassizo figlio di Ingo della Volta, uom di inclita saggezza, il quale poiché i marabotini gli fosser conti, e il commercio tutto di quelle terre dimesso nelle mani de’ Genovesi s’avesse a scambiar la già detta sicurtà. Pur un altro legato, Ottone Bono fratello di Nuvolone, uom di nobiltà e di saggezza, spedirono al re de’ Modaini; ed egli per tutte quelle lor terre s’andò, con onor grande accolto, giungendo fino al re del Marocco, con cui (e pur molti fur colà gli onori) una pace conchiuse per un termin di quindici anni. E queste ne furon le norme: che per tutte le terre de’ Modaini ed i lor possedimenti potessero i Genovesi andar con libertà sia per terra che per mare con tutti i lor averi: che in terra alcuna non dovesser una gabella maggior dell’otto per cento fuorché che in Bucea che sarebbe del decimo, dovendo però il quinto di esse ritornar al Comune di Genova. E ancor Oberto Spinola (nobiluom consolare di cui già dicemmo) indirizzaron nella parte d’Oriente alla santa città di Jerusalem insiem con Giovanni prete e cardinale di San Giovanni e Paolo, legato pontifìcio a chieder giustizia pe’ Genovesi. E pur i castelli di Voltaggio, di Flacone, di Parodi, di Rivarolo, di Portovenere, i quali, fuor di città, eran muniti di vecchie opere, rifecer di nuove, e sopra e in giro e di cosi salda imponenza, che di poi al giudizio di quanti per quei luoghi passassero, l’aspetto di quel nuovo arnese togliea lor ogni altro pensiero. Cagion di contento ad amici e di terror a nemici pur ad ascoltarlo.
Nè Caffaro dèe lasciar all’oblio come l’arcivescovo, il clero, i consoli e il popol tutto ricevetter quell’anno papa Alessandro. Arcivescovo, chierici, consoli, con l’universo popol di uomini e donne, vecchi, giovani e fanciulli tutti furon ad accoglierlo, con onori magnifici, tra acclamazioni e lodi universali, al suon delle campane della città intera, e gli si accompagnarono lodando, in coro, ed esaltando il nome di Dio, come si legge nel libro de’ salmi: Iuvenes et virgines, senes cura junioribus laudent nomen Domini, quia exaltatum est nomen eius solius. E in verità il nome di Dio quel dì i Genovesi esaltarono accogliendo il vicario del Signore, l’apostolico Alessandro come il Signor istesso nell’evangelio dice: Qui nos recepit, me recepit» e altrove ospes fui et collegistis me.
Perocché lo stesso Gesù Cristo ospitarono quando in vece che a lui all’Apostolico e ai suoi vescovi, ai suoi cardinali, apprestaron commossi di gioia, palazzi e ospizi decorosissimi, e provvigioni immense come a lor convenivano. Cosi che poi, il Papa stesso, poiché a memoria tenea onor e benefici cosi grandi, si aperse co’ consoli come potesse onorar la chiesa della città. Ma poiché questi, per brevità del lor consolato, non poteron condurre a termine quel negozio, questo rimiser, per definirlo, ai nuovi consoli. Quel che poi dessi su questo e su ogni altro aumento della pubblica cosa a lor tempo avran fatto, Caffaro, se vivrà, quando ne sarà tempo, permettendoglielo Iddio, non tralascerà di scrivere. Correa l’anno 1161.

1162
Nel xlii consolato di un anno cinque furono i consoli del Comune: Guglielmo Boirone, Ingo della Volta, Nuvolone, Rubaldo Bisaccia, Grimaldo, ed otto delle cause: la metà per quattro compagne, e l’altra metà per le altre quattro. E così; verso Palazzolo: Boiamondo di Oddone, Buonvassallo di Lamberto Medico, Guglielmo Cadorgio, Guglielmo Gavaronco; e verso il Borgo: Ido Pizo, Guglielmo d’Oria, Oberto Recalcato, Gontardo Rufo.
Poiché di quanto, dal tempo della presa di Cesarea fin ad ora, di qua e di là dal mare, i Genovesi ed altri popoli ciascun anno ebber gesto, Caffaro serbò notizia scrivendo, pertanto è prezzo dell’opera che quel che quest’anno Federico, fe’, imperator romano e sempre e vero augusto, e fecer i Genovesi, per Liguria, in città e fuori, ei non tralasci di scrivere. Federico, intanto, più di tutti gli altri Cesari attendendo a restituir l’impero ne’ suoi diritti, piegando ognuno al giuogo del suo trionfo, s’andava meritando di star sopra a ciascuno e al poter di tutti. Avea egli, con un assedio di tre anni, per fame e per guerra cosi stremati i Milanesi che essi non poteron più a lungo resistere. E quest’ anno all’entrar di Marzo usciron inermi a pie’ dell’imperatore, e lor persone, la città, e quanto di lor cose, possessi o robe s’avessero, senza veruna condizione rimisero nella potestà dell’imperatore, non ristando in ginocchio e piangenti di chieder mercè della vita. Quegli al consiglio di donna Beatrice, imperatrice augusta, e de’ principi della corte, mosso da pietà li graziò del capo, concedendo loro colla vita quanto di mobil s’avessero.
E ordinò poi che si spianasse la città fin alle fondamenta, e che i Milanesi, a due miglia di là, andassero ad abitar quattro borghi, colla condizion però che ciascun d’essi venisse costruito a due miglia dagli altri tre.
[Mediolam sest … , Milano distrutta]
E così fu fatto. Onde le città e le terre tutte di Lombardia, e delle parti marittime in fino a Roma, prese di troppo timore, venner insieme in obbedienza dell’imperatore. Pur anche i Genovesi, invitati a corte, s’affrettarono a mandar a Pavia ove ei la tenea, (e ove furono con onor accolti) tra consoli e migliori della città, Guglielmo Boirone e Grimaldo, consoli, e Guglielmo Vento, Marchio della Volta, Enrico d’Oria, Oggerio di Guido, Oberto Spinola, Filippo di Justa, Buonvassallo Bulferico. I quali come colà i principi di Corte si studiavan di persuaderli da parte dell’imperatore a prestar lui fedeltà e quanto le altre città e terre a lui avevano fatto e facevano, risposer che essi erano, ed eran sempre stati pronti, senza frode alcuna, ad obbedir ogni comando dell’imperatore: pure, siccome i Genovesi sopra ogni altra città o terra d’Italia più avanzan nel servir l’impero, così impetravan con umiltà l’imperiale eccellenza di aver sopra gli altri del servizio. Poiché l’imperatore ebbe udita tal risposta, molto se ne compiacque e ordinò che ad essi, del suo buon volere e di sua grazia, fossero date lettere pe’ consoli e il popol tutto di Genova. Colle quali e pe’ legati stessi li invitava che entro gli otto di, senza ristarsi, gli rispedissero sei od otto tra consoli e migliori cittadini co’ quali ei potesse del servizio dell’impero e della retribuzion di quel servizio, trattar di competenza. E i consoli allora, con il consiglio del Comune, gli mandaron due de’ colleghi, Ingo della Volta, e Nuvolone, e cinque tra i primi della città: Lanfranco Pevere, Bertramo de Marino, Ido Gontardo, Buonvassallo Bulferico, Rogerone de Ita, e con loro Giovanni scrivano del Comune fido uom e di grande dottrina legale, alla cui fede ogni anno si commettea la scrittura di tutta la cosa pubblica. I quali tutti giunti a corte, e con onor ricevuti, come ebber di molto trattato per più giorni con Rainaldo arcivescovo della Santa chiesa di Colonia, e arcicancelliere del regno d’Italia, e legato dell’imperial maestà, (l’intelletto e la fama di costui seguon a passo a passo Cicerone) e con altri primi di Corte, tosto vennero a giurar fedeltà, promettendo quel determinato servizio, che è scritto nel libro de’ privilegi. Onde l’imperatore assicurò i Genovesi dell’intere regalie e delle possessioni che riteneano, e molti altri vantaggi a loro die’ in più in perpetuo, con diploma segnato di aureo suggello.
Ed or tacendo dell’imperatore accenni Caffaro come Alessandro papa al tempo di questi consoli sommi onori attribuisse alla chiesa di Genova: e come ei si studiasse a ciò con modi e fatti molti (ed è detto nel privilegio che le concesse).
Nè Caffaro tralasci quanto accadesse a’ Genovesi in lor città e fuori. Radunar essi (al tempo di questi consoli) immensa preda, Pisani molti presero con loro galee in lor porti: e di quelli una parte, i più eminenti, uccisero, l’altra addussero in prigionia a Genova, con il bottino. Ma di chi la colpa? Perchè cosi agirono? È d’uopo dunque (e vi provvederà Caffaro con il suo racconto) che la verità si conosca. Sta dunque per vero che un tempo Genovesi e Pisani si scambiassero sicurtà di pace con giuramento: rispettarsi persone e averi; aiutarsi a vicenda ove occorressero d’aiuto; fuorché, però, in Sardegna la quale i Genovesi tolser dal patto, come pur se ne ritennero sciolti sempre che lor piacesse mover guerra a’ Pisani per essa. (s’eran questi rifiutati ad averla in comune co’ Genovesi). Così per assai tempo fin ad ora mantennero pace a vicenda: benché i Pisani allorché s’imbattessero in paesi stranieri co’ Genovesi, non si ristassero di beffarli come è lor uso; onde il diavolo, nemico del genere umano, ebbe modo (come si vedrà in seguito) di seminar la discordia tra loro. Perocché, or poco innanzi, un migliaio d’essi (tanti erano in Costantinopoli) s’attentarono di aggredire, a fin di preda e di morte, quei pochi mercanti genovesi, men un terzo di loro. Allor questi al vedersi contro ogni diritto assaliti diedero, anch’essi, di piglio all’armi, a difesa loro e di lor robe tutto un dì con fiero animo contrastando a’ Pisani. Come poi cadde la sera e questi conobbero che non potean vincerli disser loro:
«Passiam sopra a quel che è stato e scambiamoci sinceramente promessa che simili fatti in niun modo si ripeteranno».
E così accordatisi abbassaron l’armi. Non pertanto, il mattin dopo, i Pisani, aggiunta a loro una plebaglia di Veneti, di Greci, e di quanti altri scellerati si ritrovassero in Costantinopoli, coll’armi alla mano, corsero al sacco del fondaco de’ Genovesi. Questi, stimando che non potean resistere a tanti, abbandonaron loro gli abitati e l’avere fuggendosene soli. E i Pisani allor invaso il fondaco fecer preda delle mercanzie che v’erano (e potean valer un trentamila perpèri) e preso un nobile giovane genovese, il figlio di Ottone Rufo, lo trucidarono. I fuggitivi intanto affrettatisi in patria contaron per segno l’accaduto. E i cittadini, ecco in lor impeto di dolore, correre ad armar galee, ecco in lor precipitarsi con armi, con remi, con vitto, con un sol pensiero, tutti: come gli assetati all’acqua. E cosi che in un sol giorno, senza pur comando de’ consoli, xii galee apprestarono. Vietaron questi di salpare finché non avesse esito lor lettera di diffida a Pisa, e nel tempo stesso, un corriere con questa a Pisa affrettarono. La quale così dicea:
«Ai consoli e al popolo di Pisa i consoli di Genova. Da troppo maltrattati, di continuo perseguitati da voi, in ogni lido del mondo, nè lasciati mai posar dove siate potenti, poiché ignominia di scorni, frequenza non più tollerabile di danni, crudeltà di stragi atrocissime, e morte contro ogni diritto non pur de’ nostri quali si siano, ma anche de’ nobili e, oltre il resto, la calunnia con cui voi, senza restarvi, ci siete andati dipingendo come nemici senza fede veruna, non vi potrebbero parer cause bastevoli alla guerra, noi vi diam qui avviso che più non tolleriamo l’usurpazione della Sardegna, la quale la città nostra liberò da’ Saraceni e la invasione de’ nostri fondaci, i quali per sola ragion di forza or vi godete. Pertanto noi ci stimiam sciolti dalle condizioni della pace conchiusa, non dovendo esser tenuti al dovere di un patto calpestato. E perciò appunto questa diffida vi notifichiamo».
Tornato poi il corriere con risposta nè d’utilità alcuna nè di accordo i consoli rilasciarono agli uomini delle galee l’ordine di correr pure a vendetta. Questi obbedendo con rapido animo si diressero a castigar il tradimento e la rapina de’ Pisani. Di quelle galee dodici furon sopra Porto Pisano: ne diroccaron la torre del porto mentre il risapeano, il vedeano, senza potersi opporre, uomini e donne di Pisa; più e più navi con ciurme e col carico presero: rimisero a Genova i cattivi e il bottino, ma le navi diedero abbandonate al fuoco. Poi indietreggiando su Porto Venere vi si appostarono, chè se, a caso, le galee de’ Pisani uscissero d’Arno, avanzando, essi le potessero prendere in mezzo, con l’altre che risalissero da Genova. Altre quattro galee erano intanto pur ite a caccia di Pisani per Corsica e per Sardegna; e anch’esse più e più navi presero e saettie ed una galea che con lor procedea ad avviso ed a scorta, e un consol, che v’era, a nome Bonaccorso, che invigilava una larga provvigion di denaro. Di quei prigioni Ottone Rufo che s’era ei pur partito con quelle quattro, a vendetta del figlio morto, egli e i suoi compagni, uccisero il meglio: i superstiti a Genova trassero con il console, e con la preda tutta. Quando i Pisani ebber notizia di queste lor ruine, tra i pianti dei loro morti e il dolor del perduto, presero ad armar galee e saettìe a difesa delle navi che dovean giunger di fuori. E intanto accadde che il cancelliere dell’imperator Federico passasse di là; si gettaron essi ai suoi piedi implorandolo che ei richiedesse a’ Genovesi, cavandoli di quel carcere, il console con gli altri cattivi. Quegli, mosso a pietà, il cappellano suo, Sicardo, uom in verità chiaro per ogni possibil finezza, spedìa a Genova perchè a’ Genovesi chiedesse, per amor di Dio e pel suo, che quei Pisani gli volessero rimetter in dono, e significasse loro un suo ordine di ristarsi pe’ primi da’ danni finché sulle offese scambiate non avesse giudicato l’imperatore. Piegarono i Genovesi alla preghiera e al comando: le galee, le saettìe, cui attendeano per accrescer la guerra, ristettero d’armare; e il console e gli altri cattivi, posero in man di Sicardo pregandolo a lungo che l’ordin portato loro di sospender dall’offese non tralasciasse di, ripeter a’ Pisani. Come poi l’arcicancelliere conobbe i Genovesi aver a tanto obbedito, die’ loro parola che non poco, quindi, la sua benevolenza e la sua protezione lor avrebbe accresciuto; e l’ordine lor dato pur tosto ingiunse a’ Pisani. E questi, pure, tra l’allegrezza del ritorno de’ loro promisero. Ma poco dopo trentasei tra galee e saettìe, con l’astuta apparenza di scorta a lor navi, indirizzarono in Sardegna, e queste alla Pianosa predaron due legni dei Genovesi che senza sospetto tornavano. E corsane notizia le xii galee, che eran in Portovenere, uscirono incontro alle pisane; vi si imbatterono che riveniano verso Arno; e tutto un di, or serrandole da presso, or da lor dilungando, procedettero a lor fianchi: molti delle ciurme nemiche di saetta feriti; lunghe le loro voci di sfida perchè si misurassero con loro a battaglia: xii galee contro xii. Cui i Pisani, trepidando, si rifiutarono. Ed ecco con tutte lor xxxvi correre insieme sopra le genovesi: tentare in un impeto di prenderle in mezzo: ma i Genovesi, rapidi come falconi, rivoltisi, discostarsi, quasi balzando però a quando a quando con repentini assalti, indietro, levati in armi, alzando i vessilli: e cosi poiché li ebbero, quanto fu il giorno, delusi, li lasciarono andar sulla sera. E dilungando per Pianosa (che diroccarono) per Corsica e per Sardegna, molte navi e galeotte pisane presero con il carico e con le ciurme; e passando, di ritorno, per Porto Pisano, si ricondussero, senza lor danno, a Portovenere, donde tosto mandarono a’ consoli di Genova per l’accaduto. E i consoli, sdegnati del tradimento, si ridiedero ad armar legni in gran numero e la concione raccolta comandarono al popol tutto (ed esso lor prestò il solito giuramento) che tosto provveduto di vettovaglie e degli arnesi da guerra, movesse con grande stuolo di mare su Porto Pisano alla vendetta. A cui tutti che eran nella concione con animo in fiamma risposero:
«Sia!, sia!».
Pronta ogni cosa capitò a Genova l’arcicancellier dell’Imperatore: e al racconto dell’accaduto si mostrò afflitto assai: pur e ancor comandò di ristarsi, finché quei fatti fossero conti all’Imperatore: e che perciò otto Genovesi e otto Pisani si dovessero portar a Torino ad ascoltarlo e a obbedirlo. Spediron tosto a corte i Genovesi, lor console Grimaldo, e Caporgogio, Lanfranco Pevere, Corso, Oberto cancelliere, Simone d’Oria, Baldizone Usodimare, Bigoto, Guido da Lodi e Ottone il milanese; e i Pisani da parte loro, Enrico e Pietro, lor consoli, Marzocco, Gerardo di Gauffredo, Rainerio Gaetano. Questi tutti si portarono a Torino, alla corte che l’imperatore aveva stabilito che colà si tenesse. Pronte i Genovesi lor risposte: e i Pisani coll’opinion di aver vittoria mercè lor solita garrulità: ma quelli quattro o cinque dì prima vi sepper giungere, e intanto s’andarono acquistando il favor di tutti i primi di corte, così che quando arrivarono i Pisani non ardiron di aprir bocca a un sol raggiro canoro. Aggiungi che il dì famoso, in cui l’Imperatore volle esser incoronato insiem con Beatrice augusta (e appunto Beatrice perchè di sua bontà fa tutto l’impero beato) mentre nella basilica eran pur convenuti i Genovesi e i Pisani istessi, questi si vider sospinti fuor e cacciati, con loro scorno dal coro, perchè i Genovesi s’eran posti colà in alto per aver libero lo sguardo per la chiesa intiera e intorno ai due augusti. Poco a ciò innanzi, allorché Raimondo Berengario conte di Barcellona, che pur si recava a corte, era venuto a morte in Borgo di San Dalmazzo, e l’imperatore v’era accorso, s’avea ei condotto seco il console Grimaldo e Simone d’Oria e Caporgogio. E tornato, comandò tanto a Genovesi, quanto a Pisani, già mentovati, che in niun modo venissero a querela e a danni fin al suo ritorno, poiché egli s’era già apparecchiato a risalir in Allemagna e non potea, per l’urger del viaggio, ristarsi a decider le liti loro. Pertanto così a’ Genovesi come a’ Pisani fe’ giurar tregua fin al suo ritorno, coll’obbligo che entro tre giorni da che fosser tornati a Genova e a Pisa si sarebber curati che dugento di loro lo ripetessero. E così compirono.
Questo dunque, e molt’altro, i Genovesi, in città e fuori a vantaggio della patria, come era comune de’ Romani, con sapienza, fortezza, a lor decoro, quest’anno. E in città furon cosi sapienti moderatori che la concordia (oltre lor principio) non si turbò, anche la mortal inimicizia de’ Piccamigli con i figli del fu Oberto Usodimare sotto il vincol del giuramento stabilmente quietando. E in sopra più a pubblica utilità comprarono e abbatterono molte taverne in sulla riva del mare tra il fossato di Bucceboi e quel della chiesa di San Sepolcro, e colà disposero e stabilirono scali per comodo delle navi: cui di sopra aprirono una diritta via con un ponte sopra il fossato di San Sepolcro. Poi al termin del loro consolato sei consoli per il Comune e quattro per i placiti fecero eleggere; a cui quanto denaro della pubblica cosa s’aveano, e come lo avean raccolto, e come ne avean speso per iscritto ed ordine lasciarono. E fu 1’ anno 1162.

1163
E questi furono i sei consoli del Comune (correa il xlii reggimento di un anno): Rogerone de Ita, Guglielmo Cassicio, Guglielmo Vento, Amico Grillo, Oberto Spinola, Lanfranco Pevere; e questi i quattro de’ placiti (e per i cittadini tutti): Corso di Serra, Ottobono fratello di Nuvolone, Oberto cancelliere, Ugo di Baldizone.
Ogni uomo che regga città o luogo, ed abbia a decider di lor dubbie cose è necessario che penda nè ad amor nè ad odio come disse un sapiente:
«Per quel cui tu vorrai attendere può l’ingegno; ma se la passion ti tiene, essa ti soprafà e l’intenzione non conta».
Perciò i consoli delle città e de’ luoghi convien che da’ predetti due opposti, cioè da odio e da amore, si astengano, onde la passione nè d’odio nè d’ amore li faccia rifuggire dalla seminagion della verità; ma sempre essi apprendano a giudicare secondo il diritto. Pel che si può dire al vero che la fama de’ consoli genovesi nell’aumento della pubblica cosa e nel sentenziar senza orecchio venale sorpassi tutti affatto i lor vicini di città e luoghi. Onde Caffaro non sia pigro nel dar notizia, come è solito, come anche questi consoli amministrassero il Comune e la giustizia. E se ne abbia dunque notizia: aumentaron dessi la pubblica cosa; feriron di giustizia ladri e assassini e colpe altre molte, provvidero che liti e risse nè in città accadesser nè fuori; e così nella concordia de’ cittadini con decoro e fermezza in sin alla fine del tempo. Perocché e i ladri e gli assassini che già anni parecchi si eran nascosti in città, con frequenza rapinando l’altrui ricchezza, dessi scovarono, e presili, come i parricida con pie’ e mani legati, e al collo una pietra, gittarono in mare perchè morte si avessero. Onde ladri, assassini e quanti altri dati ai litigi ed alle risse, per timor della pena, desistettero, per quel tempo, dalla lor opera. E poi al termin del loro reggimento questi consoli l’introito e l’uscita tutta della pubblica cosa, in che modo e donde avean ricevuto, come, e a chi avean pagato, nella concion tenuta all’aperto, in cospetto di tutti, dimostraron per iscritto con ordinata lucidezza. E poiché tra l’introito e l’uscita avanzan settemila e ottocento lire e mezza (e come si venisse a quel conto è pure scritto nel registro del Comune) dier questa somma in custodia de’ nuovi consoli. Che dir poi de’ lor colleghi delle cause se non che per tutto lor tempo all’equità e alla giustizia servirono con ogni possibil lode?
L’ultimo dì di settembre Siro, di buona memoria e di lodevole vita, primo arcivescovo di Genova, pagato il suo debito alla natura, invocando il Signore, dalla terra al cielo, da’ mortali ai celesti gaudi sali colà meritando di esser felicemente assunto alla compagnia dell’altro Siro, che a lui precedette, santissimo vescovo di Genova e di altri molti beati. E nel dì stesso della di lui sepoltura i chierici, i religiosi, i consoli pur anche, con molti senatori, si radunarono, tutti accordandosi nei modi della nuova elezione. Questa per consenso di tutti commessa fu agli abati di San Benigno, di San Siro, di S. Stefano; ai prevosti di Santa Maria delle Vigne, di San Donato, ai preti: Giovanni di San Damiano, Vassallo di S. Maria di Castello, Oberto di Sant’Ambrogio e ai canonici Ribaldo prete, Anselmo maestro, e Dodone suddiacono. Questi cosi giurarono:
«La grazia dello Spirito Santo sia su noi. Io con i compagni assegnatimi, senza frode e dolo alcuno, nonostante la persuasione dell’amore e dell’odio, il timore, il render altrui servizio, eleggerò arcivescovo di questa città quella persona che per costumi e coscienza mi conosca a questo ufficio più adatta, e più onesta e più utile».
[arcivesvovo Ugo]
E così giurato convennero gli elettori davanti all’altare di San Lorenzo e posando, prima di volgersi ad altre parti, gli occhi della lor mente sui canonici di quella chiesa, scelsero ad arcivescovo Ugo che ne era allor arcidiacono. Ed egli il di stesso dal clero e dal popolo fu posto, tra il comun contento, in sulla cattedra. E cosi fu l’anno 1163.

La traduzione del testo originale in latino è tratta da: Annali genovesi di Caffaro e dei suoi continuatori, traduzioni di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi e di Giovanni Monleone, a cura del Municipio di Genova, 1923.

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XI – XII secolo

‘A   COMPAGNA e URBANISTICA

 Barbieri Piero, Forma Genuae, Edizioni del Municipio di Genova, 1938.

TAV 06 GENOVA 1000 LEGENDA

La mancata affermazione sulle città liguri marinare di un dominante governo feudale aveva fatto sì che Genova al pari dei centri di Savona e Noli sfuggisse in realtà al potere del feudatario cui non rimase che accontentarsi di una autorità formale rappresentata dai visconti di origine romana, costituenti poi la prima grande nobiltà genovese. Costoro esercitavano il po­tere specialmente sulle vallate e sui colli, mentre in città il popolo dei marinai pescatori e artieri si organizzava in Compagne attorno alle famiglie notabili abitanti nelle varie contrade e aventi uguaglianza di interessi. Queste Compagne dapprima esistenti solo per un determinato tempo e per una determinata impresa, poi aumentate di numero e fatte permanenti, si eleggevano dei capi detti comiti o vice-comiti, e quindi Consoli, che erano ad un tempo governatori, generali e giudici. Che essa fosse in origine una società essenzialmente commerciale secondo alcuni, o sem­plicemente un’organizzazione dei cittadini atti alle armi (55) secondo altri, non ha tanto inte­resse per noi quanto il fatto che le Compagne salite al numero di otto, corrispondevano ai rioni in cui era divisa la città, e che alle Compagne davano il nome: Castri, Platae Longae, Maca­gnanae, S. Laurentii, Susiliae, Portae, Portae Novae, Burgi (56): i soci ne dovevano giurare il Breve, vale a dire lo Statuto, e dovevano essere pronti ad eseguire quanto loro veniva ordinato sotto pena di perdere i diritti civili (57).
Quando le Compagne riunite trasfor­mandosi da istituzioni semi-private in ente di carattere pubblico sfociano nel Comune, una delle azioni positive al loro attivo è quella di obbligare a poco a poco i signori delle terre vicine a giurare i loro patti, a entrare nella società, soprattutto a prendere obbligo dell’abitacolo in città.
Questo fatto, insieme alla nuova sede della Cattedrale e alle esigenze portate dall’accrescersi della potenza e dei mezzi che appare evi­dente a partire dal X secolo, fa sì che la città attorno all’epoca della costituzione dei Consoli senta il bisogno di espandersi decisamente ad occidente, verso Soziglia, e conduce progressiva­mente alla fisionomia medioevale di Genova: il borghetto a San Matteo, la chiesa ed il Mona­stero delle Vigne, i macelli col mercato a Soziglia sono i nodi attorno a cui s’intessono i nuovi quartieri romanici.
E la trama di questa edificazione ha a sua volta un aspetto caratteristico che si distingue con facilità da quello radio-concentrico di Sarzano, intersecato e frammentario di Palazzolo, convergente di Porta Soprana, quadrilatero di Canneto, radiale nella prima zona ad anello subito attorno alla riva.
In un punto della via Conservatori del Mare, prossimo a San Pietro di Banchi, con­vergono due arterie quasi esattamente a squadra tra loro : la via della Posta Vecchia in direzione sud-nord che dalla Porta di Banchi porta dritta a Castelletto, ed il vico Indoratori in direzione trasversale. Sempre nello stesso pulito, inclinata a 45° rispetto alle due precedenti è la via di So­ziglia, formata dalla copertura dell’antico rivo di Susilia: essa fa da spina dorsale ad un sistema di arterie che ne divergono non rettilinee ma quasi curvate ad archi di cerchio, concentrici rispetto a un polo che resta all’incirca situato all’altezza dello sbocco attuale della salita Santa Caterina sulla piazza Fontane Morose. Ciò che è particolarmente caratteristico è la concavità di questi anelli concentrici, perfettamente opposta alla concavità della Ripa.
Questo schema si manifesta in pianta con una figura che dà l’impressione di una espan­sione a macchia d’olio, ma in verità il processo di formazione è tutt’altro. Qui abbiamo tre cor­renti di traffico rettilinee, ciascuna costituente un motivo a sè e neanche contemporanee: ai piedi del Castelletto una infilata di vicoli serviva a tendere una comunicazione diretta tra la piazzetta di Santa Maria degli Angeli alle spalle di San Siro e la piazza Fontane Marose, con andamento pressochè parallelo a quello che verrà a suo tempo seguito dalla attuale via Garibaldi; dall’altra parte, con direzione a questa perpendicolare, un’altra strada, la via San Sebastiano, cioè il Car­rubeus Papie vel de Pavia (58), tirava dritto alla sommità dell’attuale Villetta di Negro, cui doveva sovrastare un’altra antichissima difesa; e proprio diagonalmente alle due incide il rivo, e quindi la via di Susilia. Sul fianco delle due arterie il terreno si solca con divisioni inizial­mente normali alla direzione di ciascuna; analogamente sul rivo si hanno solchi ad esso normali, ma perciò inclinati a 45° rispetto agli altri due sistemi: l’interspazio si adatta a lasciar raccor­dare le tre lottizzazioni mediante il tracciamento di congiungenti che spontaneamente si dispon­gono in curva. Il raccordo curvo è anche quello che consente di risalire il più dolcemente dalla depressione del rivo alle maggiori quote tenute dalla via S. Sebastiano e dalla antesignana di via Garibaldi.
Accresciute le abitazioni da San Matteo alla Maddalena a San Siro alle Vigne, e speri­mentata ormai la convenienza delle difese a Luculi e a Castelletto, quando la minaccia del Bar­barossa consigliava i Genovesi a consolidare e ampliare il giro delle mura, queste abbracceranno la nuova zona d’ampliamento toccandone le vette recingenti. L’annalista Caffaro ha lasciato scritto che i Genovesi muros et portas ex utroque latere edificare ceperunt (59): uno di questi lati va fissato alla foce ed a sinistra del rivo di S. Sabina, il flumen sancte Savine – l’altro in vetta al Brolio. La lunghezza delle nuove mura si notava in 5520 piedi genovesi, e si numeravano i merli in 1070 – il piede genovese corrisponde all’antico piede romano, e misura perciò metri o,287.312,- quindi i 5520 piedi ci danno ml. 1641,16 di sviluppo totale, che è la lunghezza del percorso delle mura dalla Porta dei Vacca alla Porta Soprana, vale a dire i due capi estremi accennati dal Caffaro.
Queste mura cominciavano dal mare a mezzo di un Molo vicino al quale si apriva la
porta nuova di Santa Fede, poi detta dei Vacca; quindi staccandosi dal rivo di Santa Sabina per­correvano la pianura del Guastato dove era una Porta detta di S. Agnese tagliando fuori la chiesa e di là, superato l’erta di Montealbano a cavaliere della quale stava il Castelletto, ridiscen­devano alle Fontane Marose lasciando libero il corso mediante un portello al torrente della Valle di Bachernia dove era una porta che si intitolò al varco stesso. Da questo punto guada­gnavano la sommità di Luculi, ora Villetta di Negro, per calare nuovamente al basso lì dove nel 1228 sorse poi il Monastero di Santa Caterina con una porta che tolse lo stesso nome dopo essere stata chiamata di San Germano da una chiesa che sorgeva fuori cinta, proseguivano per la vetta di Piccapietra dove la Porta Aurea lasciava adito alla regione esterna degli Archi e si avviavano verso il Brolio comprendendo in quest’ultimo tratto una porta che dal vicino tempio si intitolò di S. Egidio. Raggiunta finalmente la prossima vetta del Brolio si collegavano all’an­tica cinta del secolo X dove già stava la Porta Superana che veniva ricostruita.
Di qui proseguiva la cinta preesistente percorrendo il dorso del Colle per andare ad unirsi alle vetuste fortificazioni del Castello, ma prima ampliandosi in fondo a piazza Sarzano per rin­chiudere entro il circuito la chiesa di San Salvatore che ne era fuori, e ingrandire così la piazza stessa.
Del molo d’inizio alla foce del rivo di Carbonara venivano poi in luce le tracce durante la costruzione del canale fugatore di via Carlo Alberto; ricordato in antiche pitture, esso è citato con speciale notizia in una nota del 21 Gennaio 1498 per concessione fatta da un Battista Panigassio de quodam muro in mari per contra domun suam in contrata Porte Vacarum (60).
La costruzione della cinta del Barbarossa venne compiuta in più riprese dal 1155, anno della delibera, fino al celebre perfezionamento che del 1159 operibus tocius civitatis et plebium dierum quinquaginta trium in digito Dei peractum est (61): in uno colla difesa diplomatica dei privilegi che Caffaro sostiene concessi ab antiquo e confermati per romanos imperatores, essa esprime a qual punto era sentito l’orgoglio dell’indipendenza nella Genova consolare. Ad am­monimento del forestiero, la fierezza e la potenza della città questo potevano incidere a quei tempi sulla Porta Soprana: si pacem portas licet has tibi tangere / portas si bellum queres tristis victusque recedes / auster et occasus septemtrio novit et ortus / quantos bellorum superavi Janua motus.

Note e Bibliografia. (55) Henrich Slieveking, Studio sulle finanze genovesi nel Medioevo, Atti S.L.S.P., 1906. (56) Cartularium di San Giorgio, 1471­. (57) Relazione sul frammento di Breve genovese – Atti S.L.S.P. Vol. I. (58) Arch. Civ. Atti 11 Luglio 1605. (59) Caffari, Annales, 1155. (60) Arch. Civ., Cartulario, 1498-99. (61) Caffari, Annales, 1155.

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 XI secolo

Steven A. Epstein, Genoa and Genoese, 958.1228. North Carolina University press, 1966.

Le informazioni che ci sono giunta riguardanti le chiese e i monasteri, dopo 958, ci mostrano un un periodo molto oscuro della storia genovese. La maggior parte delle carte riguardano la grande abbazia benedettina di Santo Stefano, in questo periodo, al di fuori delle mura della città, descritta in termini quasi malinconici come non lontano dalla Porta Soprana e appena ad est della città – abbastanza vicino per fuggire verso la sicurezza in caso di attacco (vedi mappa 3).

 

In questi primi anni della sua esistenza Santo Stefano era un monastero doppio con le comunità maschili e femminili con una badessa e un abate. Le carte esistenti rivelano una serie di abati che gradualmente ampliano le proprietà terriere dell’abbazia per acquisto o, ancora più importante, per donazioni pie nella valle del Bisagno, a Prato San Martino, e nei piccoli villaggi lungo la costa Man mano che gli abati acquisivano proprietà venivano da loro loro cedute in affitto, sia per 29 anni o in perpetuo in affitti bassi che solitamente richiedevano alcuni pagamenti in grano o in animali. Gli abati di tanto in tanto hanno venduto degli immobili per acquisire il denaro in argento di Pavia per comprare terre più vicino al centro della loro sfera di attività. Queste carte, alcune in stentato latino, rivelano anche che gli scribi professionisti ed i notai, erano attivi a Genova. In una cultura ancora prevalentemente orale, i notai, al servizio della Chiesa, se non gli stessi sacerdoti, conservavano per iscritto questi atti di vendita, di affitto, o di pia donazione. La precisione relativa delle carte scritte alla fine del X secolo, rivela un popolo che ragionava sistematicamente su come gestire i terreni e le annotazioni per sostenere una comunità.

Queste carte (Belgrano L.T., Cartario Genovese) ritraggono nel loro insieme i complessi costumi locali a Genova e le persone che affermano di vivere della legge Romana o Longobarda o Salica. Ad esempio, nel 1019 Ingone, vivendo nel diritto romano, e sua moglie Richelda, vivendo secondo la legge longobarda, ha voluto confermare il dono della terra a Santo Stefano. Poiché Richelda era una longobarda aveva bisogno di avere il suo mundoaldus (protettore legale maschio ) per informare i suoi parenti più stretti, in questo caso, i suoi due figli e un altro uomo, che le aveva dato la terra e che la pietà e non la violenza l’aveva spinta al dono. Questa terra era già proprietà di Santo Stefano di su tre lati immobili, così ancora una volta spicca il lento processo di costruzione di un patrimonio. Ma in diritto longobardo una donna ha dovuto ottenere il consenso dei suoi parenti maschi per alienare i terreni, così anche un marito romano doveva tenere tutto questo in mente. La maggior parte delle carte superstiti del periodo 950-1050 coinvolgono la chiesa, ma alcuni documenti riguardano solo i laici. In questi casi, se la terra o altri beni eventualmente passavano alla chiesa, carte precedenti dovevano sopravvivere, perché hanno fosse dimostrato titolo. Una curiosa carta prima del 1005 annnotava che un certo Armano, vivendo secondo legge Salica, aveva venduto ad una coppia, Benedetto e Benedetta, per dieci solidi, uno schiavo, una donna Burgunda di nome nome Erkentruda. Nella lunga storia della schiavitù genovese è la prima schiava che ha un nome. I venditori hanno promesso che non era una fuggitiva o era stata rubata, o malata, ma in salute nel corpo e nella mente. Come questo documento sia sopravvissuto non è chiaro, ma Erkentruda probabilmente divenne a un certo momento di proprietà della chiesa.

Un altro famoso monastero locale era l’eremo cluniacense di San Fruttuoso di Capodimonte (di Camogli), edificato nel 984 che ha attirato l’atenzione e la carità dell’imperatrice Adelaide negli anni 990.Una carta dell’aprile 999 registra una donazione dell’imperatrice alle terre del monastero del Brugneto e di altre. Una attenta revisione della carta, probabilmente a partire dal XII secolo, attesta che l’imperatrice ha donato a San Fruttuoso tutto Portofino e ampi diritti di pesca e di caccia. Il falsario ha riempito la carta di elementi anacronistici; Genova aveva un arcivescovo e consoli nel 999, di più di quanti i genovesi medievali ne hanno avuti in questo periodo della storia della loro città. Ma qualcuno ha pensato che sarebbe stato vantaggioso per il monastero di avere la proprietà di Portofino.

Carte del secolo XI indicano inoltre come l’economia locale ha offerto opportunità per migliorare le modeste possibilità agrarie della Liguria. Nel 1025 l’abate Eriberto di Santo Stefano ha affittato un pezzo di terra a Gisulfo e ai suoi eredi per dieci anni. Gisulfo già aveva terreno su due lati di questa nuova proprietà. Pur pagando un piccolo affitto di un centesimo di un anno, Gisulfo avrebbe dovuto piantarvi una vigna e costruire una casa. Al termine [del contratto] tutto doveva essere diviso e l’abate Gisulfo ne otteneva la metà. Altri esempi di questo tipo di incentivo per gli affittuari di accrescere la proprietà ci suggeriscono che la forza lavoro scarseggiava rispetto ai terreni e quindi si poteva pretendere un premio. L’agricoltura di montagna, sempre particolarmente impegnativa, richiedeva un certo livello di popolazione a mantenere l’irrigazione e la lavorazione del terreno necessarie alla aglicoltura. I terrazzamenti, che necessitano ancor più lavoro per costruire e riparare i muretti, non sembra essere stati frequenti nei secoli medievali, soprattutto quando la città attirava le persone ad un lavoro più redditizio.

Un’altra impresa interessante si è verificata nel 1012, quando Amerada e Conrado, madre e figlio, un certo Giovanni, e i quattro figli del defunto Venerioso, ciascuno per un terzo sono diventati partner per la costruzione di un mulino sul Bisagno sulla terra di Amerada. Le altre due partiti hanno contribuito al lavoro di costruzione del mulino, dell’acquedotto, della vasca e presumibilmente pure dei materiali. Amerada e Conrado dovevano ricevere ogni anno un quarto del reddito dal mulino e due polli e parti di carne. Gli altri partner gestivano il mulino e si dividevano il resto del reddito. Ancora una volta, questo tipo di duro lavoro per migliorare le terre affittate dalla chiesa e da altri ha permesso di produrre un po’ di benessere al di fuori dei limitati vantaggi naturali della Liguria. Inoltre, questa forma di contratto con cui i partner hanno contribuito con differenti quantità di capitale e/o di lavoro prefigurava gli strumenti commerciali che avrebbero determinato il corso del commercio genovese nel secolo successivo. L’abitudine di mettere in comune le risorse e il calcolo dei profitti non è stata costituita inizialmente in mercati lontani o nel commercio a lunga distanza, ma invece ha origine nell’umile commercio agricolo.

All’inizio dell’ XI secolo l’antica nobile famiglia degli Obertenghi, che aveva ottenuto la marca di Genova nel X secolo quando aveva unito Genova, la Lunigiana, Tortona, e gran parte della pianura lombarda, si era divisa e dispersa in una aristocrazia locale con quattro rami principali: gli Estensi, i Pallavicini, i Malaspina e gli Adalbertini di Gavi.

I visconti di Genova non contavano più in città e si erano trasferiti in campagna per costruire il loro potere; alcuni di questi nobili sarebbero poi passati di nuovo in città e prendere posizioni di rilievo nella società. La famiglia Malaspina era la più coinvolta con Genova, ma non ha mai preso la residenza lì. Nel 1056 il marchese Alberto [Alberto di Oberto-Obizzo (I), aveva nel 1056 riconosciuto e giurato le consuetudini della città di Genova, in un certo qual modo cedendo alla città molti contenuti di quello che era stato il potere marchionale. http://www.treccani.it] ha confermato i costumi della città, con questa carta che ci dà il primo sguardo reale su Genova per quasi un secolo.

Analizziamo le disposizioni della presente Carta nello stesso ordine di massima in cui appaiono nel documento; questo metodo dà un senso di ciò che le parti ritenevano importanti. Il Marchese Alberto ha promesso i genovesi gli stessi diritti che i loro genitori avevano e garantito, loro la capacità di far rispettare le carte redatte dai notai opportunamente assistiti. Se il notaio era vivo, avrebbe dovuto giurare che il documento in questione non conteneva alcunchè di falso. Il giuramento presumibilmente rassicurava tutti gli analfabeti che dipendevano da ciò che non sapevano leggere. Questo innanzitutto enfatizzava la validità dei documenti rivelando una comunità con un mercato fondiario attivo ed un vivo desiderio di adeguarsi al diritto pubblico. Le donne lombarde avevano il diritto di vendere o dare via i loro beni in base alla loro abitudine. I servitori della chiesa, i re e i conti sono stati autorizzati anche per vendere o donare le loro proprietà e terreni affittati a loro piacimento; queste vendite e regali erano validi secondo le consuetudini correnti. Tutte queste disposizioni rivelano un tentativo di creare una base per la fiducia con cui le persone possono contare su documenti piuttosto che sulla forza per trasferire le proprietà. I marchese ha assicurato i genovesi che non sarebbero stati costretti a dimostrare la loro situazione agli stranieri per ordalia o con la lotta, due metodi già soppiantati dal ricorso alla parola scritta.

La successiva serie di disposizioni riguarda le relazioni tra le persone appartenenti ai poteri municipali e locali: i nobili e la chiesa. I genovesi non potevano essere chiamati in qualsiasi tribunale al di fuori della città o da qualsiasi marchese o visconte nella regione. (Più tardi la carta rilevava che il marchese aveva ancora il diritto di porre le persone al bando, ma è durato solo quindici giorni. Finché giunse a Genova per ascoltare sul caso.)

In generale, i genovesi avevano il diritto di esercitare la giustizia su se stessi ed erano praticamente immune dalla nobiltà. La chiesa figurava in in questa carta come il principale proprietario terriero della zona. Il Marchese Alberto confermava che le persone che avevano le terre della chiesa in locazione e che non erano in grado di pagare l’affitto ogni anno a causa di “gravi necessità” sono state autorizzate a pagare entro dieci anni senza pena. Questa clausola era applicata solo alle terre affittate dalla chiesa, non dalla nobiltà o laici in generale. Il prossimo dispositivo riguarda le persone che vivevano a Genova, perché fuggiti dai pagani per difendere il loro diritto di salvarsi, suggeriva che parte di questa “grave necessità” potrevs rsser dovuta alla insicurezza nella campagna genovese causata da predoni musulmani. Un altro segno dello status speciale della chiesa appariva nella regola che tutti coloro che avevano investito nella terra per 30 anni senza che vescovo, arcivescovo, abate, avvocato, rettore, o conte sollevasse questioni dovevano continuare a possedere quello che avevano, a condizione che cinque uomini fossero disposti a giurare la presunta durata del possesso. Ma alcune parti della carta hanno anche cercato di difendere il patrimonio della chiesa. Persone che havevano beni ecclesiastici potevano tenerli solo per la durata della vita del religioso da cui li avevano affittato, secondo l’usanza. Questa regola ha impedito ad un abate locale la locazione in perpetuo a bassa affitto delle terre del suo monastero ai suoi parenti. Durante la sua vita, poco si sarebbe potuto fare su tale nepotismo. Contraddicendo ad una disposizione precedente, il marchese dichiarava che nessuno che avesse le terre della chiesa in locazione poteva affittarle a terzi, ma chi haveva avuto terreni della chiesa per più di dieci anni erano autorizzati a mantenerla. Allo stesso modo, qualsiasi chierico con un terreno appartenente alla chiesa non doveva alienare durante la sua vita questa proprietà ad un altro qualsiasi chierico, ma questa regola sembra potesse dar luogo ad un lascito testamentale. Tutte queste disposizioni assicuravano il possesso della terra locale e impediva in qualche misura la frammentazione delle terre della Chiesa.

Infine, il marchese garantiva agli agricoltori il diritto di tenere la terra senza alcun servizio pubblico. Era una interessante reliquia delle liturgie romane e bizantine che ancora sopravvivevano in epoca longobarda e oltre. Tre uomini adeguati, persone di una sufficiente reputazione locale per servire come depositari dei giuramento, giurarono di sostenere questa carta ed il suo insieme di costumi locali. Il marchese promise di osservare tutte queste regole in base alle abitudini genovesi ed i precetti, come voluti dai genovesi stessi. In altre parole, egli rinunciava al suo diritto di determinare quelli che potevano essere i privilegi dei genovesi. Nel 1056 i Genovesi governavano se stessi, senza ricorrere ai qualsiasi forma di “comune” o sistema di governo. Si erano sottratti con successo sia dal potere imperiale che dai capi dell’aristocrazia guerriera del nord Italia; essi, tuttavia, avevano ancora a che fare con il proprio vescovo e con la nobiltà locale.

Le più importanti nobiltà locali erano i conti e visconti delle varie piccole città lungo la costa ligure. Qualunque sia la loro origine, queste persone nel XI secolo controllavano i passi di montagna e quali generi alimentari e commerciali attraversavano i loro territori. La nobiltà della Liguria ha prontamente preso parte della vita urbana e del mare ed ha portato con sé uno spirito litigioso ed il gusto per il combattimento a terra o in mare. Un documento tardivo del 1256 ha fornito i nomi di quelle famiglie genovesi che hanno riportato le loro nobili radici indietro ai visconti dell’XI secolo. Un problema con questa evidenza è che i cognomi sono quasi del tutto assenti dalle fonti XI secolo, per cui dobbiamo prendere per fede che le famiglie abbiano accuratamente mantenuto i ricordi delle loro origini e abbiano evitato di includere se stessi nella nobile compagnia. Le famiglie nobili comprendono: Carmadino, de Insulis, Guercio, Spinola, Tabarcio, Pinello, de Murono, de Mari, di San Pietro de Porta, Scoto, Pevere, Avvocato, Gabencia, Cabo, de Campo, Busio, Canevario, Ficimatari, e molti altri. Alcune famiglie locali di indubbia origine nobile, come i Doria, i della Volta, e gli Embriaco, non erano in questa lista, il che potrebbe riflettere la lotta partigiana negli anni 1250.

Le origini dei vescovi di Genova in questo periodo sono oscure, ma sembra probabile che essi provenissero da famiglie nobili o quelli come loro. Forse perché la nobiltà locale controllava le terre della chiesa, l’autorità politica del vescovo sembra essere stata in calo già nel 1056, anche se l’ufficio ha continuato a ricevere il rispetto politico per il modo in cui ha rappresentato Genova agli estranei. I nobili hanno affrontato lo stesso problema come la chiesa: come vivere fuori dal contesto agricolo marginale della Liguria. Sia la nobiltà che la chiesa dipendevano dai modesti surplus dall’agricoltura in Liguria. Qualunque possibile prosperità sarebbe derivata loro dal mare. Tutta la terra doveva raccogliere abbastanza risorse per mettere uomini e barche in mare. La dura vita agricola e pastorale della Liguria è stata un potente incentivo, assieme ai guadagni della pirateria e del commercio, nel forgiare uomini ai rischi ed ai benefici del mare.

Più tardi il mito genovese accreditava la città della gloria della catturare di un re musulmano in Sardegna nel 1050 e di portarlo in trionfo per Genoa. Non esiste alcuna prova per questa vittoria, ma la storia dimostra che la Sardegna è rimasta al centro dell’attenzione genovese nella metà dell’XI secolo . La prima di molte guerre tra Pisa e Genova si è verificata nel 1060, e anche se le sue cause sono oscure e devono riguardare la Sardegna. Durante il 1060 i Pisani hanno fornito importante aiuto navale ai Normanni come appena questi hanno iniziato il lungo processo di occupazione della Sicilia dei musulmani. Nel 1087 Pisa e Genova ha fatto un grande attacco navale su al-Mahdiyya (Mahdia), la capitale di uno stato musulmano nella Tunisia moderna. Ancora una volta le fonti genovesi posteriori sono inutili, ma un interessante lavoro, la “Vittoria Poema dei Pisani”, conserva la maggior parte di ciò che si conosce dell’episodio. Dal punto di vista di Pisa l’incoraggiamento ad attaccare è venuto dai mercanti pisani e genovesi, con la partecipazione dalla contessa Matilde di Toscana, dal papa Vittore III, di un certo Desiderio abate di Monte Cassino, con Roma e Amalfi. Il ruolo dei commercianti è complessa e solleva sospetti. Tunisi stessa e altre importanti città musulmane lungo la costa africana rivaleggiavano con gli italiani per il controllo del mare, ma erano anche tra i loro migliori clienti. Un attacco ad al-Mahdiyya appare come una naturale prosecuzione delle ambizioni nate in Sardegna e in Sicilia. La metà musulmana del mondo mediterraneo dipendeva dalla sua navigazione costiera dal Marocco e dalla Spagna all’Egitto, e gli sforzi italiani per interrompere questo commercio e di saccheggiarlo, aveva senza dubbio lo scopo nelle menti dei mercanti che hanno iniziato la campagna, di trarre beneficio solo per Genova e Pisa . La campagna stessa è forse più nota perché gli italiani indossavano le insegne dei pellegrini. La guerra per i musulmani aveva sempre sfumature religiose, e il grande pellegrinaggio armato del 1095, la Prima Crociata, tra breve aprirà un nuovo capitolo nel conflitto islamo-cristiano nel Mediterraneo. La parte del Papa Vittore III in questa campagna e il fervore religioso dei partecipanti suggeriscono che potremmo fraintendere l’attacco di al-Mahdiyya vedendolo come una guerra commerciale precoce o come una prova per la prima crociata.

Cosa potrebbe aver spinto i genovesi e mercanti pisani per scegliere al-Mahdiyya come un bersaglio? Il lavoro di S.D. Goitein sui documenti ebrei Fus-tat (Vecchio Cairo) lo convinse che, per la maggior parte del secolo XI gli ebrei d’Egitto ebbero contatti con commercianti o le navi provenienti da Venezia, Lucca, Salerno e Amalfi, ma non arrivarono al XII secolo in cui gli ebrei usarono navi di Genova, Pisa, e Gaeta. Ma una lettera ebraica intorno agli anni 1060 nota che erano arrivati ad Alessandria navi da Rum (terre bizantine?), Genova, Spagna, e da altrove. Subito dopo la Prima Crociata, intorno 1103, il sultano dell’Egitto aveva arrestato tutti i genovesi al Cairo, presumibilmente perché altri genovesi stavano aiutando il re di Gerusalemme a prendere i porti siriani appartenenti allo stato dei Fatimidi. Purtroppo dal 1150 non c’è continuità nei documenti commerciali a Genova, quando ci fu una improvvisa esplosione di informazioni dettagliate sul commercio. Ma fonti non genovesi incontestabili confermano che i genovesi hanno visitato l’Egitto molto prima della prima crociata, e intorno 1103 c’erano abbastanza mercanti genovesi al Cairo per rendere possibile l’arresto di un certo numero di persone. Così i genovesi nel secolo XI erano attivi nel Nord Africa come pirati e commercianti, quando i mercanti intrepidi che muovevano i primi commerci e ritornavano a Genova nella speranza di aver ottenuto un profitto. Quindi, in quel momento al-Mahdiyya era un obiettivo più plausibile di Alessandria.

L’aumento del commercio in orientale è una lunga storia che fornirà uno dei temi costanti di questo libro. Per ora, è sufficiente osservare che i genovesi avevano poco a che fare in Nord Africa come mercanzie commerciali ad eccezione del legname e il sale. Più probabilmente, i primi commercianti portarono argento e sono stati tollerati come clienti per i pagamenti immrdiati. Di quello che il genovese acquistata con questo argento ne parleremo in seguito; ciò che è importante ora è, sapere dove i genovesi hanno acquisito l’argento, che non era una risorsa della Liguria? L’argento era stato estratto dalla Sardegna fin dall’epoca romana, e i genovesi, i pisani, i musulmani, e altri si sono interessati all’isola come una fonte d’argento, sia perle miniere sia o per le razzie. Questa potenziale fonte di denaro per iniziare una rivoluzione nel commercio sembra subito troppo semplice e inverosimile. I genovesi hanno lottato con i Musulmani e Pisani per il controllo sulla Sardegna. Il successo avrebbe fornito ai genovesi con ancora più di argento. Troppo poco commercio nel XI secolo c’era sulle montagne a nord per tenere conto di un flusso d’argento in Genova; infatti, “troppo poco” può essere un’esagerazione. Anche il successo della pirateria sembra portare alcune risorse. E ‘difficile immaginare che i tipici eroici pescatori genovesi, poveri di risorse, abbuano acquisito l’argento in alto mare dai musulmani. I corsari hanno certamente giocato un ruolo nella crescente prosperità di Genova, ma per essere pirati come hanno coperto i costi iniziali.

E’ una brutt logica di credere con Sherlock Holmes che, quando sono stati eliminati tutte le possibilità, ciò che rimane, per quanto improbabile, deve essere la causa dei fenomeno o dei reati in questione [Nel mondo anglosassone la pratica della pirateria è ben nota come fonte di arricchimento e di potenza e veniva praticata anche dai Reali, ndr]. Eppure solo all’agricoltura è lasciato il compito per spiegare come le modeste eccedenze avrebbero acconsentito ad alcuni uomini di costruire navi capaci di navigare attraverso il mare. Avendo i contadini liguri sempre pianto miseria, devo spiegare come il surplus agricolo avrebbe potuto dare abbastanza argento per avviare il decollo del commercio genovese. Le carte dei vescovi e dei monasteri di Genova, anche degli anni più oscuri dei secoli X e XI [Cartario genovese, L.T. Belgrano, Atti Società Ligure di Storia Patria, 1870], rivelano che l’economia di denaro non era mai sparito in Liguria. Nella vicina Pavia la zecca si è rivelato abbastanza fornita d’argento per soddisfare i bisogni senza dubbio modesti dell’economia di denaro ligure. Qualunque tassa e bottino finito a Pavia era stato riciclati attraverso l’Italia settentrionale, e l’argento era disponibile. Queste stesse carte mostrano un flusso di rendite in natura, ma anche in denaro alla chiesa, e si può presumere che la maggior parte dei terreni in Liguria, nelle mani di signori e dei proprietari terrieri, abbia portato un reddito sia pur modesto. La mia tesi qui si basa sull’aspetto sociale per spiegare come l’accumulo di eccedenze provenga da una spremitura molto efficiente della popolazione rurale e da una modesta scrematura dei benestanti. Inoltre, la fertilità dei suoli di montagna, anche se rapidamente esauriti, avrebbero dato un iniziale aumento di produttività in alcuni luoghi dove l’allevamento puntava su questa risorsa per la prima volta.

Nessun documento contemporaneo rivela alcunchè di specifico su questo processo perché i documenti esistenti riguardano solo come la Chiesa ha beneficiato dall’agricoltura. Nulla prova che la chiesa abbia messo il suo argento

nel commercio, ma la nobiltà locale certamente ha dirottato alcune delle sue ricchezze nella chiesa. Alcuni frammenti successive di informazioni rivelano qualcosa riguardo i misteriosi primi giorni del commercio genovese. La nobiltà di Genova e della Liguria ha espresso molte (ma non tutte) le principali famiglie scese in affari nei secoli XII e XIII. … Non occorre pensare ai marinai disoccupati, come Henri Pirenne ha suggerito per il nord, per trovare una classe di mercanti in Genova. [A Genova] la gente che controllava la maggior parte dei terreni erano gli stessi che hanno preso il mare quell’argento generato i loro inquilini. Un problema con questo ragionamento è la necessità di trovare ragioni plausibili per cui una nobiltà prevalentemente rurale avrebbe fatto qualcosa di insolito a diventare pirati commerciali – perché questo è quello che hanno fatto. Avrebbero fato facilmente l’uno e l’altro [pirati e commercianti] così come nobili e guerrieri stavano facendo in tutta Europa. La scarsità di terreni contribuisce a spiegare che il genovese prese il mare per acquisire il cibo e la ricchezza che non era disponibile in casa. Le montagne chiudevano le ambizioni dei genovesi e la carenza di terra poteva essere superata soltanto attraversando il mare per il commerciare o combattere. Non c’era molta terra o la ricchezza naturale per combattere in Liguria, come i predoni musulmani insegnarono presto, quantunque il controllo passi di montagna ed dei pedaggi avrebbero dato all’aristocrazia rurale una buona ragione per lottare tra di loro e con Genova. Ma in questi primi giorni, c’era ancora poco da tassare. Nessun potente nella zona, tranne i musulmani ha dato alla gente di Liguria un nemico principale. Se la nobiltà non aveva potenti vicini o esterni da combattere, nessun grande ricchezza locale poteva promuovere l’invidia e contesa, e non c’era alcun modo semplice per ampliare la base di agraria a causa dei confini del mare e delle montagne, quindi il suo compito sarebbe quello di combattere il suo vero nemico, i musulmani. I genovesi non potevano cavalcare contro questi nemici, essi hanno dovuto navigare contro di loro. Così la nobiltà mise in gioco le modeste eccedenze e la manodopera a loro disposizione pre armare le navi che costruivano, non per la pesca, ma anche per difendere la Liguria e fare guerra contro il loro più potente nemico. In seguito, una prova della iniziale economia genovese riguarda la decima maris, una consuetudine che i genovesi pagavano al loro vescovo (dal 1133 loro arcivescovo). Un registro dei documenti, delle consuetudini e dei diritti dell’arcivescovo, compilato intorno 1143, ha raccolto documenti risalenti al X secolo per difendere il reddito arcivescovile. Una delle prime cose che i compilatori notavano era la decima delle navi; nella prima categoria si trovavano coloro che tornavano dall’Oltremare (Siria latina), Alexandria, Romania (terre bizantine), Barbaria (Maghreb occidentale), Africa, Tunisi, Bougie, e Almeria pagavano 22,5 solidi per nave, e se le loro navi erano state caricate con grano, ogni uomo ha dato all’arcivescovo una mina [Cartario genovese, L.T. Belgrano, Atti Società Ligure di Storia Patria, 1870]. Dopo questo giro in senso orario dei porti di scalo più lontani per le navi genovesi, i compilatori descrivono quanto le navi provenienti dai porti vicini hanno pagato: dalla Sicilia 11s.3d., 9s dalla Sardegna, e dalla Corsica 7s. Ogni nave che portava grano da queste isole a Genova dovevano anche all’arcivescovo quella mina per l’uomo, così come le navi dalla Calabria e dalla Provenza. I piloti erano esenti da questo obbligo, ne fa una testimonianza della loro importanza. Le navi che trasportano il sale dalla Sardegna e dalla Provenza anche facevano pagamenti in natura per l’arcivescovo. Poiché le coste di Genova erano frastagliate ripide, vi erano poche opportunità per la produzione locale, ed era necessario importare il sale. Tale commercio ha reso la città un centro regionale per questa sostanza vitale.

Queste decime lucrative rivelano il panorama del commercio genovese, ma le domande rimangono, quanto indietro nel passato di Genova erano hanno raccolto, e che cosa ci raccontano della prima fase del commercio marittimo genovese? Intorno 1145 un certo Alessandro avvocato ha negato che doveva all’arcivescovo la decima di una galea proveniente dalla Sicilia, perché ha detto che era stato effettivamente impegnato nella pirateria in Romania (coste bizantine), non aveva fatto commercio. I corsari non pagavano le decime, forse perché i loro guadagni sono stati considerati mal ottenuti. Ma all’inizio ci deve essere stata una linea sottile tra il commercio e la pirateria. Il documenti dell’arcivescovo mostrano che i consoli del comune fanno rispettare la decima alle navi provenienti dalla Provenza nel 1117, e tutto ciò che riguarda questa usanza suggerisce che era di vecchia data, sicuramente risalente all’XI secolo. Qui la struttura della decima svela alcune delle caratteristiche del primo commercio genovese. Le isole – Sicilia, Corsica e Sardegna – hanno costituito il nucleo di interessi di Genova sul mare, e le principali merci erano: grano e sale. La Liguria non era ricca di queste risorse. Anche i beni prodotti localmente, come il vino e l’olio d’oliva, erano ingombranti e più facilmente potevano spostare via mare. I documenti dell’arcivescovo sono pieni di preoccupazioni per il trasporto di prodotti agricoli dai suoi possedimenti lontani da Genova. In Nervi l’arciprete stesso, insieme con gli altri tenutari locali, era stato incaricato di fabbricare le botti di vino per portare il raccolto a Genova, e l’arcivescovo armò quattro navi per questi o simili propositi.

Negli anni 1090 i commerci genovesi erano in piena attività, sia localmente nel Tirreno sia nei più esotici porti del nord Africa e nel Mediterraneo orientale. I commerci più vicino a casa consistevano in prodotti come legname, sale, formaggio, vino, olio d’oliva, e grano, prodotti che consentono ai genovesi di sostenere una parte della sua popolazione che non era direttamente impiegata nella produzione di cibo. Nei porti più lontani i genovesi erano principalmente i clienti con pronta cassa i primi tempi, ma erano troppo intelligenti e troppo poveri relativamente per rimanervi lungo. I genovesi sono stati per un po’ i propri principali clienti per il cibo, ma per gli articoli di lusso dell’oriente era richiesto un mercato di consumo più ampio per essere redditizio. Vedremo più da vicino questo aspetto del commercio genovese dopo il primo esame come essi si sono garantiti e potenziati i commerci orientali come conseguenza, più o meno, della crociata.

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XII SECOLO

Autori Vari

XII secolo. Al Idrisi. Al Idrisi aveva avuto la possibilità di portare a termine, nella reggia normanna di Palermo, il Nuzhat al Mustaq, descrizione corredata di mappe, dell’Europa e del Mediterraneo. (Ventura A., 1988)

Al Idrisi o Edrisi: l’italia. Genova

 

1100. Chiesa di san Benedetto. Nel 1100 fu eretta la chiesa di S. Benedetto officiata dalla Monache Cistercensi. Attiguo alla chiesa era il Monastero e l’Ospizio dei Pellegrini, fondato dalla famiglia Sacco, amministrato dal Priore della Certosa di Polcevera e detto “Hospitalis Domus Dei in contrada Fassoli”. Nel 1596, ritiratesi le suore, il Papa Clemente VIII cedette la chiesa al principe Gio. Andrea Doria a titolo di Abazia e parrocchia della sua Casa. La moglie del principe, Zenobia del carretto, invitava dalla Spagna, nel 1596, i Trinitari ad occuparsi del Monastero. La nuora, donna Giovanna Colonna, rinnovò e accrebbe il Convento nel 1607. I Trinitari ressero l’Abazia fino al 1798, anno della sua soppressione. (Miscosi, 1933)

1100. Gabella del sale. San Giorgio che dalla gabella del sale impiguava le sacristie, lottò sempre per mantenersene il monopolio, che vantava godere il Comune dal 1100 tra il Monte Argentario e Marsiglia. E sostenne tal diritto cogli armati contro Finale, spendendo ingenti somme, ma vinse. (Malnate, 1892)

1101. Guglielmo Embriaco a Cesarea. I magistrati della repubblica genovese sentito l’Embriaco e lette le lettere armarono un flotta di 26 galee e 4 navi cariche di pellegrini. I genovesi arrivarono a Laodicea, in Siria, e vi passarono l’inverno del 1101 mettendo ordine in quella regione in preda alle invasioni turche. Goffredo di Buglione era morto e il conte Boemondo, figlio di Roberto Guiscardo di Puglia, era stato imprigionato. Assunsero la tutela dei luoghi sacri e aiutarono Balduino, fratello di Goffredo, a riprendere la corona di Gerusalemme. Quindi andarono a Giaffa e a Gerusalemme e con Baldovino, conte di Fiandra, assalirono Tiro e la accuparono dopo tre giorni di lotte. Di ritorno, ad Itaca, ebbero uno scontro con la flotta greca, ma si raggiunse un accordo con Alessio, l’imperatore greco, ed i genovesi ottennero qualche privilegio per i loro commerci. Dopo di ciò si apprestarono a conquistare Cesarea. La città di Cesarea era ben fortificata ed i genovesi su consiglio di Daimberto, che nel frattempo era stato nominato dal Papa Patriarca di Gerusalemme, gettarono le scale delle galee sulle mura. L’Embriaco salì per primo. I crociati seguirono il suo esempio e Cesarea fu conquistata. Nel bottino i genovesi portano a casa il Catino, creduto per lungo tempo di smeraldi, dove si dice che Gesù Cristo abbia mangiato l’agnello pasquale. Attualmente il Catino è conservato in S.Lorenzo. (Donaver, 1890)

1102. Gli Embriaci in Siria. Nel 1102 i fratelli Embriaci con una flotta di 40 galee conquistò la torre di Accarona, Gibelletto minore eTortosa. Un’altra successiva si impadronì di Tolemaide o S. Giovanni d’Acri. (Donaver, 1913)

1107. Arnaldo e Ugo Embriaci. Nel 1107 una flotta di 80 galee comandata da altri due fratelli Embriaci, Arnaldo e Ugo, tenta di occupare Tripoli che si arrendo solo il 13 luglio del 1109. Occupano quindi Gibello e ne ottengono dal sultano la signoria con un pagamento annuale di 270 bisanti da versarsi al Comune di Genova. (Donaver, 1913)

1109. Vennero quindi Ansaldo ed Ugo Embriaci nepoti del prode Guglielmo con 70 galee; e seco venne il conte Beltramo figliuolo di Rai­mondo, lungamente rimaso nella contea di Tolosa per difenderla da’ suoi vicini. All’udire di queste forze navali, il re Balduino guidò sotto Tripoli i suoi cavalieri. Di modo che gli assediati veggendo dopo sei anni di eroica difesa moltiplicarsi di terra e di mare i nemici, deliberarono di arrendersi sotto le condizioni impetrate dal popolo d’Acri. Baldnino, Beltramo, e i fratelli Embriaci co’ lor Genovesi entrarono trionfanti nella città. Questi n’ebbero in feudo una parte; e già innanzi avevano avuto un quartiere in Gerusalemme, un altro in Giaffa con tutta la possession di Gibello. Oltre a ciò fu loro promesso, qualora cooperassero al­l’ardua conquista dell’ Egitto, la terza parte del Gran Cairo con tre castella a loro scelta. I signori di Baruto, di Monreale, di Caiffa, vassalli di Balduino, imitarono il suo largo procedere co’ Ge­novesi. Boemondo appena fu principe d’Antiochia, diè loro quartiere, consolato, franchigia. Il simile fece il signor di Tiro, quantunque i soli Vene­ziani concorressero a tale conquista; più ancora avrebbe fatto Tancredi, se avesse goduto più vita. I naviganti di Savona, di Noli e d’Albenga fu­rono nominatamente compresi ne’ privilegi di Pa­lestina; la chiesa metropolitana di s. Lorenzo ebbe in dono rendite, case, e un’ intera città; gli Em­briaci, i Lercari, (Acta vet. Notarior.) forse anche i Baliani, genovesi famiglie, ottennero feudi nel regno, e per sug­gello di gratitudine, Balduino ordinò, che in sul­l’architrave del santo Sepolcro fossero scolpite a caratteri d’oro le celebri parole: Praepotens Genuensium praesidium, validissimo presidio de’ Genovesi (Georg. Stella, Annal. Genuen., lib. I. 18.; Ferrari, Liguria trionf., p. 36. p. 209). Acciò la memoria di questi fatti non perisse mai (A, 1115), la repubblica decretò di sostituire al­l’antica insegna due scudi, l’uno di campo bianco e rossa croce, l’altro col campo azzurro, e per traverso una bianca lista, ov’era scrìtto: Libertas. (Serra, 1834)

1110. Gli Embriaci in Libano. I fratelli Embriaci armano una flotta di 22 galee e s’impadroniscono di Beyrouth e la terra di Malmistra presso il golfo di Laiazzo. Dai principi Boemondo, Tancredi e Balduino i genovesi ebbero privilegi e il dominio su Malmistra, Solino, Antiochia, Laodicea, Tortosa, Tripoli, Gibello, Beyrouth, Acri, Gibelletto minore, Cesarea, Giaffa, Ascaron, Ascalona e diverse contrade di Gerusalemme. Il Patriarca ed il Re di Gerusalemme per riconoscenza ai genovesi cui si doveva la conquista della Palestina fecero scrivere a lettere cubitali in oro sull’architrave della chiesa del Santo Sepolcro le famose parole: PRAEPOTENS GENUENSIUM PROESIDIUM. La scritta fu in seguito cancellata dall’invidia di altri popoli e principi. (Donaver, 1890)

1114. Spagna. Genovesi e pisani portano aiuto al conte di Barcellona che guerreggiava contro i saraceni che dalle Baleari infestavano le coste del Mediterraneo settentrionale. (Donaver, 1890)

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1118 – 1134

Guerra coi Pisani – Presa di Civitavecchia – Genovine d’oro

 Girolamo Serra, La Storia della Liguria e di Genova scritta dal marchese Girolamo Serra, Torino, presso Pomba, 1834.

Nuova guerra co’ Pisani per la consecrazione de’ vescovi di Corsica. Pace ristabilita a istanza d’Innocenzo II e di s. Bernardo. Soccorsi dati al pontefice da’ Genovesi e da’ Pisani. Presa di Civitavecchia. I vescovi di Genova creati arcivescovi. Aggiunte alle leggi della repub­blica. Genovine d’oro.

Quando le prime imprese d’Oriente ebbero fine, rifecesi guerra a’ Pisani. Alle antiche cagioni si era aggiunta pur questa, che papa Gelasio II costretto come Giovanni VIII a fuggire di Roma, era venuto in Genova e in Pisa. Nell’una e nel­l’altra città avea consecrato la chiesa cattedrale.
A quella de’ Genovesi aveva in tale occasion (10 ottobre 1118) conceduto indulgenza plenaria per le persone da d’ottobre, seppellirsi nel suo cimitero, la quale è primo esempio di simili grazie a’ soli defunti, com’ è indizio sicuro ch’eglino non si seppellivano ancor nelle chiese. Il biografo di Papa Gelasio osserva, che le persone religiose encomiarono assai questo fatto. Ma nol curarono i Pisani; e in quella vece impetrarono il titolo di metropolitana alla lor chiesa suffragane rendendole i vescovi della Corsica. Le conseguenze politiche di questo fa­vore correvano agli occhi, tanto che i Genovesi si protestarono, che in verun modo non permetterebbono a’ vescovi corsi di andare a consecrarsi, come i suffraganei solevano, in Pisa. A. 1119. Così fatta  contesa partorì una guerra di tredici anni. Da principio gli apparecchi furono deboli, e l’esito infelice; ma com’ è natura de’ Genovesi lenta­mente eccitarsi, e levar poi un incendio, così l’armata, che dopo una grave sconfitta a Porto Venere misero in punto, occupò Bocca d’Arno, a. 1120. Atterrò a levante le torri del piccol Livorno, e su per lo fiume salendo co’ legni leggieri, mandò le forze di terra a manomettere quel fertile piano, che divide Arno dal Serchio. Era quest’armata di ottanta galee, quattro gran navi, sessanta navilj minori e ventiduemila combattenti, fra quali cin­quemila portavano elmi e loriche di ferro. Quan­tunque gli annali nol dicano, sembra verisimìle che molti de’ marinari e soldati fossero forestieri, o condotti a gran prezzo, o allettati dalla spe­ranza del bottino. Ad ogni modo ella è prova ma­nifesta degl’immensi vantaggi ritratti da’ Genovesi ne’ traffici del Mediterraneo, e negli acquisti di Palestina. Non era allora regno in Europa, che far potesse ciò che faceva per lievi cagioni una sola città.
A cotal vista il nimico chiese tregua. Fu con­venuto d’implorare per la consecrazione de’ vescovi corsi un diffinitivo giudizio da Roma. Reggeva in quel tempo la Romana chiesa Callisto II, e teneva per avventura concilio in Laterano. Era quel venerabile concilio, ove le lunghe contese intorno le investiture de’ vescovati germanici dovevano comporsi. Non ostante la grandezza dell’argo­mento, gli ambasciadori delle due repubbliche eb­bero pronta udienza. Una congregazione di ven­tiquattro prelati, espressamente nominati dal papa, ventilò le loro ragioni nel medesimo palagio di Laterano, e riscontrato (Jac. a Viragine in Chron. Jan.; Jordan. Chron. in antiquit. me­di aevi T. IV; Schiaffini, Annal. eccles., della Lig. t. II) un antico registro di pri­vilegi, Gelasio II non rivocati, opinò a favore de’ Genovesi con incredibile esultazione dello sto­rico Caffaro ambasciadore alla Santa Sede. Il papa, udita la relazione e nuovamente discussala pre­senti le parti, la comprovò. Ma questa sentenza che avrebbe dovuto spegnere i dissidj, maggior­mente gli accese; imperciocché i popoli italiani avevano allora in costume di rimettersi facilmente al giudizio de’ papi e degl’ imperadori, ma quando e’ riusciva loro contrario, di non volercisi acquie­tare. La tregua dunque fu rotta da chi l’avea do­mandata. Si combattè lungamente con varia for­tuna in Corsica, in Provenza e nel mar di Sici­lia, ma poscia i Genovesi rimasero al di sopra, tanto che alcuni rapportano all’anno 1128 l’as­sedio di Pisa, e quella strana condizione in le­varlo , che tutte le case si dovessero spianare fino al primo solaio. Rafaele Volterrano racconta il fatto, e Bernardo Marangone istorico di Pisa scrive, a. 1128, che alcuni il credevano, altri no. Ma l’annalista ge­novese, riferendo in generale che i danni dati furono grandissimi, tralascia i particolari. Innocenzo II notificava intanto la sua elezione, e lacrimando soggiungeva, che mentre una guerra crudele logorava due popoli di tanta religione e valore, Chiesa santa andava a soqquadro, un an­tipapa occupava il Vaticano, ed egli ch’era il le­gittimo e il solo pontefice non trovava altro scampo che le torri de’ suoi amici. Volessero dunque i Genovesi moderarsi nella presente fortuna, atte­nersi alle condizioni dianzi proposte, e l’armi bran­dite contro a’ fratelli rivolgere a favore del Padre comune contro i faziosi di Roma e i loro ade- renti. E’ fama che Bernardo abate di Chiaravalle, uomo a que’ tempi chiarissimo per santità, avva­lorasse in iscritto le ragioni d’Innocenzo non ancor comprovate dal generale consenso della Chiesa, e i Genovesi non solamente gli prestarono fede contro l’autorità dell’arcivescovo di Milano loro me­tropolitano , ma gli offerirono ancora la vacante sede vescovile. Preponeva Bernardo l’umiltà della cocolla allo splendor della mitra; laonde non ac­cettò. Un’ altra volta gli fu offerita nel brevissimo tempo che passò in Genova predicando, e ricusò nuovamente. Un’ antica pittura la quale presso noi si serba, il rappresenta alle porte della città, in atto di accommiatarsi. Egli è commosso, ma di se risoluto; l’anziano de’ consoli sembra rinnovare le istanze già fatte, più per soddisfazione del po­polo, che per alcuna speranza. Un’aura soave in­crespa l’onde; il porto è zeppo di legni, porto formato da un picciol molo e dal curvo lido; non mura marittime, non molo a ponente; sulle circostanti pendici più alberi e meno abitazioni che oggidì. L’arduo promontorio fa un sol masso con la punta del Faro, non lasciando altro adito che un lungo viottolo fra scheggia e scheggia. Certamente l’ingresso dell’ anfiteatro di Genova era men magnifico che al presente, ma più si­curo.
In questo tempo la punta suddetta fece i se­gnali consueti quando galee forestiere venivano da levante. Le chiavi di s. Pietro sventolavano sulle antenne, e la capitana portava la persona stessa del papa, il quale dietro agli esempj di Gelasio II s’éra fuggito da Roma, e per Pisa e Genova ricoveravasi in Francia. Un concorso generale di ogni età, d’ogni sesso l’accolse. Che acclamazioni, che voti! Come son lieti dell’impetrato favore, ch’egli stesso consacri il pio vescovo Siro II, so­stituito per loro all’abate di Chiaravalle! Non pos­sono più nulla negargli. Fino al ritorno di lui in Italia non molesteranno i Pisani, quantunque i riportati vantaggi sollevino le loro speranze; ri­fiuteranno le magnifiche offerte di Ruggieri re di Sicilia, fautore dell’antipapa, e scorteranno con sedici galee il pontefice fino a s. Egidio di Pro­venza. Il tutto per appunto eseguiscono. Innocenzo mette piede in Francia , e gli Oltramontani non istanno lungamente incerti. L’eloquenza di s. Ber­nardo persuade il Sinodo di Etampes. Lodovico VI re di Francia, Enrico I re d’Inghilterra ac­consentono, e per desiderio della corona imperiale il duca di Sassonia e re di Germania Lotario si obbliga a sterminare i ribelli col loro antipapa Anacleto. Gli assedj di Roma e di Civitavecchia, ove costoro dominano, saranno con vigore spinti; Lotario andrà a campo a Roma; uno stuolo di legni pisani e genovesi, se accordar si potranno, stringerà Civitavecchia. Con si fatte promesse (a. 1132) il papa ritorna in Italia seguitato da s. Bernardo; rinnova la tregua fra le due repubbliche; e trasfe­ritosi a Corneto nel territorio romano , paternamente compone l’antica loro contesa in questo modo (a. 1133).

Il vescovo di Genova sarà, come quel di Pisa, esente da ogni giurisdizion superiore, salvo la pre­minenza della Sede apostolica; ambedue avranno titolo di arcivescovo e autorità di metropolitano sopra un egual numero di vescovi in Corsica; useranno il sacro palio nelle feste più solenni, una bianca chinea nelle processioni, e per ves­sillo una croce. Se l’uno verrà consecrato da’ suoi suffraganei, l’altro potrà esserlo ancora. All’arci­vescovo di Genova si assegnano in terraferma le chiese di Brugnato e di Bobbio, a quel di Pisa la sede di Populonia, e avrà oltre a questo la dignità di primate in Sardegna. Le quali grazie congiunte all’annunzio di Civitavecchia espugnata dallo stuolo genovese e pisano, rallegrarono tanto i due popoli, che soffocata, la nazional gelosia, strinsero una ferma pace. Soli ne mormorarono i Milanesi, alla cui sede metropolitana, afflitta dallo scisma e dalle censure, si toglieva un nobilissimo suffraganeo. Ma l’abate di Chiaravalle con una lettera eloquente gli acchetò. Un’altra ne scrìsse a’ Genovesi per ringraziarli delle ricevute accoglienze, e confer­marli nell’unione, pace e ossequio costante verso il pontefice e l’imperadore. Genova si gloria di possedere tuttora la lettera del santo, e ciascun ne sa a mente queste cortesi e gravi parole, che rechiamo in volgare: «Plebe divota, gloriosa Nazione, illustre città, vivete sicuri ch’ io non potrò in verun tempo dimenticarmi di Voi; ma rammentatevi pur Voi di me, e perseverate ne’ buoni proponimenti. Senza la perseveranza nè i benefizj han merito, nè il coraggio lode, nè la fedeltà guiderdone!»
Dopo la pace la repubblica attese a fare alcune riforme nelle sue leggi. L’incremento della popo­lazione, le imprese lontane e le lunghe contese con Pisa avevano persuaso all’universale, le incumbenze de’ consoli essere troppo vaste e mal definite. Ogni armamento toglieva un giudice a una compagnia, nè si potevano eleggere i più idonei a giudicare, se i medesimi erano inetti alla guerra. E dall’essere presso la moltitudine il deliberare immediatamente delle cose gravi, pareva quest’altro danno nascesse, che l’utile più sensi­bile e vicino, quantunque minore o sol transito­rio, colpisse più del lontano, quantunque stabile o maggiore. Inoltre il modo del guerreggiare co’ Saracini volea segretezza, quando la moltitudine non tollera segreti. Tali considerazioni fecero ap­provare nel 1134 il partito di eleggere per l’avve­nire dieci o dodici consoli, parte de’ quali curas­sero il politico, chiamati consoli del Comune, e parte il civile, detti consoli de’ Placiti, parola barbara del secolo di Carlomagno, significante luoghi dove si delibera, giudizj, e liti ancora, che indi chiamavansi dagli antichi Francesi plaids, e da’ Toscani piati. Dovevano questi consoli non solo amministrar la giustizia, ma la pubblica si­curezza proteggere, e soprantendere a’ lavori tanto di comodo che di difesa; quegli altri guidavan le armate, trattavano co’ governi forestieri, e pareg­giavano in fine d’anno le spese con gravezze pro­porzionate alle sostanze de’ cittadini.

Genovine d’oro. Appare dalle lettere di Cicerone commentate da Paolo Manuzio, che una zecca vi fu istituita a’ tempi della romana repubblica. Secondo una carta letta dal presidente Carli, accurato e imparziale antiquario, la zecca di Genova batteva sul fine del secolo ottavo danari d’argento equivalenti a quei di Milano, che pesavano 34 grani (1). Final­mente leggendo con attenzione le cronache del Caffaro e dell’arcivescovo Iacopo da Varagine, non si può dubitare di tre diverse stampe dopo il decimo secolo, l’una più antica d’ignoto nome e valore, simile forse a quella di sopra, l’altra di Bruni che i detti annalisti chiamano nuova, quantunque anteriore all’anno 1115, e la terza più piccola di Bruniti che da quell’anno ebbe corso fino al 1138. I Bruni e i Bruniti eran danari di bassa lega, così nominati dal color bruno, che viene da molto rame fuso con poco argento. (A. 1136) Mutandosi adunque le specie metalliche a un dipresso come si mutavano i consoli, non è maraviglia che ne’ contratti domestici di qualche importanza si nominassero i danari di Pavia o di Lucca prege­voli in tutta l’Italia per lega migliore e valor più costante; e che ne’ grandi negozj e ne’ mercati lontani si adoperassero i Marabottini d’oro di Spa­gna, o i Bisanzj di Grecia, aventi per l’ordinario una dramma e un quarto di peso.
Se non che incomodo è l’uso delle monete fore­stiere, nè facile è regolarlo. Onde i Savj di Genova volsero gli animi al desiderio di una moneta nazionale, alta, sincera, per riferire a quella le altrui, e per valersene ne’ mercati sì proprj come stranieri. Regnava di que’ giorni in Germania e risedeva in Norimberga Corrado II di Svevia (2). Aveva il titolo di re de’ Romani, non quello d’imperadore, riservato, come altrove dicemmo, a chi riceveva la corona dal papa. Ma le facoltà non si credean da meno. Lui dunque pregarono i Ge­novesi per mezzo dell’ ambasciadore Oberto , che volesse lor dare un generai privilegio di monetazione, ed egli acconsentì di buon grado. Conce­diamo a’ Genovesi, dice il diploma , ciò ch’essi non avevano in prima; e siamo a concederlo indotti dalla lor fedeltà e affezione, e dall’egregie loro opere in terra e in mare (A. 1138).
Altre citta di impetrarono in quello stesso anno un privilegio consimile, ma in termini così ono­revoli nessuna. Genova dunque n’esultò grande­mente , e deliberò poco appresso nuove laudi, oggi diremmo nuovi regolamenti di zecca. Degli uni abbiamo contezza per atti autentici, degli altri per conghiettura , e sono tutti insieme i seguenti.
Che il diritto di fabbricazione si desse in appalto per certo numero d’anni al maggiore offerente a foggia degli altri dazj; essendo l’interesse privato il mallevador più sicuro della pubblica economia.
S’ improntasse sulle nuove monete dall’una faccia il nome del principe benefattore Cunradus Rex, o Rex Romanorum, e in mezzo una croce; dall’altra la leggenda Ianua, e in mezzo un ca­stello a tre torri; figura enigmatica, o come i Genovesi grecizzando dicevano, griffa della parte più nobile ed eminente della città.
A’ falsatori della detta impronta e delle pro­porzioni qui appresso si dovesse mozzare la destra , e non avendoli in forze, si desse l’esilio e confiscassero i beni. I consoli giurassero ogni anno la ferma osservanza di queste leggi penali pur contenute nel vecchio statuto; impedissero seve­ramente la fabbricazione delle monete false e l’in­troduzione di fuori, e deputassero due uomini probi e legali a custodi e ispettori della zecca.
Contenessero i nuovi danari d’argento due terze parti di argento e una di rame; (3) lega a dir vero non pura, ma nitida e grata rispetto allo squallor de’ bruniti.
Ventiquattro danari pesassero un’oncia simile d’argento.
L’intera genovina d’oro pesasse un’ oncia, e avesse, se ben ci apponiamo, caratti vent’un di bontà. Fosse pari alla lira; antica unità mone­taria e di conto in tutta l’Europa che scemò a poco a poco in valore senza proporzione uni­forme, e senz’apparente ragione.
Proseguissero i conti a tenersi in lire, soldi e danari.
Conforme a questi ordinamenti i consoli appal­tarono il diritto della fabbricazione, e l’oro com­presero come l’argento nell’appalto dell’anno 1142. È cosa notabile che l’Inghilterra e altri regni di Europa non avevano monete d’oro in quel tempo, e che i fiorini di Firenze, e i ducati di Venezia, due bellissime specie di monete, furono posteriori un secolo e più alle genovine.

Note e Bibliografia. (1) Opere T. II. 323. Vedi il Viani e il Vermiglioli zecche di Pistoja e di Perugia 25. 10. (2) Corrado III lo chiamò il Muratori, ma noi seguitammo il Sigonio, perchè ne’ suoi stessi diplomi Corrado s’intitola Secondo. Vedi nuovamente il Giornale Ligustico II. 181. Ciò che i Genovesi non avevano prima, era il privilegio imperiale, non l’uso di una propria moneta. (30 La proporzione era trasposta secondo l’estratto datone net Gior­nale Ligustico II. 4 84. Ma non si può dubitare di un errore nello scritto o nella lesione.

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1120 – 1191

Autori vari

1120. Pisa. Contro Pisa nel 1120 furono 80 galee, 4 navi, 35 gatti, 28 golabii ed altri legni minori con 22 mila combattenti. (Malnate, 1892)

1120. Dogana. La dogana marittima, della quale trattiamo, aveva anticamente sede nel Molovecchio, presso la chiesa di San Marco. I più antichi balzelli doganali li troviamo denominati come pedaggio, ed eran pagati per lo più in natura. Dopo vennero le decime del mare, devolute in parte al Vescovo, in parte al Comune. Anco Genova fu lordata del mercato degli schiavi. Per la vendita di un saraceno pagavasi di dazio (anno 1120) soldi 5 di denaro, moneta antica di Pavia.Verso la metà del XIII secolo rivendica a sé il Comune le imposizioni, pur facendo omaggio all’autorità ecclesiastica di propine sui tributi. (Malnate, 1892)

1120-1155. Dominio sulle Riviere, in Sardegna e a Costantinopoli. Quando non era impegnato in guerre altrove, il governo consolare estendeva il proprio dominio sulle riviere mediante trattati, concessioni o guerre. Le popolazioni accettavano volentieri i privilegi del governo genovese contro le prepotenze dei feudatari e gli sbarchi dei pirati. Inoltre i Consoli permettevano loro di commerciare fina ad una data somma, investendola in imprese marittime, li consideravano cittadini genovesi, giuravano la Compagna e avevano il potere di giudicare le liti fra i cittadini per tutta la Lombardia fino a Roma. Nel 1120 i signori di Vezzano vendono Portovenere e s’impegnano al servizio militare da Monaco a Pisa e da Gavi e Moltaldo fino al mare. Nel 1132 i signori di Passano ricevono la terra di Frascario e si obbligano al servizio di guerra a proprie spese. Altri avevano impegni militari e si obbligavano a donare un barile d’olio per le lampade dell’altare di S.Giovanni Battista. I signori di Lavagna che non ottemperarono ai patti, furono sottomessi ed i cittadini ascritti a Genova. Savona, Noli e Albenga erano comuni sotto la tutela genovese. I signori del Carretto, che contendevano Noli e Savona, furono sottomessi. I conti di Ventimiglia riconobbero la signoria genovese e si recarono a giurare perpetua fedeltà a San Siro, ma il conte Oberto ventimigliese si ribellò e fu costretto militarmente a sottomettersi. Nel 1128 i genovesi s’impadronivano di Moltaldo che, nel 1150, insieme alla terra Parodi acquistavano dal marchese Guglielmo di Monferrato. In Sardegna si andavano consolidando possessi e privilegi. Nel 1142 i genovesi mandavano ambasciatori a Costantinopoli Oberto della Torre e Guglielmo Barca ottenendo nel 1155 molti privilegi, una contrada e diversi aiuti dall’imperatore Emanuele Comneno. In tal modo iniziava il dominio commerciale genovese nel levante che fiorirà nel secolo successivo. (Donaver, 1890)

1123. Callisto II e la prima guerra pisana. Papa Callisto II, convocato il Concilio Laterano, invitava i rappresentanti di Genova e Pisa e si adoperò per pacificarli e rivolgere le loro armi unite contro i saraceni. Genova inviava gli annalisti Caffaro e Barisone che, portando doni, indussero il Papa (27 marzo e 6 aprile 1123) a togliere ai pisani la facoltà di ordinare i vescovi corsi. Per tale motivo riprese la guerra tra genovesi e pisani. I genovesi abbordarono e depredarono un convoglio pisano carico di vettovaglie proveniente dalla Sardegna, occuparono Castel S.Angelo in Corsica ed altre terre. (Donaver, 1890)

1125. Pisani e Genovesi. I pisani armano una flotta e minacciano i convogli genovesi fino alla Provenza. I genovesi, armate 7 galee, percorrono il mare di Provenza, di Sardegna e di Corsica, sbarcano all’Elba e si impadroniscono di Piombino atterrandone le mura e portando prigionieri a Genova. I genovesi portano la guerra in territorio pisano e rioccupano le terre Corsiche. (Donaver, 1890)

1126. Onorio II. Papa Onorio II restituisce ai pisani con una bolla i privilegi concessi da Callisto II. La guerra si fece più feroce allargandosi alla Sicilia. I genovesi inseguono 9 galee pisane che si rifugiano a Messina, invadono la città fino al palazzo di re Ruggero e la mettono a sacco. (Donaver, 1890)

1130. Innocenzo II. Il Papa Innocenzo II perseguitato dall’antipapa Anacleto si rifugiò a Genova da dove indusse ad una tregua le due città rivali. Anche S. Bernardo di Chiaravalle tentò di pacificare i due popoli con una bella lettera (di cui non è certa l’autenticità). I capitoli della pace furono formati dallo stesso pontefice e notificati con una bolla il 20 marzo 1133. I due popoli ristabilirono a Roma la sede del vero pontefice. (Donaver, 1890)

1132. Capo Faro, Basilica di san Benigno e san Paolo. Sopra Capo Faro (Capite Fari) viene edificata dai Benedettini la chiesa di San Benigno e San Paolo. La basilica consacrata da Siro II, Arcivescovo di Genova, era in stile gotico,  costruita in pietre quadrate (all’uso romano) e divisa in tre navate. (Miscosi, 1933)

1133. Arcidiocesi di Genova. La diocesi di Genova viene eretta ad Arcidiocesi da Innocenzo II con una bolla del 20 marzo 1133, mentre era vescovo il genovese Siro II della famiglia Porcello. (Donaver, 1890)

1133. Portici di Sottoripa e lo scalo del Fosello. Il Cicala ricorda che nel 1133 si iniziarino a costruire i portici di Sottoripa, chiudendo lo scalo del Fosello (presso la chiesa di San Pancrazio edificata nel 1149). Tra i primi costruttori vi fu Ansaldo Crispino. Tra il 1134 ed il 1200 vi costruirono Marchio di Negrone, d’Ogerio de Mari, Giovanni Noxenti, Lanfranco de Marini, Ugolino Bucacci, Giacomo de Negri, gli Spinola, i Leccavela, Andrea Lomellino, i Calvi, i Fieschi, ecc. Il materiale di costruzione come le colonne di granito orientale con i capitelli furono presi da avanzi di templi e sontuose costruzioni di epoca romana. (Miscosi, 1933)

1133. Portici sottoripa e il Petrarca. E questi porticati di sottoripa, costrutti nel 1133 sulla deserta spiaggia, ove eran frutteti (pomeria) e molini (acquimoli); i quali vittoriosi dei secoli, oggi noi vediamo cadenti, quasi immondo ciarpame adossati alla Città Superba, furono delizia all’occhio, amatore della bellezza, di Francesco Petrarca! (Malnate, 1892 e Miscosi, 1933)

1134-1191. Porto. Certo è che ancor prima del Molo vecchio altro ne esisteva, e che nel secolo XII si era già dato pieno assetto al Porto, funzionando regolarmente le sue magistrature. I Consoli con decreto del 7 Gennaio 1134 ne determinarono la giusridizione e le tasse di ancoraggio. E nelle antiche memorie dal 1150 alla fine di quel secolo troviamo che già funzionava la darsena presso San Marco, la più antica, e v’erano già ponti o scali regolari da sbarco ad approdo. E’ menzione nel 1133 di case innalzate presso la riva e de’ portici: nel 1149 d’uno scalo presso San Pancrazio: d’un ponte Clericolio presso San Lazzaro nel 1150. Nel 1161 già abbiamo contezza di segnali ai naviganti ( e parrebbe che Capo di Faro anticamente facesse segnali (prima della lanterna ad olio) con falò di brisca, che eran steli di ginestra colti a Briscata nel Bisagno): nel 1162 si die’ assetto allo scalo presso Santo Sepolcro (San Giovanni di Pre) acciocchè approdasser ivi le navi con prede; e nel 1191 già funziona, presso l’oratorio di San Giacomo, lo Spedale dello scalo di Pre, ricovero di infermi e vecchi marinai delle ciurme. E prima del 1200 abbiam notizie di varamenti di navi fatti dai macelli del Molo, dalla Malapaga, da San Marco, dal fossato di Bocca di Bò (San Giovanni di Pre), e dalle case de’ Fregosi a San Tomaso. E durante poi il secolo XIII le case della riva sono palagi di potenti famiglie. (Malnate, 1892)

1134. San Teodoro, vecchia chiesa. La chiesa vecchia di S: Teodoro era in possesso dei Canonici Regolari di Mortara che nel 1449 si aggiunsero alla  Congregazione dei Lateranensi di S. Salvatore. Nel 1481 ebbe da Sisto IV il titolo di Abbazia, che tennero fino alla soppressione avvenuta nel 1858. Venne restaurata nel 1863 e distrutta il 4 ottobre 1870. (Miscosi,1933)

1134. Rioni di Genova. Rione di Borgo: abitato fuori le porte che si estendeva fino all’attuale sestriere di Prè. Rione di Soziglia. Rione della Porta ossia di Banchi. Rione di S.Lorenzo. Rione di Maccagnana: da S.Ambrogio giù per il Canneto il lungo. Rione di Piazza lunga costituito dalla contrada detta dei Giustiniani. Rione di Palazzolo corrispondente al Castello. Rione di Portanuova che comprendeva la zona della Maddalena. (Vedi mappa ideale su Campodonico, 1989, pg.26)

1136. Saraceni. I genovesi vanno con 12 galee in Bugea e si impadroniscono di una grossa nave saracena carica di uomini e d’oro. Nel 1937 i genovesi con 22 galee navigano verso il Garbo in cerca del caid Mohammend-ibn-Meimùn d’Almeria che conduceva 110 navi, ma non trovatolo depredarono navi e possedimenti saraceni. (Donaver, 1890)

1138-1287. Corrado II e le monete genovesi. Corrado II, re di Germania, concesse a Genova con un diploma, nel dicembre 1138, il privilegio di battere moneta. Precedentemente i genovesi avevano come moneta i bruni e bruneti coniati alla zecca di Pavia. La prima moneta coniata fu il denaro, di biglione, Sul diritto è presente il Castello con tre torri e scritto “Ianua”. Sul rovescio la croce con la scritta “Cunradi rex”. Sottovalori furono: la medaglia (mezzo denaro) e il quartaro (quarto di denaro) detto anche grifone, rappresentato come nell’antico sigillo del Comune. 240 denari genovini formavano la lira. Il genovino d’oro o fiorino genovino venne coniato verso il 1200 e valeva 12 lire italiane. Lo scritto Ianua sul diritto del denaro fu, nel 1276, modificata in Ianua quam Deus protegat. Altre monete che si andarono coniando a Genova sono: in argento: il grosso (60-70 centesimi), il grossone o testone (2 lire), la lira, lo scudo, il ducatone e il pezzo di S.Giorgio; in oro: il fiorino, il ducato largo, lo scudo del sole, lo scudo d’Italia, la doppia, lo zecchino e il marengo (20 lire). Dopo il 1287 nelle colonie della Crimea si usavano: gli aspri che portavano sul dritto il castello con scritti Caffa e due iniziali, forse del Console, e sul retro l’effigie dell’imperatore tartaro con intorno il suo nome scritto in arabo; e i sommi, che non erano una vera moneta, ma corrispondevano a un certo numero di verghe d’argento.

1139. Monete. Usavansi in genova i Bruniti, moneta propria che soddisfaceva l’onore dell’indipendenza del Comune. Ma sviluppati i suoi traffici coll’estero, Genova libera, non soggetta all’impero, umiliossi chiedendo privilegio a Corrado di Germania nel 1139 di batter moneta, pur di averla di maggior corso all’estero. E qualche secolo dopo, la repubblica fiorentina imitava la genovina d’oro, chiamandola fiorino, tanto il conio genovese avea bontà e fama nei commerci. (Malnate, 1892)

1146-1190. Genovesi in Spagna. Nell’assalto di Minorca, 1146, sono 22 galee e 4 navi, 63 galee e 163 navi contro Almeria e Tolosa negli anni 1147-48: e poi 80 navi nell’impresa di Terrasanta del 1190. (Malnate, 1892)

1146. Saraceni. I saraceni infestavano sempre di più il Mediterraneo per impadronirsi di Minorca. I genovesi allestirono 22 galee e 6 golette con macchine belliche ed al comando del console Caffaro, assieme a Oberto della Torre, occuparono Minorca, uccisero i due terzi dei saraceni armati e saccheggiarono la capitale dell’isola. Quindi si diressero su Almeria impadronendosi di molte ricche navi dei saraceni. I saraceni si offrirono di pagare, ma notte tempo il loro re fuggì. Elessero quindi un nuovo re e pagarono. (Donaver, 1890)

1146. Re di Spagna. Alfonso VII re di Castiglia e di Leon, proclamato imperatore nel 1135, Don Garzia IV re di Navarra e Raimondo Berengario IV conte di Barcellona stipularono una lega con la repubblica di Genova e, pare anche con Pisa (sebbene il Caffaro non ne parli). (Donaver, 1890)

1147. Genovesi e Spagnoli contro i Saraceni di Almeria. Alla fine di giugno del 1147 da Genova partiva una flotta di 63 galee, 163 navi minori e 12 mila armati sotto il comando di sei Consoli, approdando a Capo di Gota. Alfonso VII tardava ad arrivare e fu sollecitato da Ottone di Buonvillano, ma solo il conte Raimondo di Barcellona arrivò con 400 cavalieri e 100 fanti. Al comando del console Balduino 15 galee si presentarono davanti alla città di Almeria, mentre le altre navi stavano in agguato. Tutti i saraceni uscirono in battaglia e allora tutta la flotta genovese attaccò. Morirono 5 mila mori. Si racconta che Guglielmo Pelle con la spada ne uccidesse 100. I genovesi, ai primi di ottobre 1147, portarono le macchine e le armi contro la città di Almeria. Giunsero, in aiuto ai genovesi, i pisani, l’imperatore Alfonso VII e Don Garzia IV con 400 cavalli e 100 fanti. Il 17 ottobre 1147 i genovesi e gli alleati occuparono la città uccidendo 20 mila mori. Dopo quattro giorni cadde anche la fortezza e i saraceni per salvare la vita pagarono una grossa somma. La preda dei genovesi fu grassa: 10 mila prigionieri, 60 mila marabotini, due bellissime porte in bronzo e lampade di grande valore. Tra i confederati fu stabilito che Almeria rimanesse al comune di Genova, che la diede in feudo ad Ottone Buonvillano per 30 anni con mille uomini di guarnigione. Gli altri volsero verso Barcellona. (Donaver, 1890)

1147-1148. Genovesi e Spagnoli prendono Tortosa. A Barcellona i consoli genovesi furono pregati di rimanere l’inverno per poi attaccare Tortosa e distruggere il regno moro di Granata. I genovesi mandarono due galere con il bottino e due consoli: Oberto della Torre e Ansaldo Doria, a Genova per ottenere l’autorizzazione alla nuova campagna. Nel luglio del 1148 trecento giovani genovesi attaccarono la città, ma furono respinti. Il giorno seguente si ebbe l’attacco generale e le macchine dei genovesi avvicinate alle mura le danneggiavano assieme alle torri. Un fosso largo 84 cubiti e profondo 64 sotto le mura fu riempito e vi fu collocata una torre in legno. I mori respingevano gli assalitori con pietre da 200 libbre, ma i genovesi squassavano la fortezza, i palazzi e le case della città con palle di pietra. I mori chiesero una tregua di 40 giorni sperando che arrivassero soccorsi. Il 30 dicembre del 1149 i genovesi innalzarono la loro bandiera sulla fortezza. I genovesi ebbero dell’isola situata davanti a Tortosa e un ricco bottino. (Donaver, 1890)

1149. Scalo di san Pancrazio. Lo scalo di S. Pancrazio si trovava sulla Ripa a ovest. (Campodonico, 1989)

1150 ca. Nuove mura a Porta dei vacca. All’appressarsi del Barbarossa è timor grave della popolazione che vivea fuori le mura, e nuovo recinto di subito si eleva, il quale comprende oltre il doppio del vecchio territorio. Cinque nuove porte ivi si aprono, la più occidentale quella nel sito detta delle vacche, poi porta di Vacca che ancor oggi si ammira ( Il Donaver, in una sua recente storia di Genova, dice “Porta dei Vacca perchè ivi avevano proprietà”. E sia, perchè è certo che una famiglia Vaccà o Vacca esisteva in antico, due Vaccà figurando alla pace Pisana (altro fu poi Doge), e perchè trovò il Belgrano che avea quella famiglia case presso Santa Fede. Ma sia anco lecito notare come il Giustiniani (Annali – Libro 5°, pag.279. Ediz. Del 1835), chiama questa Porta delle vacche e non dei Vacca. Ed è un fatto curioso, che spiegheranno gli storici, quasi tutti i Comuni italiani avevano una porta delle vacche o vacca! (Malnate, 1892)

1154. Federico I di Svevia, detto Barbarossa. Nel 1154 il re di Svevia Federico II detto il Barbarossa, scese in Italia e a Roncaglia tenne una dieta. I genovesi mandarono i loro ambasciatori con ricchi regali. Il Barbarossa li gradì molto e affermò che voleva rispettare Genova, anzi chiese il loro aiuto per impadronirsi della Sicilia governata da Guglielmo. Inoltre i genovesi, sentite le intenzioni del Barbarossa di occupare e distruggere Milano, si prepararono a difendersi. Infatti l’anno successivo il Barbarossa distrusse Milano, Asti, Cairo e Tortona. I genovesi allora, pur mantenendo i buoni rapporti con il re Svevo, accelerarono le opere di difesa e lavorarono notte e giorno uomini, donne e giovinetti alla costruzione di nuove mura e nuove porte. Anche l’arcivescovo Siro II impegnò gli arredi sacri e d’argento per contribuire alle spese di difesa. In circa due mesi Genova fu solidamente fortificata. (Donaver, 1890)

1155. Il canonico Manfredi. In Terrasanta non sempre i privilegi dei genovesi erano rispettati dal re di Gerusalemme, dal conte di tripoli e dal principe di Antiochia perciò il canonico Manfredi fu inviato dal Papa, portando in dono un prezioso anello. Questi l’ascoltò ed ordinò ai suddetti governatori di rispettare i domini ed i privilegi che i genovesi avevano conquistato con tanto sangue. Il Papa si adoperò affinché anche in Provenza cessasse la concorrenza commerciale con i genovesi. (Donaver, 1890)

1156. Sicilia. I consoli Ansaldo Doria e Guglielmo Vento si recarono in Sicilia per stringere alleanza con il re Guglielmo. (Donaver, 1890)

XII secolo. Porto. Il porto di Genova nel secolo XII (mappa ipotetica). Sono presenti: Scali di Boccadibò (1162-63), Scalo di S.Fede, Scalo della Ripa, Scalo di S.Pancrazio (1149), Ponte del Vino, Ponte Streiaporco, Ponte di Piazzalunga, Scalo della Cava, Molo, Faro, “Palacietum” dei Conservatori del Porto e del Molo”, Scalo del Macello (1201), Scalo della Marina di Sarzano. (Campodonico, 1989)

XII secolo. Pirateria, diritto di naufragio. Tutti i documenti del secolo XII fan fede che il genovese Comune, nonché aborrire la pirateria, all’Europa civili costumanze portava ne’ traffici marittimi, e vera crociata bandiva contro il barbaro diritto di naufragio. Il qual barbaro diritto, sempre proscritto dalle leggi genovesi, era da alcune nazioni, ora maestre di civiltà, sì inteso in allora che non solo le robe de’ naufragi si appropriavano, e facevano i naufraghi captivi; ma egual pretensione estendevano a’ navigli che per fortuna di mare, o bisogni, rilasciavan di rifugio a quei lidi inospitali. Sullo scorcio di quel secolo (XII) abbiamo, è vero, due nomi celebri di pirati genovesi, Cafforio e Grasso; ma e’ erano dai magistrati di Genova perseguitati. (Malnate, 1892)

1158. Estensione delle mura. Le mura si estendevano da S.Andrea alla Domoculta (attuale teatro Carlo Felice), salivano sul colle di Piccapietra, scendevano per le Fucine fino a S.Marta, costeggiando l’Acquasola fino al Portello, quindi dritte fino a S.Agnese, allargandosi a S.Sabina e alla porta detta di S.Fede (chiesuola) o dei Vacca (proprietari della zona). (Donaver, 1890)

1158. Confini di Genova. A levante il Rivotorbido (Madre di Dio) che passando per Portoria scendeva al mare sotto il borgo dei Lanajuoli (il padre di Cristoforo Colombo era lanajuolo), a nord  il fossato di S.Anna, a ponente il fossato di Vallechiara  e quello di Carbonara che raggiunge il mare davanti alla porta dei Vacca, a sud il mare che dai piedi del colle di Sarzano ad arco si estende fino alle pendici del colle di Oregina. (Donaver, 1890)

1161. Salvatori del Porto e del Molo. Di questa magistratura si han notizie dal 1303; ma certo è funzionasse (forse sotto il nome de’ Consoli del mare) da tempi più remoti. Poiché troviamo nelle antiche memorie che fin dal 1161 un pubblicouffizio curava le segnalazioni notturne ai naviganti; con falò probabilmente, e per mezzo del faro detto poi della Lanterna; e nel XIII secolo regolava normalmente le opere portuarie, interne e foranee. (Malnate, 1892)

1162. Scali di Boccadibò. Nel 1162 i Consoli della Repubblica acquistarono e fecero demolire le case lungo il litorale tra San Giovanni di Pre e il fossato di Bocca di Bò (oggi piazza Statuto) per costruirvi uno Scalo per ricovero delle navi. Gli scali di Boccadibò si trovavano tra la porta di S. Fede o dei Vacca e S.Giovanni (di Pre). (Campodonico, 1989)

1163. Cantieri. Da antiche memorie abbiamo contezza che all’epoca delle Crociate la spiaggia dalle Grazie a San Tomaso era un vasto cantiere: e il lodo dei Consoli del 1163 ne fa certi della cura che vi poneano i magistrati. Ma alla fabbrica delle navi non bastava, e Sampierdarena, Arenzano, Varazze e Savona con più vasti cantieri a’ bisogna sopperivano. (Malnate, 1892)

1163. Scali e ponti. Ben difesa dalle mura a terra. Non così forte sul mare, Genova teme della sua spiaggia che lascia indifesa. Dà anzi assetto, in quella età, agli scali e a ponti; e dal Mandraccio a San Teodoro  molti di nuovi ne costruisce (Decreto del 1163. In ecclesia Sancti Laurentii ecc. (Malnate, 1892)

1174. Costantinopoli e Marsiglia. Restituita Costantinopoli dall’armata Genovese ai paleologhi: cacciatine I veneziani e preso l’alto dominio del commercio in quei mari, Smirne, tenedo, Pera, Canea eran pressochè in possesso di Genova. Signoreggiava Caffa e altri luoghi della Tauride. In Italia la sua armata avea domato Sardegna e Sicilia: oltre il Regno di Corsica, Genova stendeva sua potenza sulle riviere, e sino a Pisa e sin verso Marsiglia (Raimondo Marchese di provenza avea fin dal 1174 ceduto al dominio de’ Genovesi Marsiglia e la marina di Arles fino alla Torbia). (Malnate, 1892)

1182. Chiesa del Carmine, Giovanni Argiroffo. La chiesa del Carmine sorse su di una piccola cappella dedicata alla Nunziata eretta nel 1182 da Giovanni Argiroffo. Poco dopo i Carmelitani vi costruirono la chiesa del Carmine che nel 1262 funzionava regolarmente. (Miscosi, 1933)

1190. San Tomaso a Capo d’Arena, Santa Limbania. Nel 1190 vennero custodite nella cripta le reliquie di Santa Limbania, vissuta nell’attiguo convento. Esse furono raccolte in un’urna cineraria di fattura tardo romana (un secolo anteriore a Costantino) riscalpellata da romano-cristiani per accogliere le ceneri di due coniugi cristianizzati. Nel 1200 comiciarono ad affluire i pellegrini per visitare la tomba si santa Limbania. Dal 1473 la terza festa di Pentecoste veniva portata in processione la testa della Santa in una teca ricchissima dell’orafo Giuliano De Ferrari. Nel 1510 le Benedettine lasciano il convento sostituite dalle Agostiniane. Nel 1798, soppresso il convento, le Agostiniane si trasfriscono in San Sebastiano portanto la testa di Santa Limbania. (Miscosi, 1933)

1190. Terrasanta. In terrasanta nel 1190 si spedirono 80 navi. (Malnate, 1892)

1190-1256. Podestà forestieri. Le discordie intestine, mal comune in Italia, perturbarono gli ordinamenti: e Genova pure fu retta da Podestà forestieri. Ebber però corta vita  (1190-1256), chè il popolo grida nel 1257 Gugliemo Boccanegra suo capitano: e sotto i Capitani del popolo nel XIII secolo Genova acquistò la maggior sua gloria. (Malnate, 1892)

1191. Ospedale dello Scalo della Marina di Pre, chiesa di san Vittore. Si ha memoria che nei pressi dell’attuale piazzetta dello Scalo esisteva nei secoli passati un Ospedale detto dello Scalo della Marina di Prè di cui si videro i resti nel 1835 con l’apertura di Via Carlo Alberto. L’Accinelli afferma che tale Ospedale fosse destinato agli schiavi (detti galeotti perchè maneggiavano il remo nelle galee della Repubblica) quando, divenuti vecchi non erano più in grado di lavorare. Nella vicina chiesa di San Vittore (ora distrutta) vennero rinvenute molte ossa umane appartenute ai galeotti della Darsena. Della chiesa di san Vittore si ha notizia fin dal 936 dC anno in cui fu incendiata dai Saraceni assieme alla chiesa di Santa Sabina. La chiesa di San Vittore fu officiata fino al 1799, quando i religiosi si trasferirono in San Carlo. Quindi divenne un magazzino (come accadde alle chiese di san Fede e Santa Sabina) fino alla sua demolizione avvenuta nel 1837. (Miscosi, 1933)

XII secolo. Costo delle navi. Dagli atti de’ notai verso la fine del secolo XII, e durante il secolo successivo, ricaviamo che le navi vendute colle attrezzature, valevan non meno, per media, di mille e cinquecento lire genovine, che forse, atti tutti i compiuti, contavan oltre 350 mila lire del valore attuale. [1892] (Malnate, 1892)

XII secolo. Trattati col Marocco e con L’Egitto. Veniva pur d’onor grande e di lucri, la navigazione tra Genova e gli stati barbareschi [nord-africani] e l’Egitto. Prima ancora che tramontasse il secolo XII genova avea già trattati col Marocco e col Soldano d’Egitto. Due volte all’anno partivan da genova conserve di navi per questa navigazione, di primavera e d’estate: passagium martii e Sancti Johannis Baptistae. Stazionavan dapprima a Ceuta (Gibilterra), poi a Tunisi, ove ben presto i genovesi si fecero potenti. Si avean colonie e porti d’importanza d’approdo altresì a Tripoli e Bugea, per tacere dei minori. … Meta di tal navigazione era per altro Alessandria. … Il gran mercato era al Cairo; ma Rosetta e Damiata avean pure importanza, e Genova potè mettere Consolati antichissimi in quei luoghi. (Malnate, 1892)

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1191

MANEGOLDO TETOCIO, BRESCIANO,

PRIMO PODESTA’ DI GENOVA

 Giunta F., Manegoldo Tetocio, gentiluomo bresciano, primo podestà di Genova nel 1991, in MISINTA, giugno 2015, pp. 63-76.

1187. Menegolgo Tetocio, gentiluomo bresciano, primo podetà di Genova. Le notizie biografiche su Menegoldo Tetocio sono pochissime e paradossalmente presenti maggiormente nella storiografia genovese piuttosto che in quella bresciana. Eppure il nostro ha vissuto a Genova solo un anno. Menegoldo Tetocio compare come primo firmatario nell’ Actum est in choro ecclesie sancti petri de dom civitatis brixie feliciter. Ibi fuere Manegoldus de tetozio,… , che nel 1187, 8 giugno, rogava la vendita per 210 monete nominative bresciane, equivalenti a centocinque lire imperiali, del terreno su cui sarebbe stato costruito il palazzo del Broletto (Venditio facta per canonicos brixie de terra ubi fuit constructum palatium brixie. Anno 1187, 8 giugno.Vedi anche Odorici, St. Bresciane, vol VI, p. 62): ducentum et x librar brixiens monete nominative pro terra super quam est pallatium comunis constructum ubi soliti erant esse domus terranee et ortulus iuris ipsius ecclesie.

1187. L’Odorici nelle sue Storie bresciane, vol. V, stampate nel 1836, ricorda: Consoli del 1187 furono: Bresciano Confalonieri, Oddone Avvocato, Tedaldo da Moscoline e Mario Palazzo. Ma il Biemmi tutto lieto recita i nomi dei concittadini che di que’ tempi sostennero decorosi offici: il conte Azzone, Apotasio Avvocato, Ardizone Confalonieri, Oprando Martinengo ed Alderico Sala (cinque rettori della lega lombarda), Alberto Gambara pur nostro (fatto arbitro della pace fra i comuni lombardi e l’imperatore), Desiderio giudice, Manigoldo Tetocio, Boccaccio da Manerbio, Martino Pettenalupi e quel Pietro Villano che vuolsi compilatore delle prime consuetudini bresciane riordinate a statuti, e che fu console nel 1188 e nel 1189 con Domofollo Cazzago consul major Brixiae e con Marchesio Ballio. … in cui il nostro Menegoldo è stato al più solamente nominato, ma di lui non si conoscono azioni degne di storia.

Della vita di Menegoldo Tetocio, o de Tetozio o de Tettuccio, o latinizzato in vari modi, non si hanno notizie significative nella storiografia bresciana. Pare sia diventato noto sprattutto per essere stato nominato il primo podestà della Repubblica Genovese nel 1191.

La figura del podestà nasce in età comunale, soprattutto nell’Italia settentrionale, intorno al XII secolo, per sostituire il governo dei consoli e con le ragioni che sono state ben argomentate nello scritto del Foglietta che leggeremo in seguito. Il podestà esercitava soprattutto il potere esecutivo (di tutela della sicurezza personale e della giustizia) facendo applicare le leggi già scritte e sulle quali aveva fatto giuramento; veniva eletto dalla più rappresentativa assemblea comunale, per dimostrare di aver ricevuto l’incarico da tutti i cittadini ed avere quindi la forza per evitare violenze e compromissioni a favore di chicchessia. Inoltre, per evitare di essere coinvolto in interessi da parte delle famiglie potenti, il podestà veniva scelto al di fuori della città che avrebbe governato e tra i personaggi più noti per aver mostrato pubblicamente capacità ed equilibrio e pertanto veniva chiamato: podestà forestiero.

Citiamo brevemente le regole a cui il podestà nominato dovrà sottostare, come riportato in seguito da Girolamo Serra nella sua Storia della antica Liguria e di Genova:

«1.° Non vedrà gli statuti di Genova se non dopo aver preso il giuramento di volerlosservare.

2.° Sarà servito da venti persone e accompagnato da tre cavalieri, e da due in tre giudici a sua elezione, i quali terranno gradatamente sue veci con titolo di vicarj o luogotenenti in caso di assenza, malattia o morte.

3.° Salarj, pigioni, spese di viaggio resteranno a carico del potestà; ma riceverà provvisione di lire milletrecento di genovine, due lire giornali di più nelle campagne marittime, nelle terrestri quattro, nelle ambascerie quanto deciderà il consiglio.

4.° L’anniversario del giorno che avrà preso il magistrato, dovrà esso non solo uscire di Genova, ma seco i suoi terrazzani e distrittuali, della qual cosa si rogherà speciale instrumento.»

A Genova, ai tempi di Menegoldo Tetocio, era presente come scrivano del comune Ottobono Scriba che, sollecitato dai consoli, si accingeva a proseguire nella scrittura degli Annali cittadini già iniziata dal Caffaro. Egli scriveva: Pertanto io, Ottobono Scriba, emulando l’opera gloriosa e degna di lode che un tempo Caffaro di felice memoria compose, poiché un proposito così lodevole era stato a lungo abbandonato per negligenza, benchè io paia essere per brevità d’ingegno non adatto a questo compito, tuttavia ho serbato nella memoria ogni cosa che ho potuto, ed ho composto il presente volume per utilità della cosa pubblica genovese e ad incoraggiamento degli animi nobili, affinché rimanga nella memoria eternamente; e se per caso sorgerà in futuro qualche quesito o dubbio circa i fatti, si conosca la verità attraverso il presente scritto autentico e ogni ambiguità venga rimossa.

Queste parole ci fanno intendere che nel XII secolo si aveva un’alta opinione dello scrivere la storia, sia come doverosa informazione, sia per mantenere la memoria degli avvenimenti che hanno modificato i modi di vivere e di pensare.

Incipit del manoscritto parigino del Caffaro. Paris, Bibliothèque Nationale de France, lat. 10136. (http://gallica.bnf.fr/)

Manegoldo di Tettuccio e i consoli di Genova. Paris, Bibliothèque Nationale de France, lat. 10136, 110r. (http://gallica.bnf.fr/)

 Gli Annales genuenses (Codice latino 10136 della Biblioteca Nazionale di Francia), iniziati dal Caffaro con i fatti della prima crociata nel 1099, proseguono, come abbiamo detto, con gli annali di Ottobono Scriba, continuatore del Caffaro, che scriveva.

«Nell’anno del Signore 1190, … Affinchè i fatti nuovi ed inauditi, che avvennero nei tempi correnti, siano noti ai posteri, per conservare la memoria in futuro, ho intitolato a posto per iscritto nel presente volume i fatti che seguono. Sappiamo dunque tanto i posteri quanto i moderni che a causa dell’invidia di molti, che desideravano avere oltre misura l’officio del consolato del comune, aumentarono fortemente nella città discordie civili in gran numero, cospirazioni e divisioni per odio. Per cui avvenne che i saggi e i consiglieri della città arrivarono ad una soluzione e, di comune accordo, stabilirono che il consolato del comune sarebbe cessato l’anno successivo e quasi tutti concordarono che si dovesse avere un podestà. A questa carica fu eletto e legalmente riconosciuto convenientemente Manegoldo di Tettuccio, bresciano. Ma essendo egli in città [era a Genova? Per cosa e da quanto tempo?] e dal momento che i consoli del comune gli assegnarono la potestà sulle vendette da compiersi, e secondo il costume dei consoli, che si usava sul finire del consolato, essendosi radunati in segreto presso la casa di Ogerio Pane, scriba del comune, per cercare e conoscere i conti del consolato e del comune, occo che Fulchino e Guglielmo Balbo, figli di Folco di Castello, e Fulchino, figlio di un certo Anselmo di Castello, perpetrarono un tremendo delitto; uccisero infatti a tradimento e senza motivo, oh dolore!, Lanfranco Pevere, uomo consolare nobile e stimabile in ogni modo. A causa di ciò si scatenarono nuovamente le discordie civili e le sommosse. Il giorno seguente infatti quell’uomo stimabile qual’era Manegoldo, podestà genovese, con grande dolore e diffuso rossore, celebrò un grandissimo parlamento e vestitosi con la corazza e gli ornamenti militari montò a cavallo e si recò verso una certa abitazione, invero assai lussuosa, che Folco di Castello possedeva dalle parti del castello e la distrusse, abbattendola dalle fondamenta, per vendetta della suddetta empia azione; non potè però catturare i rei dei suddetti omicidi, dal momento che essi, di nascosto, fuggirono rifugiandosi a Piacenza.

Manegoldo fa distruggere la casa di Folco di Castello. Annales genuenses. Biblioteca Nazionale di Francia. Codice latino 10136, folio: 109v. (http://gallica.bnf.fr/)

 I consoli di giustizia suddetti dunque trattarono onestamente e benignamente gli affari dei cittadini e della città, concedendo ad ognuno fraternamente i propri diritti.
Nell’anno del Signore 1191, indizione ottava, ebbe termine il consolato del comune e fu costituito podestà e governatore della città Manegoldo di Brescia; nel medesimo anno vi furono otto consoli per la giustizia, cioè Bellobono di Castello, Ogerio di Pallo, Guglielmo di Ingo Tornello e Guglielmo Zerbino dalla parte della città; Rolando di Carmandino, Ottone Guaraco, Angeloto Visconte e Folco Spezapreda nelle altre quattro compagne dalla parte del borgo.Il suddetto Manegoldo mandò Angeloto Visconte come ambasciatore presso il re di Maiorca e Streiaporco in Sardegna.
Sappiano per vero sia i posteri che i moderni, che il re Enrico, figlio dell’imperatore Federico, che il papa Celestino III imcoronò poi imperatore, mandò i propri legati e lettere al suddetto podestà Manegoldo e al comune di Genova, chiedendo che il comune di Genova lo aiutasse ad acquistare ed ottenere il regno di Sicilia, e che preparasse per lui un esercito ed una spedizione: in cambio di queste cose egli fece molte grandissime promesse attraverso i predetti ambasciatori, e cioè attraverso Ottone, arcivescovo di Ravenna e Arnaldo Stretto di Piacenza. Per stabilire e compiere anche queste cose il podestà ed il comune di Genova inviarono degli ambasciatori al medesimo imperatore, che si era mirabilmente accampato per l’assedio di Napoli, e cioè Ugolino Mallone e Ido Picio; lo stesso imperatore promise e giurò loro molte e grandissime cose, e li dotò di un suo privilegio contrassegnato con bolla d’oro. Confermò infatti le vecchie consuetudini e i vecchi privilegi, la marca e il comitato, il poggio di Monaco, il castello di Gavi, la città di Siracusa con tutti i suoi dintorni e duecentocinquanta cavallaridi terra nella valle di Noto, e molte altre cose che sono contenute nello stesso privilegio. Queste cose poi, invero, contro il suo onore e la sua promessa di fedeltà, considerò malamente e in maniera disonesta; anzi, cosa più triste, fece quasi il contrario di tutte quelle cose, così come più sotto, nel presente volume delle cronache, sarà dimostrato a coloro che poi vorranno sapere. Compiute dunque le suddette cose e tornati a Genova gli ambasciatori suddetti, la città di Genova preparò un’armata ed un esercito al servizio del citato imperatore e, prima ancora di avere il castello di Gavi, che ebbero veramente a quel tempo, (il possesso ed il dominio di questo fu infatti assegnato e dato, per conto del comune di Genova, al suddetto Manegoldo), tutto quanto l’esercito, nel giorno della Assunzione della beata Maria, salpò dal porto di Genova; vi erano trentatré galee, che ebbero come comandanti e condottieri i consoli Bellobruno e Rolando di Carmadino. E queste galee giunsero sino al fiume di Castellammare, che si trova presso il monte Dracone, dove Margarito, ammiraglio di re Tanclerio, che era in Sicilia da molti giorni, aveva sotto assedio l’esercito pisano. Ma come giunsero le suddette galee dei genovesi, non avendo trovato l’esercito pisano che era fuggito di notte, vennero a sapere che lo stesso imperatore, colpito da un morbo, aveva cessato l’assedio ed era stato trasportato di là, semivivo, a Capua. Saputo ciò, i genovesi, che erano nell’esercito, addolorati a morte, giunsero con tutto l’esercito presso l’isola di Ischia; sul venir della notte navigando giunsero poi presso le isole di Ponza e di Palmarolia. Fattosi però mattino, Bellobruno aspettò l’esercito con la sua galea e si trovò con ventitré galee; infatti l’altro console, Rolando, aveva preso il mare con altre galee. Avvicinatosi però al promontorio del Circeo, ecco che apparve Margarito con l’esercito di re Tanclerio, cioè con settantadue galee, due saette e due scurzate, ed oltraggiò lepredette ventidue galee. Scorte quelle, le nostre galee innalzarono i vessilli e presero le armi, volendo aggredire l’esercito di re Tanclerio. Alla fine accadde che Margarito, con l’esercito del re, volse in fuga, dirigendosi verso l’isola di Ischia; l’esercito di Genova si diresse verso Roma e sbarcò presso Civitavecchia; da li mandarono propri ambasciatori all’imperatore che si trovava malato presso San Germano, chiedendogli di stabilire il da farsi. Questi, per mezzo del suo messaggero Arnaldo Stretto e delle sue lettere, permise all’esercito di tornare in patria, dicendo che lui stesso sarebbe venuto a Genova per trattare di persona del rinnovamento e della costituzione, di nuovo, dell’esercito per ottenere il regno di Sicilia, ed anche per impadronirsi di più cose, dal momento che il re Tanclerio gli aveva portato via la moglie che lui aveva fatto trasportare da Salerno in Sicilia. E così il suddettoesercito rientrò a Genova. Giungendo dunque l’inverno, il suddetto imperatore giunse a Genova, all’incirca nel periodo della festa di San Martino e, riunitasi l’assemblea ed il consiglio per rinnovare l’esercito, promise molte cose alla città e al comune di Genova, che furono invero osservate e compiute in malo modo. Fatto ciò l’imperatore si allontanò e tornò in Germania.Accadde intanto che una certa galea narbonese andasse per i confini di Genova depredando navi; Guglielmo diIngo Tornello la inseguì con una galea con la quale la trovò e la catturò nel porto di Vado. In quest’anno anche Guglielmo Zerbino fu inviato, assieme all’ambasciatore Oberto di Nigro, per conto del comune di Genova, presso il re del Marocco Elmiremumulino (i tratta di un titolo assunto dagli emiri del Marocco: Emir al-Mu’minîn significa infatti “Principe dei Credenti”. In questo caso il titolo è riferito ad Abu Jusuf Ya’qub el-Mansur (1184-1199),potente regnante della dinastia almohade: Annali Genovesi di Caffaro e de’suoi continuatori, cit., II, p. 41.), con il quale fecero trattative e accordi. La città di Genova subì molte spese ed oneri per l’esercito e gli incarichi dell’imperatore. Manegoldo distrusse dalle fondamenta il castello di Montacuto, che gli assassini di Lanfranco Pevere, una volta console, avevano costruito ad oltraggio della città. II suddetto uomo, Manegoldo, resse e governò bene ed egregiamente la città di Genova ed anche i suddetti consoli trattarono convenientemente gli affari della città e dei cittadini, assegnando a ciascuno, fraternamente, i propri diritti.»
Questo è ciò che si legge negli Annali genovesi scritti da Ottobono Scriba, continuatore degli annali del Caffaro, nel 1190 e 1191 con dovizia di particolari e illustrazioni nel codice membranaceo custodito alla Biblioteca Nazionale di Francia. Si tratta quindi di una scrittura coeva con gli avvenimenti, descritti dal funzionario scriba del comune di Genova.  
Nel 1597 usciva postumo il libro del mons. Uberto Foglietta (storico controverso della Repubblica genovese),Dell’Historie di Genova, tradotte per M. Francesco Serdonati, in cui leggiamo un’accorata proposizione della figura del Podestà come antidoto alle violenze dei Consoli nei confronti loro e della città. Si riportano i passi più significativi.
1190. «Quest’anno è molto notabile per essersi in esso mutata la forma della Repubblica, e trasportato il reggimento della città da Consoli a un Podestà forestiero. La cagione: di tal cosa fù tale. Insieme con le ricchezze della città, e col numero de gli abitatori, le quali amendue cose crescevano ogni dì più, era cresciuta ancora l’ambizione de cittadini, e molti delle principali famiglie aspiravano al primo luogo del governo della Republica, il quale haveva cominciato a essere di molto splendore, la qual cosa haveva diviso la città in parti, e fazzioni contrarie, e accendeva ogni dì più gli odi de’ cittadini fra di loro, i quali essendosi da prima passati con contese, e risse di parole, havevano già cominciato à finirsi col ferro, e col sangue. A questo male molti cittadini da bene, e amatori della quiete dicevano ritrovarsi questo solo rimedio, essendosi trovato tutti gli altri essere vani, se si togliesse via la cagione, traportando il governo della Republica da cittadini a un Podestà forestiero ad essemplo di molte città d’Italia, che havevano introdotto questo costume. Fù adunque a poco a poco messa in considerazione tal cosa per la città, e diede opportunità di fare vari ragionamenti, e dire vari i pareri, secondo la natura di ciascheduno nelle private ragunanze, e la cosa passata tra’l volgo lungamente in contese, fu finalmente condotta al publico consiglio della città, dove altresi furono vari pareri, e quelli, che erano alieni dall’introdurre il Podestà disputavano in questa maniera. «Ogni novità, Signori Senatori, è stata sempre tanto odiosa, e sospetta a gli huomini savi, e gravi, e costanti, che essi hanno sempre rifiutato i consigli ampi, e onorati, e che porgessero speranza di maggiori ricchezze, e di maggiore ingegno, se mutassero lo stato delle cose, che per molti anni fosse stato sperimentato esser buono, e salutevole. Noi per lo contrario siamo tanto amatori della novità, che abbracciamo un consiglio pieno di viltà, e di vergogna, il quale di più ha sembianza di servitù, e di vero ci apporta l’istessa servitù: la qual cosa è stata sempre abbominevole sopra tutte l’altre: alla quale risoluzione, niun popolo mai s’è sottomessòo, se non quando è stato confermato dalla lunghezza de mali, e sforzato da estrema necessità, non havendo alcun’altra via di schivare l’ultimo sterminio. Lo stato dei Genovesi non è ancora a questi termini, ne s’è ancora venuto a questi estremi mali. Quanto è cosa indegna, che quel popolo, che aspiri a imperi esterni, e il quale habbia già cominciato a sottomettere alla sua signoria straniere nazioni, e grandi Isole, in casa sua stia soggetto a forestieri? non avvertiscono gli huomini, che il nome Genovese, che è temuto, e reverito da regni grandissimi, sarà per innanzi disprezzato, e schernito da tutti. La concordia dunque costerà molto cara alla città se si compera con la servitù, conciosie cosa, che si possano ritrovare molti altri rimedi di stabilirla, ò col fare i giudizi severamente, e frenare l’ardimento de gli huomini malvagi col timore delle pene, ovvero col rimettere, e riformare con leggi salutifere la disciplina caduta, e trascorsa, ovvero con impiegare nelle guerre esterne gli animi de cittadini fatti insolenti per lo stare soverchiamente in ozio. Questo consiglio di vero è, come se alcuno ignorante nocchiero non sapesse con verun’altra arte liberarsi dal pericolo del soprastante naufragio, che con sommergere la nave stessa: dovrebbe distorci da così vile risoluzione, non che altro il timore di non parere incostanti, e instabili, accioche non paia, che noi per cosa così leggiere, e agevole a medicare, habbiamo mutato il reggimento de Consoli, che per lo spazio di trecent’anni habbiamo per isperienza conosciuto esser molto salutifero.»
Quelli, che rifiutavano il Podestà disputavano quelle, e molte altre cose simiglianti a tale proposito, e quelli, che erano di contrario parere, rispondevano molte cose in contrario, e quegli, che tra loro teneva il primo luogo, disse. «Ne io di vero, o padri, abborrisco meno la servitù, che è l’ultimo de mali, ne giudico doversi con tanto gran prezzo comperare la concordia della città: ma con questo salutevole consiglio non si mette la città in servitù, ma più tosto si libera dal pericolo della soggezzione, tagliando le cagioni delle discordie civili, le quali sogliono affrettare la servitù alla città: al cui male, prima che egli prenda maggiori forze, e col tempo divenga insanabile bisogna rimediare subitamente nell’istesso principio; alcuni abusano questo grave nome di servitù, e in niuna maniera conveniente alla cosa, che si tratta, i quali nomano la nuoua forma di Republica con voce abominevole: percioche noi non chiamiamo nella città un signore, ma un Podestà; e conciosie cosa che in una citta libera sia in tutto di mestiere obbedire ad alcuno magistrato, non importa punto se quel magistrato si da a un cittadino, ò a forestiero, il quale dall’uno, e dall’altro è riconosciuto, come dato dal publico consiglio, e da tenerlo per lo spazio d’un anno: appresso al quale consiglio sia la fomma dell’imperio, e il quale possa dare i magistrati, e torgli, quando gli piace, e si serva del forestiero, e del cittadino ugualmente per ministro, non per padrone. Che accade dunque, che quelli, che sono di contrario parere mettano sozzopra il cielo, e la terra, e così ostinatamente rifiutino quella medicina che sola per ora sovviene, e la quale tante città trovano essere saluteuole? Overo qual cosa ci vieta, havendo trovate vane tutte l’altre maniere d’acchetare gli animi, fare sperienza di questo nuovo, e secondo, che si troverra, ò buono, ò reo così usarlo? e la ragione di quelli che dicono, che le discordie nate fra cittadini si deono tor via con giudizi, e con la severità del gastigo, e come se alcuno medico potendo tagliare le cagioni generanti l’infermità, e cacciarla quando la viene, lasci, che il corpo sia da essa assalito, e poi tenti co medicamenti cavarnela. La qual cosa inganna spessamenti gli huomini. Le cagioni dunque de mali, e delle discordie, che dirivano dall’ambizione, e dal disiderio di sormontare al primo luogo, si deono tor via; e quanto alla comparazione del nocchiero ignorante, il quale sommerga la nave, si può rispondere con un’altra del medesimo genere molto più acconcia, cioè che’l buon nocchiero, il quale havendo havuto sempre il medesimo vento favorevole sia navigato felicemente, mutandosi il vento, muta ancora la vela; e questo non essere indizio d’incostanza, ma certo argomento di saper ben governare. I Genovesi dunque non hanno a mutar la forma della Republica per instabilità d’ingegno, ma essendo rimutati i tempi della Republica deono accommodare ad essi le loro risoluzioni, ne per tal conto s’impedisce il corso alla gloria, e ad allargare l’imperio, anzi che in questo modo si fa la via più spedita d’arrivare a questo; e le forze della città, che dalla discordia de cittadini erano infievolite s’ingagliardiscono, e non solamente non facciamo, che la nostra città sia disprezzata da gli stranieri, ma ancora non ci è verun’altro rimedio di tor via l’incominciato dispregio, nel quale habbiamo già cominciato à essere non solamente appresso i Prencipi grandi, e le nazioni molto lontane, ma siamo ancora disprezzati dalle terricciuole vicine della Liguria, e da piccoli Baroni del paese, che si vergognano quasi d’esser chiamati Signori, che non solamente rifiutano di dare obbedienza, ma anche non dubitano, se così piace a Dio, di prendere l’arme contra di noi per ogni leggier cagione. Ma quando intenderanno, che la virtù de Genouesi sciolta da legami, co quali fino a qui è stata tenuta stretta dalle discordie civili, sarà più libera, e più spedita a difendere l’onor suo; noi con questa salutifera risoluzione torremo queste vergognose indegnità dal nome Genovese.»
Quello parere prevalse, e per decreto del consiglio fù chiamato per primo Podestà della città per l’anno seguente Manigoldo Tetocio gentilhuomo Bresciano huomo molto celebrato per fama di prudenza, e di giustizia. Poteva parere, che le cagioni delle discordie civili fossero tagliate in avvenire con questa nuoua risoluzione di chiamare il Podestà forestiero, ma i semi de gli odi, che restavano ne gli animi de gli huomini sparsi dalle cagioni, che già verdeggiavano, non furono del tutto diradicati: i quali quel medesimo Fulcone di Castello che fù una perpetua sacella de mali della città, il quale non haveva mai restato di nudrire, e per tutte le vie fomentare le discordie, e le cagioni delle contese delle famiglie potenti, come acconcie ad accrescere la sua potenza, sfogò contra uno de Consoli: percioche havendo preso seco alcuni della sua famiglia, e accompagnato da gran moltitudine d’armati, entrato nella casa, dove erano adunati i Consoli a rivedere, e saldare i conti del publico, intorno alla fine dell’anno (non essendo ancora finito il tempo del lor Consolato) ammazzò Lanfranco Pevere uno de Confidi, huomo di buon esemplo nel gouerno tanto civile, quanto militare: la onde essendo commossa grandemente tutta la città, e tutti buoni, il Podestà havendo prima parlamentato al popolo in publico, il dì seguente fece spianare da fondamenti la casa di Fulcone, che era molto ampia,e magnifica. I malfattori non si poterono gastigare, perche, poiché hebbero fatto così grand’eccesso se n’andarono subito fuori dello stato.» 
Il nome di Menegoldo Tetocio ricompare quindi nella storiografia ottocentesca con numerose citazioni. 
Nel 1834 Girolamo Serra nella sua Storia della antica Liguria e di Genova, riporta un importante atto notarile che ci offre un dettagliata formula delle regole a cui il Podestà dovrà sottostare.

«Nell’archivio de’ notai trovammo alcune regole speciali ai podestà di Genova (Liber Freder. de Sigestro Not.). Il consiglio nominerà ogni anno trenta elettori, i quali procederanno all’elezione per via di polizze. L’eletto sarà notificato senza indugio, e interpellato se accetta. Dopo questo due nunzj gli porteranno a giurare i seguenti capitoli, presente il consiglio della natia sua terra: 1.° Non vedrà gli statuti di Genova se non dopo aver preso il giuramento di volerli osservare. 2.° Sarà servito da venti persone e accompagnato da tre cavalieri, e da due in tre giudici a sua elezione, i quali terranno gradatamente sue veci con titolo di vicarj o luogotenenti in caso di assenza, malattia o morte. 3.° Salarj, pigioni, spese di viaggio resteranno a carico del potestà; ma riceverà provvisione di lire milletrecento di genovine (nel 1191 la lira di Genova valeva mezz’oncia d’oro, e la proporzione dell’oro all’argento era quasi suddupla della presente. In tutte le contrade di Europa il valor delle lire andò sempre scemando; donde son nati moltissimi errori ne’ ragguagli di quelle monete) due lire giornali di più nelle campagne marittime, nelle terrestri quattro, nelle ambascerie quanto deciderà il consiglio. 4.° L’anniversario del giorno che avrà preso il magistrato, dovrà esso non solo uscire di Genova, ma seco i suoi terrazzani e distrittuali, della qual cosa si rogherà speciale instrumento.

Primo ad essere eletto fu Manegoldo del Tetocio, gentiluomo bresciano; il quale entrò in ufizio col febbrajo dell’anno 1191. Lodano gli annali i portamenti di quel nuovo capo della Repubblica. Assicurò il gastigo de’ rei, per qualunque aderenza si avessero; represse con man pesanti faziosi; e il rigore dell’animo non gli scemò temperanza; perchè occorrendo il bisogno di una squadra navale, concorse d’ogni suo potere agli apparecchi, ma non si espose a guidarla, come altri poi fecero; e lascionne interamente il governo a’ pratici nazionali.»

Anche nel 1835 nella Corografia fisica, storica e statistica dell’Italia di Attilio Zuccagni-Orlandini, Menegoldo Tetocio viene brevemente citato.

«In quest’ultima gloriosa spedizione [ la terza crociata] aveano providamente mantenuta i genovesi tra di loro strettissima concordia; ma i loro animi incominciarono malauguratamente a mostrarsi proclivi alle civili discordie, nelle quali si trovarono impegnati dopo il ritorno in patria. Stantechè i molti feudatarj domiciliatisi in Genova, abituati di lunga mano alle prepotenze ed alle ruberie, fecero nascere tra i cittadini uno spirito turbolento di parti, per cui incominciarono a cercarsi nelle patrie dignità occasioni d’ingrandimento o di vendetta, e non più di utile pubblico. Per qualche tempo le fazioni civili non si contaminarono di sangue, ma quando poi incominciò questo a scorrere, si credè di apporvi un rimedio col proporre al Senato la sostituzione al governo consolare di un potestà forestiero. Lunghi furono i contrasti, fortissime le contese, ma vinse il partito dei novatori, che seppe porre a profitto l’assenza dei crociati, e sul cadere del 1190 fu proclamato per primo potestà forestiero Manegoldo del Tetocio gentiluomo bresciano. Tornò poi la flotta vittoriosa dalla Soria, e l’indignazione manifestata da quei prodi per la novità introdotta senza lor consenso, venne calmata col ritorno al governo consolare, ma questo era ormai caduto in discredito, e dopo breve tempo furono richiamati i potestà forestieri.»

Così nel 1840 Carlo Varese dà alle stampe la sua Storia della Repubblica di Genova, in cui si legge una importante dissertazione sugli aspetti controversi riguardanti la figura del Podestà.

«[1190] Il commercio, le guerre, l’industria e la sobrietà, aveano condotto molte e molte famiglie genovesi ad un grado di ricchezza che diveniva di dì in dì sempre più pericoloso. Egli è nei governi popolari più che in qualunque altro governo che le ricchezze sono forza; e la forza non sta contenta di un vivere privato, ma si ambisce la dominazione, posciachè è nella natura dell’uomo il sovrastare; il che ben io intendo, non per mio proprio convincimento, ma perchè questa è la storia di tutti i tempi: che matto gusto sia quello di comprarsi inquietudini, torbidi sonni, male digestioni per comandare, questo non so: meglio, a parer mio è obbedire, s’intende alla legge, alla legge a cui l’uomo deve piegare. Ma tale non è il parere dei più, nè era quello dei nobili e ricchi Genovesi di cui parliamo: aspiravano apertamente ad un’assoluta supremazia, e per ottenerla assoldavano clienti, stringevano amicizie, fermavano patti, preparavano armi. E già vedemmo come l’armi usassero, e a quanti pericoli esponessero la sicurezza dello stato: le pubbliche vie ora ingombre d’armati, ora assordate da minaccie, ora funestate da gemiti, spesso bagnate di sangue cittadino: le famiglie, o contristate per morti, o in sospetto: le elezioni dei consoli e dei magistrati non più libere; l’esercito senza disciplina. Erano questi, mali che meritavano pronti rimedii e bisognava cercarnegli.

Molte città d’Italia poco prima fatte libere, si erano trovate a un dipresso nel caso stesso, e aveano creduto porvi riparo col chiamare al governo della cosa pubblica un forestiero a cui davasi il nome di Podestà, e tutte le attribuzioni d’un capo, sottomesse però a certe condizioni quando più, e quando meno larghe. La prima e la indispensabile, era la durata del potere circoscritta ad un anno, a due al più: da principio non poteva essere protratta; cioè, il Podestà non poteva essere confermato per un altro anno, o per un altro biennio. Al giorno fìsso, anzi all’ ora, al minuto, dimetteva le redini, rendeva conto dell’ operato, tornava nel nulla. Parea cosi doversi schivare il pericolo tanto temuto, e tanto da temersi, di veder un solo farsi tiranno; nessuna aderenza, niuna affinità: non partigiani, non simpatia, non isperanze, non armi proprie, non ricchezze; magistrati, capitani, condottieri, soldati, tutti sapere che l’autorità del capo cessava a quell’ora, a quel punto: egli partivasi, onorevolmente ringraziato, ma partiva. Molti erano dei più savii che opinavano, questa essere la sola forma di governo conveniente ad uno stato repubblicano, questa doversi adottare; e la posero a disamina al gran Consiglio. Com’era da presumere, il partito incontrò forte opposizione si per parte di coloro che ambivano alla signoria, si per alcuni cui pareva duro assoggettarsi all’impero d’un forestiero.»

«Vergogna, dicevano questi, vergogna che un popolo il quale avvisa all’impero di bellicose nazioni, che già tien soggetti ricchi paesi ed isole invidiate, che ha un piè in Asia, un altro in Egitto, che si chiama re del Mediterraneo, e che ha un nome temuto e riverito, si assoggetti vilmente al dominio d’uno straniero! E perchè tanto vituperio, perchè? Perchè v’hanno tra noi alcuni turbolenti che anelano a farci servi? Farci servi, ma come? Quel popolo che abborre da servitù più che non abborra dalle pestilenze, tenderà vilmente le braccia a chi volesse gravargliele di catene? A tanto dunque siam giunti che alla inquietezza di pochi niun rimedio s’abbia a trovare fuor quello di dare le nostre robe, le nostre armi, le nostre flotte, noi stessi ad uno straniero? Bello spediente per calmar ire e per evitar servitù! Sì davvero, bello e lodevole spediente! Egli è come farsi tagliare una gamba per paura di scavezzarsela; sommergere un naviglio per timore che la tempesta nol conduca a naufragio. Se questi sono spedienti di prudenza, nol so bene: pajonmi, se devo dirla schietta, o desiderii di novità sempre dannose, o imitazioni ridicole e fuor d’ogni senno. Comprar concordia con servitù, e servitù di straniero! Vedi stravaganza! Hannovi discordie di cittadini? Si compongano: hannovi ambizioni? Si umiliino: turbolenze? Si frenino. Si richiamino in vigore le antiche discipline, chè ne abbiamo e molte di buone: si riformino quelle che lo sono meno; si stabiliscano giudizii severi: s’impieghi in guerre lontane quella esuberanza di vita che ci tormenta: tutto in somma si tenti fuorché adottar vili provvedimenti, fuorché lasciar quel reggimento a cui abbiamo per trecent’anni obbedito, per cui siam giunti a quell’altezza che ognuno sa, e che, se il favore del cielo non ci vien manco, ci condurrà a ben altri termini di prosperità e di gloria».

Alle quali parole rispondevano nella seguente sentenza per bocca di uno tra loro quelli che il Podestà straniero e proponevano e volevano:

«Né io, o padri, abborro meno da servitù, nè stimo doversi con tanto gran prezzo comperare la concordia. Ma nel consiglio che s’ è proposto, io di vero non veggo servitù. Nè le nostre robe, nè le nostre flotte, nè le nostr’armi, e meno noi stessi siam per dare nelle mani di chicchessia: regnano le leggi, regneranno le antiche nostre consuetudini; regneranno quelle discipline alle quali fu pur ora, e debitamente, tributato encomio: ma il podestà le farà eseguire. Egli lo può perchè nulla ha a temere usando la severità dei giudizii; nulla a sperare piegando a notevole dolcezza: più nol possono i cònsoli quantunque inclinati a volerlo di proposito. Le aderenze sono molte; gl’interessi di tutti sì tra loro confusi che lo scernergli senza parzialità, più che difficil impresa, v’ha chi la crede disperata. Nè noi chiamiamo nella città nostra un signore, bensì un magistrato: e poiché in qualunque stato, e in qualunque forma di governo forza è che vi sia a cui obbedire, che monta se questi sia cittadino o forestiero? Se v’è obbrobrio, come da taluno odo vociferar che vi sia, io per me nol veggo: obbrobrio è bensì scorgere ogni dì vilipesa la maestà delle leggi e chi la vilipende non punire; obbrobrio rimirare gli occulti maneggi di chi aspira a farsi tiranno: sebbene, che dico occulti? non più occulti ma pubblici, a tanto sono giunti di ardimento e di sicurezza. Obbrobrio vederli e comportargli e non mandarne gli autori al patibolo o al remo. Le discordie si compongano, le ambizioni si umiliino, le turbolenze si frenino! Sì davvero, si faccia: ma come? Non usaste ogni mezzo e non vi tornarono inutili? Ora dunque, perchè ricusare di tentare quest’uno? Perchè è novità? Ma no, non è novità: Lombardia e Toscana ne han fatto lodevole sperimento: direte è imitazione? Ebbene, sia, e che perciò? Non s’hanno dunque ad imitare le utili cose? Perchè tanta superbia, perchè non torre ov’ è per avventura il buono e il meglio? Io per me il torrei dai vicini e dagli amici non solo, ma dai nemici, dal demonio stesso se il demonio fosse mai per avere alcun che di buono. Pirro toglieva a’ Romani l’arte di guerreggiare: che sarebbe stato di lui se così fatto non avesse? Strano orgoglio in vero! Ricusar utile istituzione perchè altri l’usarono! Genova adunque persisterà in un reggimento dannoso perchè è reggimento de’ suoi padri? Ma potea esser utile, ed era, quando i nostri cittadini moveansi quieti per le vie; quando lo stato era in tutto dipendente dall’impero; quando le nostre navi e l’armi nostre non aveano per anco renduta la Repubblica oggetto degno dell’ambizione di molti. Cangiarono i tempi, cangisi a seconda di essi. Il buon nocchiero, per usare la comparazione dei dissenzienti, il buon nocchiero al mutar del vento, muta la vela: Genova muterà la forma del suo governo, nè con ciò la sua gloria soffrirà ecclisse, che anzi, risplenderà più bella e più degna d’invidia; nè gliene tornerà disprezzo, che disprezzo è là dov’ è debolezza, dissidii, confusione. Ben ci disprezzano ora fino i nostri vicini, fino i piccoli Baroni del paese, fin le più infime terriciuole che ad ogni ora drappellano lo stendardo della rivolta, e osano insultare alla Repubblica e perchè? Perchè non veggonla atta a punire le turbolenze interne non che le lontane. Ma se la Repubblica raunerà le sue armi ch’ or son disperse e senza pro, in un sol fascio, e le muovcrà con frutto a seconda dei suoi bisogni; oh per Dio che tornerà in tutti un salutare rispetto! Se le mie non sono ragioni, che sia ragione non so: questo so bene che siamo a tale di stremo che il progredire d’un simile passo è un andarne a certa rovina. Voi, padri, maturate nella vostra saviezza il parere e decidete.

Prevaleva dopo lunghe contrarietà questa sentenza, e per decreto del Consiglio veniva chiamato all’onorevole uffizio di Podestà per l’anno successivo Manigoldo Tetocio gentiluomo da Brescia che godea gran fama di prudenza, di giustizia, e di fermezza; ma quei di Castello che aveano messa e sostenuta la sentenza contraria, mal soddisfatti che così fossero ite le cose, deliberavano segretamente sperimentare se le coltella fossero ragioni migliori delle parole. Era tornato da To-lemaide dove avea operato col solito ardire quel Fulcone di Castello che già più volte vedemmo contristar la Repubblica con violenze e sangue. Quel superbo adunque, incapace di acquietarsi a ciò ch’ ei chiamava ingiuria, n’ andava sul finir dell’anno, spalleggiato da quei della sua fazione, ai consoli radunatisi per mettere in chiaro i loro conti, avvicinandosi il dì in cui doveano cessare dall’ufficio loro; e nella sala stessa del Consiglio, quell’audacissimo, si scagliava sovra Lanfranco Pevere console, e con molte pugnalate lo stendeva al suolo; con tal atto di ferocia negli altri, grave turbamento svegliando, e più grave timore incutendo. Perchè al Pevere, e non ai compagni di lui volgesse di preferenza l’armi il Fulcone, non è detto: forse che ne avea ricevuta speciale ingiuria; forse che il Pevere era stato più dei compagni sostenitore della sentenza che avea prevaluto: checché ne sia, lo trucidava, e ritiravasi alle sue case ove preparavasi alle difese aperte se di difese avesse avuto bisogno.

1191. Giungeva in questo mentre il novello Podestà, e ben avea di che dar pruova di quella fermezza, di quella prudenza, di quella giustizia che per fama l’aveano preceduto. Era la città per tanto misfatto commossa; erano i buoni in gravissimo pensiero; ma erano potenti e numerosi i perturbatori. Il Tetocio non isgomentava: raunava il popolo a parlamento, e prima ne tentava le disposizioni; poi con eloquente e persuasiva orazione mostravagli «essere un così atroce procedere incomportabile; niuno aver sicurezza, niuno aver pace se tanto eccesso n’andasse impunito. Lui confidare nella giustizia del popolo che deve punire chi osava por le mani nel sangue de’ suoi rappresentanti». E il popolo annuiva; e il Tetocio vedutosi assecondato, avviavasi alle case di quel truculento, e le svelleva dalle fondamenta: rovinava del pari una rocca posta sul culmine di Monteacuto, nido e ricovero di faziosi: ma i colpevoli sottraevansi alla giustizia, e n’ andavano in volontario bando. Non pertanto quietavansi gli animi, nè le ambizioni avean tregua. Erano come il ramo d’oro di Virgilio: ripullulavano con prestezza più rigogliosi, come sogliono far i mali semi: il bando di Fulcone e de’ suoi, avea resi più audaci i Della Volta, e quei da Corte, la cui potenza era stata spesso e quasi sempre tenuta in freno dai Castellani.

Costoro adunque adoprarono dapprima perchè si tornasse all’antica forma di reggimento, e vi riescivano: poi, forbivan l’armi radunando partigiani e clienti; e profondendo le ricchezze delle loro case, e facendo d’ogni erba fascio, perchè assoldavano cosi i buoni come i malvagi, venivano tra loro a fierissime contese onde recarsi in mano la somma delle cose. E a tanto d’orgoglio, e di scandalo erano giunti, o dirò meglio, a tanto d’umiliazione era venuta la Repubblica, che doveva vedergli scorrer per tutto e adoprar non solo le spade per le vie, ma le balestre in largo campo; e i mangani e gli arieti condurre sotto le case e le torri per assediarle e rovinarle. I consoli lavavansi, come si suol dire, le mani, e ritraevansi alle loro abitazioni dove si chiudevano a catenacci, e a sbarre, lasciando che il torrente infuriasse come volea, e come potea si calmasse. Che razza di governo fosse quello, ognuno lo vede; e come lo stato tardi o tosto dovesse andarne a compiuta rovina, o a dura servitù, non occorre il dirlo. Il rimedio a quel male era per iscaturire in parte da stanchezza, in parte anche da un sopravvento ottenuto da quei di Corte i quali, avendo fatto si che tre della loro fazione venissero al consolato, parvero starne contenti di questo trionfo. Intanto, le cure di una guerra esterna doveano, come spesso avviene, inchinar gli animi ad altri pensieri e spargere di qualche olio le piaghe dello stato.»

Ancora nel 1840 Goffredo Casalis nel suo corposo Dizionario Geografico-Storico-Statistico-Commerciale degli Stati si S.M. il Re di Sardegna scriveva.

«In Genova nel 1190 si era risvegliato cosi fieramente lo sdegno delle fazioni, che le pubbliche vie erano spesso bagnate di sangue cittadino, e le elezioni dei consoli, e dei magistrati più non si potevano fare liberamente, si venne per ciò bella risoluzione di mutare le forme del governo, abolire il consolato, e commettere, ad imitazione di altri italiani municipii, il reggimento della pubblica cosa ad un podestà forestiero. Dal che si vede quali pericoli erano allora nei governi popolari, i quali dando molto luogo all’invidia, facevano si che le città si dividessero in molte contrarie sette, abbracciassero alcune volte pessimi, e rovinosi partiti, e si conducessero in tanta debolezza ed irresoluzione da cader preda di qualunque potente le assaltasse. Per questa magagna la nostra infelice Italia trovavasi in si misera condizione, che i tirannelli facilmente in mille modi la travolgevano. E per giunta di sciagure la sua mala fortuna volle che niuno de’ suoi potenti sovverchiasse gli altri per mode da spegnerli, od imbrigliarli, come accadde in Francia, e presso altre nazioni.

Or dunque, a malgrado di una forte opposizione fatta da coloro che allibivano, alla signoria, per decreto del consiglio, venne chiamato all’uffizio di podestà in Genova, pel seguente anno 1191, un gentiluomo di Brescia, cioè Manigoldo Tetocio, il. quale era in grande rinomanza d’uomo giusto, prudente, ed integerrimo; ma i De Castello, che si erano calorosamente apposti alla nomina di un podestà forestiero, si misero a contristar la repubblica con ogni maniera di violenze; e quando sul finire dell’anno giunse da Tolemaide il superbo Fulcone, spalleggiato da quelli della sua fazione, entrò nella sala del consiglio, ed ivi scagliatosi sovra il console Lanfranco Pevere, con molte pugnalate lo stese morto a terra.

Arrivò in questo mentre (1191) il novello podestà, il quale all’udire il feroce caso raccolse il popolo, lo arringò con energiche parole, e vestitosi del suo abito militare, andò con alcune forze al palazzo di Fulcone, e lo fece immantinente atterrare; nè a ciò stando contento volle che fosse tosto agguagliata al suolo una rocca posta sul culmine di Monteacuto, nido, e ricovero di ribelli. Se non che Falcone e gli altri assassini si sottrassero al meritato castigo, fuggendo dalla città, e andando frettolosamente a ricoverarsi in Piacenza.

I Della Volta, e quei Da Corte, la cui possanza era stata quasi sempre tenuta in freno dai De Castello, si adoperarono con ogni mezzo, perchè si tornasse all’antica forma di reggimento; e poi giunsero, col profondere le loro ricchezze, a tanto d’orgoglio, e di scandalo, che abbattevano le case di quelli che ricusavano di assecondare il loro desiderio d’impadronirsi della somma del potere, ed osavano perfino assediare, ed abbattere le torri. I consoli più non trovando rimedii a tanto disordine si rinserrarono nelle loro abitazioni, ed ivi rimasero fintantoché le cure di una guerra esterna inclinarono gli animi ad altri pensieri. … Siccome i genovesi (1191) non vedevano risultare buoni effetti dalla nuora forma di governo, ristabilirono i consoli, i quali per altro non avevano che un’ombra di autorità, dappoiché la violenza delle fazioni metteva la capitale in istato di confusione, e d’anarchia. I capi degli opposti partiti assalivano con bellici stromenti gli uni le case, e le torri degli altri, e intanto i loro clienti si azzuffavano di continuo sulle pubbliche vie. Questi tumulti continuarono quasi per lo spazio di tre anni, cioè sino all’arrivo di Marcoaldo, o Marevaldo siniscalco dell’Imperatore, il quale temendo che le civili dissensioni impedissero l’eseguimento de’ suoi disegni, convocò una generale assemblea del popolo, a cui profuse le blandizie, e le promesse, e per averne i pronti soccorsi desiderati dall’Imperatore per una nuova spedizione in Sicilia, dimorò a lungo in Genova, adoperossi efficacemente a riconciliare gli animi discordi; e versatile, astuto com’era, fece ai cittadini, a nome del suo signore, le più larghe promesse, e li indusse ad eleggere un nuovo podestà nella persona di un Oberto Olevano da Pavia [1194]

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